GIUDIZIALECONSULENZA NEWSLETTER N. 1 – MAGGIO 2017 SANITÀ
Illegittimità del criterio della spesa storica nella distribuzione dei budget. Violazione del principio della concorrenza con riguardo alle strutture di recente accreditamento.
Il Giudice Amministrativo, in numerose e recenti pronunce, ha avuto modo di affermare l’illegittimità di quelle disposizioni, dettate in sede di determinazione dell’aggregato di spesa e di riparto dei budget, che precludono l’accesso a soggetti privati accreditati (e quindi astrattamente in possesso di tutti i requisiti richiesti, ancorché, in atto, non contrattualizzati), al mercato delle prestazioni erogabili per conto del servizio sanitario pubblico.
In questi termini, la sentenza 16 settembre 2013, n. 4574 della III sezione del Consiglio di Stato, a tenore della quale “sebbene… il sistema sanitario nazionale legittimamente risulti ispirato alla necessità di coniugare il diritto alla salute degli utenti con l’interesse pubblico al contenimento della spesa, esso non può… prescindere dal contemplare anche … (la) tutela della concorrenza, irrimediabilmente lesa dall’automatica preclusione alla messa a contratto di nuovi soggetti accreditati“. I Giudici di Palazzo Spada, hanno condiviso la sentenza di primo grado, a tenore della quale “escludendo dal sistema, automaticamente ed indiscriminatamente, tutti i soggetti che negli anni precedenti non sono già stati parte di un contratto con la competente ASL, senza tenere conto, in particolare, della posizione degli operatori accreditati che abbiano fatto richiesta di essere ammessi ad erogare prestazioni a carico del servizio sanitario nazionale” si determina una “discriminazione tra gli operatori” illegittima.
Fermo restando, infatti, il tetto di spesa massimo, la ripartizione del budget tra i soggetti accreditati dovrebbe essere operata in base ad appositi criteri idonei a garantire condizioni di parità tra tali soggetti, a prescindere dal fatto che essi abbiano o meno sottoscritto in precedenza un contratto. In altri termini, il criterio della spesa storica, anche nel caso di risorse decrescenti, comporta, infatti, l’esclusione a tempo indefinito dal mercato di altri soggetti che si è ritenuto di poter accreditare, traducendosi in una illegittima discriminazione.
In termini sostanzialmente analoghi la sentenza del Tar Catanzaro n. 2525 del 19 dicembre 2016, a tenore della quale la determinazione dei tetti di spesa per le prestazioni di assistenza specialistica da privato in ragione del “costo storico” si pone in contrasto con i principi di tutela della concorrenza, se non siano adottati i necessari correttivi o se, quanto meno, non vi siano specifiche ragioni di tutela della sanità che la giustifichino.
Secondo la richiamata sentenza, infatti, “sebbene il sistema sanitario nazionale legittimamente risulti ispirato alla necessità di coniugare il diritto alla salute degli utenti con l’interesse pubblico al contenimento della spesa, esso non può prescindere dal contemplare anche la tutela della concorrenza (pur solo tendenziale in questa materia: cfr. T.A.R. Calabria – Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1323), irrimediabilmente lesa dall’automatica preclusione alla messa a contratto di nuovi soggetti accreditati (T.A.R. Lombardia – Brescia, Sez. II, 19 giugno 2012, n. 1083, condivisa sul punto da Cons. Stato, Sez. III, 16 settembre 2013, n. 4574)”.
