LA PRESENZA IN BILANCIO DI UN CREDITO INESIGIBILE NON SVALUTATO INTEGRA LA FATTISPECIE AGGRAVATA DEL REATO DI BANCAROTTA IMPROPRIA DA FALSO IN BILANCIO.
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza decisa il 9 maggio 2017 n. 29885 ha chiarito che integra il reato di bancarotta impropria da falso in bilancio l’aver inserito, coscientemente, nei documenti contabili di una società, un credito inesigibile.
La sentenza in commento riguarda l’esame, da parte dei giudici della Suprema Corte, del ricorso di un amministratore di società avverso la sentenza dei giudici di prime cure per i delitti di bancarotta fraudolenta patrimoniale, bancarotta impropria da falso in bilancio e bancarotta semplice per aver aggravato il dissesto della società non richiedendo il fallimento. Di notevole rilevanza è stata la disamina in merito al reato di bancarotta impropria da falso in bilancio, rappresentato dall’aver inserito nel bilancio della società un credito inesigibile dal 2007, senza aver preventivamente proceduto alla svalutazione, di almeno il 90% di esso, secondo i principi contabili. Permettendo, in questo modo, alla società di proseguire la propria attività, nonostante la stessa avesse un patrimonio netto negativo, e pertanto sarebbe dovuta essere posta in liquidazione sin dal 2007, visto e considerato che il socio non ha mai espresso la volontà di procedere ad una ricapitalizzazione della società. Tutto ciò in beffa di altri soci, creditori e terzi che dal 2007 hanno intrattenuto rapporti commerciali e contrattuali con la società che apparentemente presentava un bilancio in attivo, quando in realtà si trovava in passivo, per via della mancata svalutazione del credito inesigibile, così come previsto dai principi contabili emanati dall’Organismo Italiano di Contabilità. Con il ricorso, l’amministratore della società lamentava il difetto di motivazione della sentenza della Corte d’Appello ed in ordine alla sussistenza del reato di bancarotta impropria da falso in bilancio lamentava l’applicazione dei principi contabili alla fattispecie de qua, i quali a parere del ricorrente non avevano un rango tale da poter integrare la norma penale ovvero l’art. 223 della legge fallimentare.
L’art. 223 della legge fallimentare al secondo comma, numero 1 disciplina l’ipotesi della c.d. bancarotta fraudolenta impropria la quale, per la determinazione della pena, rimanda all’art. 216, primo comma della legge fallimentare, relativa alla bancarotta fraudolenta. Pertanto, ai sensi dell’art. 223 L.F., viene applicata la pena prevista per il reato di bancarotta fraudolenta, a quei soggetti che hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società ponendo in essere alcune condotte tipizzate dal legislatore nel codice civile cui la norma fa rinvio e in particolare per il caso che qui ci occupa all’art. 2621 c.c. relativamente alle false comunicazioni sociali.
Con la sentenza n. 29885 del 2017, per l’ennesima volta dall’entrata in vigore della riforma del 2002, i giudici di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi sul tema del delitto di bancarotta impropria da falso in bilancio ed in particolare sulla rilevanza dei principi contabili, che avrebbero comportato la svalutazione di almeno il 90% del credito iscritto a bilancio in realtà inesigibile.
La statuizione della Quinta Sezione si è resa necessaria, da un lato, per dare un’interpretazione chiara ed univoca alla normativa fallimentare riformata dal legislatore del 2002 e, da ultimo anche, del 2015, ed in particolare, nel caso in esame, al disposto dell’art. 223 della legge fallimentare. Dall’altro per definire un uniforme orientamento all’ondivaga giurisprudenza della Suprema Corte, a cui si è assistiti all’indomani della riforma della legge fallimentare del 2002.
Infatti, dopo la riforma operata dal D.lgs. n. 61 del 2002, in particolare in merito alla portata dell’art. 223 della legge fallimentare, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate se la nuova formulazione dell’art. 223, secondo comma, numero 1 della legge fallimentare costituisca una semplice modifica legislativa ovvero comporti un’abolizione della precedente disciplina. Analoga questione è venuta a crearsi a seguito della modifica dell’art. 2621 c.c., cui rimanda l’art. 223 comma secondo, n. 1 della legge fallimentare, ad opera della legge n. 69 del 2015 che ha eliminato dall’art. 2621 c.c. l’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”. Ebbene, dopo il suddetto intervento riformatore del 2015, come ormai spesso accade poco chiaro, si sono affermati due orientamenti giurisprudenziali: un primo orientamento in base al quale l’intervento modificativo abbia determinato un effetto parzialmente abrogativo ed un secondo orientamento in base al quale la sopra richiamata modifica legislativa non abbia comportato tale effetto abrogativo e pertanto ritenendo ancora penalmente rilevante il c.d. falso valutativo.
Gli Ermellini nella sentenza in commento, sul tema della sussistenza del reato di bancarotta impropria da falso in bilancio, hanno sottolineato che i principi contabili sono rilevanti ed idonei ad integrare la fattispecie di reato prevista dall’art. 223 comma secondo n. 1 della legge fallimentare ovvero il c.d. falso valutativo. Adducendo altresì a motivazione che i principi contabili sono dei criteri tecnici generalmente accettati che consentono una corretta lettura delle voci di bilancio. I Giudici di Piazza Cavour hanno, quindi, rigettato le argomentazioni della difesa che riteneva i principi contabili irrilevanti e inidonei ad integrare la norma penale e conseguentemente di quel orientamento giurisprudenziale che riteneva abrogato la fattispecie del c.d. falso valutativo.
Invero, come dimostra il richiamo operato dai Giudici in sentenza di una precedente pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite ovvero la n. 22474 del 31.03.2016 sembra chiarire e cristallizzare l’orientamento giurisprudenziale prediletto, ovvero quello in base al quale si considera sussistente il reato di false comunicazioni sociali rappresentate anche da elementi valutativi generalmente accettati, come i principi contabili, dai quali è possibile discostarsi fornendo un’adeguata informazione e giustificazione onde evitare di indurre in errore i destinatari di tali comunicazioni.
In realtà, secondo i Giudici della Suprema Corte la condotta del soggetto agente nella fattispecie de qua era proprio quella qualificata ai sensi dell’art. 223, comma secondo n. 1 della legge fallimentare e del richiamato art. 2621 c.c. che viene rappresentata dal cosciente inserimento nei bilanci o in altre comunicazioni sociali, destinate ai soci o a terzi, di fatti materiali non rispondenti al vero, ovvero nell’omissione di fatti materiali rilevanti, così da indurre soci e terzi in errore o in modo tale da causare o aggravare ulteriormente il dissesto finanziario della società con l’assunzione di ulteriori impegni economici.
Dott. Gaspare Tesè