Recentemente, il Tar Catania, con la sentenza n. 927 dell’1 aprile 2016, ha ritenuto in contrasto con il principio di concorrenza di derivazione comunitaria la previsione, contenuto in un decreto assessoriale recante la determinazione dell’aggregato regionale (art. 7 del Decreto dell’Assessore alla Salute della Regione Siciliana del 06/09/2013, secondo cui “nel caso in cui l’aggregato assegnato nel 2013 ad una singola branca non sia interamente fruibile in relazione alla domanda e/o alle potenzialità erogative delle strutture, i direttori generali delle Aziende sanitarie provinciali possono attribuire, nel limite del 50% delle eventuali economie per ciascuna branca che residua dopo l’applicazione di quanto previsto dal punto 3 del precedente art. 6, un budget anche a strutture accreditate ma in atto non contrattualizzate”), che condiziona la futura contrattualizzazione di strutture sanitarie già accreditate al realizzarsi di “eventuali economie per ciascuna branca”. Infatti, per quanto la previsione sia meno rigida di quella (art. 25 l. reg. n. 5/09) che precludeva in modo assoluto l’assegnazione di budget a soggetti accreditati ma mai prima di allora contrattualizzati (su cui v. Tar Palermo, n. 857/11), anche la norma del decreto assessoriale persevera nel riservare a questi ultimi un trattamento deteriore rispetto a quello riservato ai titolari di accordi contrattuali. Senza che, però, vi siano ragioni che giustifichino tale indiscriminata preferenza.
Legittime le clausole di salvaguardia previste negli accordi per l’erogazione delle prestazioni sanitarie a carico del Servizio Sanitario.
È legittima la clausola inserita nello schema tipo di accordo contrattuale tra gli erogatori privati accreditati con il SSR, nella parte in cui prevede a carico degli operatori privati, l’accettazione incondizionata dei provvedimenti che hanno fissato i tetti di spesa e determinato le tariffe per le prestazioni erogate, nonché la rinuncia ai contenziosi instaurabili contro i predetti provvedimenti.
Questo è il discutibile principio contenuto nella sentenza n. 1039 del 16 maggio 2016, con il quale il T.A.R. Catanzaro è stato chiamato a valutare la legittimità del decreto adottato dal commissario ad acta per l’Attuazione del Piano di Rientro dai Disavanzi del Settore Sanitario della Regione Calabria, con il quale è stato approvato lo schema tipo di accordo contrattuale per l’erogazione delle prestazioni sanitarie e socio sanitarie per conto ed a carico del servizio sanitario regionale.
La sentenza ha precisato che la predetta clausola può ritenersi legittima a condizione che i suoi effetti si producano solo nei confronti di provvedimenti già adottati, in quanto l’eventuale limitazione della tutela giurisdizionale di atti non conosciuti (o non ancora adottati) si porrebbe in contrasto con norme imperative, con riguardi all’art. 24 della Costituzione, e sarebbe, quindi, affetta da nullità ai sensi degli artt. 1418 e 1419 del c.c.
La sentenza del T.A.R. Catanzaro si pone in linea con la recente pronuncia del Consiglio di Stato, sez. III, (ordinanza n. 906 del 26 febbraio 2015), che ha riconosciuto la legittimità di un’analoga previsione inserita nello schema di accordo adottato dal commissario ad acta per la realizzazione del Piano di Rientro dai Disavanzi del Settore Sanità della Regione Abruzzo, precisando che: “gli operatori privati non possono ritenersi estranei a tali vincoli e stati di necessità, che derivano da flussi di spesa che hanno determinato in passato uno stato di disavanzo eccessivo nella Regione e che riguardano l’essenziale interesse pubblico alla corretta e appropriata fornitura del primario servizio della salute alla popolazione della medesima Regione per la quale gli stessi operatori sono dichiaratamente impegnati”.
Sul piano dell’effettività della tutela giurisdizionale, il principio espresso in tali pronunce costituisce un parziale passo indietro rispetto a quello in precedenza affermato dal Giudice amministrativo, che con maggiore larghezza in passato ha ritenuto illegittime clausole consimili, anche con riferimento a fatti precedenti alla rinuncia e a giudizi già in corso.
Si tratta, però, di un orientamento che va consolidandosi (cfr. Tar Lazio, 03/03/17, n. 3104: “Il rapporto tra diritto fondamentale alla difesa in giudizio con questo quadro normativo emergenziale è stato pure trattato dalla sezione, che seppure esaminandola come censura proposta da altro ricorrente avverso i due decreti impugnati n. 324 e n. 555 del 2015, ha osservato che, come affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.238/2014 il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale può essere limitato purchè vi sia un interesse pubblico riconoscibile come potenzialmente preminente sul principio consacrato dall’art.24 della Costituzione (TAR Lazio, III quater, 2 febbraio 2016, n. 1446). Ed in questo caso l’interesse pubblico preminente è individuato, in presenza di una dettagliata normazione di rango primario e di rango regionale in tema di contenimento della spesa pubblica sanitaria, (da ultimo Consiglio di Stato, sezione III, 19 luglio 2016, n. 3202, di conferma in senso reiettivo dell’appello alla sentenza della sezione n. 6199/2009; ed analogamente del 25 marzo 2016, n. 1244 di conferma in senso reiettivo dell’appello alla sentenza n. 6200/2009, nelle quali veniva posta in rilievo la natura emergenziale della legislazione in tema di Piani di Rientro) nella necessità di non aggravare detta spesa anche con quella derivante dal contenzioso”).
Il contributo del 2% previsto dall’art. 1, co. 39, L. n. 243/04, dovuto dalle società di capitali accreditate con il Servizio Sanitario Nazionale ha come base di calcolo il “fatturato annuo” attinente alle prestazioni specialistiche effettuate con l’apporto dei medici operanti con tali società.
Con undici recenti sentenze (nn. 11256, 11254, 11255, 11256, 11257, 11418, 11419, 11420, 11523, 11523, 11748 e 12107 del 2016), in parte tra loro identiche, la Corte di Cassazione ha interpretato l’esatta portata normativa dell’art. 1, co. 39, L. n. 243/04, ai sensi del quale “Le società professionali mediche ed odontoiatriche, in qualunque forma costituite, e le società di capitali, operanti in regime di accreditamento col Servizio sanitario nazionale, versano, a valere in conto entrata del Fondo di previdenza a favore degli specialisti esterni dell’Ente nazionale di previdenza ed assistenza medici (ENPAM), un contributo pari al 2 per cento del fatturato annuo attinente a prestazioni specialistiche rese nei confronti del Servizio sanitario nazionale e delle sue strutture operative, senza diritto di rivalsa sul Servizio sanitario nazionale. Le medesime società indicano i nominativi dei medici e degli odontoiatri che hanno partecipato alle attività di produzione del fatturato, attribuendo loro la percentuale contributiva di spettanza individuale”.
Interpretando l’esatta portata precettiva di tale norma, con particolare riferimento al concetto di “fatturato annuo”, sulla cui base l’ENPAM pretende il contributo del 2%, la Corte ha evidenziato che esso non riguarda l’intero fatturato della società, ma quella parte derivante dal regime di accreditamento con il Servizio Sanitario Nazionale. Tale quota di fatturato, in altri termini, rappresenta il controvalore di tutte le prestazioni di carattere specialistico rese dai medici e dagli odontoiatri, retribuite secondo i criteri indicati dal d. lgs.vo n. 502/92.
Secondo la Corte, tale interpretazione risponde ad esigenze di tipo solidaristico, che permettono di considerare i contributi quali strumenti finanziari della previdenza: “il medico in regime di libera professione e collaborazione con una società di capitali, in quanto svolge una prestazione di tipo professionale identica a quella dello specialista direttamente convenzionato (accreditato), beneficia a titolo di solidarietà (seppur nella misura diversa e inferiore del 2%) del contributo a carico dell’impresa accreditata, allo stesso modo con cui ne beneficia il medico o odontoiatra accreditato ad personam o facente parte di un’associazione di professionisti o di una società di persone, e ciò in forza dello stesso contratto di accreditamento con il Servizio sanitario nazionale. In tali sensi depone anche la funzione che l’ordinamento assegna a tali società, qualificandole come “partecipanti all’erogazione dei livelli essenziali di assistenza garantiti dallo Stato“, che, unita all’omogeneità delle prestazioni rese da tali strutture rispetto a quelle rese dal servizio pubblico, concorre a delineare un concetto “unitario” di servizio sanitario” (Cass. civile, sez. lav., 31/05/2016, n. 11256).
Con tali affermazioni, è stata, pertanto, respinta la tesi sostenuta da numerose società, secondo cui l’interpretazione che àncora al fatturato della società la base di calcolo della contribuzione previdenziale per i medici e gli odontoiatri finirebbe per sottoporre a contribuzione anche la quota di fatturato prodotto da soggetti diversi dal medico specialista (biologi, analisti, tecnici di laboratorio ecc.), i quali, comunque, concorrono a rendere possibile la prestazione sanitaria. A questo proposito, però, la Suprema Corte ha precisato che “la prestazione specialistica in questione è (per definizione) la stessa, nel senso che richiede la stessa organizzazione e il coinvolgimento delle stesse professionalità, sia che sia resa da una società di capitali o di professionisti, sia che sia resa dal singolo medico-persona fisica; la sua remunerazione è unica e fissata dall’autorità pubblica nel nomenclatore tariffario, anche sulla base di una valutazione complessiva dei costi che essa comporta. E così come non si dubita che il medico-persona fisica non possa scomputare dalla base di calcolo del contributo ENPAM da lui dovuto il valore dell’opera prestata dai collaboratori di cui si sia avvalso o il costo dei macchinari adoperati (oltre alla già prevista decurtazione riferita al costo dei materiali e alle spese prevista dai D.P.R. n. 119 e 120: artt. 7 e 4, richiamati dal regolamento ENPAM), altrettanto deve ritenersi con riguardo alla società di capitali che si avvale del medico specialista in regime di libera professione e che per la prestazione sanitaria da questi resa riceve dallo stesso Servizio sanitario nazionale la medesima remunerazione del primo. E analogamente a quanto previsto per il singolo medico professionista accreditato, l’Ente previdenziale si è dato carico di stabilire una quota di “abbattimento” della base contributiva volta a depurare il fatturato dai costi di produzione necessari per le prestazioni sanitarie specialistiche, attraverso il richiamo al D.P.R. n. 119 e D.P.R. n. 120 del 1988 (e alle percentuali previste in tali decreti) contenuto nel Regolamento del fondo della specialistica esterna, come modificato dagli artt. 1 e 2 con delibera n. 19 del 22 aprile 2005, approvata dai Ministeri vigilanti sulla fondazione ENPAM e assunta per dare attuazione alla L. n. 243 del 2004. Questa determinazione non è, come si sostiene nella sentenza impugnata e dalla stessa controricorrente, fuori da ogni previsione legislativa ma rientra nell’ambito dei poteri che l’ordinamento riconosce all’ente previdenziale nel D.Lgs. n. 509 del 1994, art. 2 laddove gli attribuisce autonomia gestionale, organizzativa e contabile, nei limiti ed “in relazione alla natura pubblica dell’attività svolta” (art. 2, comma 1) e gli impone di costituire una riserva legale preordinata ad assicurare la continuità nell’erogazione delle prestazioni ed a garantire l’equilibrio di bilancio (art. 1, comma 4, lett. c)” (Cass. civile, sez. lav., 31/05/2016, n. 11256).
La nuova riorganizzazione della rete ospedaliera ai sensi del d.m. 2 aprile 2015 n. 70: l’ospedalità privata alla luce del decreto 31 marzo 2017 dell’Assessorato della Salute della Regione siciliana.
Con decreto del 31 marzo 2017, pubblicato sul Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana n. 15 del 14 aprile 2017, l’Assessorato della Salute ha dettato disposizioni recanti la riorganizzazione della rete ospedaliera ai sensi del d.m. 2 aprile 2015 n. 70. Con particolare riferimento all’ospedalità privata, il decreto si propone, fra l’altro, di razionalizzare l’offerta ospedaliera privata, incentivando la riconversione dei posti letto acuti in post acuti, con la conseguente implementazione degli stessi, coerentemente alla programmazione complessiva regionale e per bacino, con maggiore attenzione a quelle province che presentino maggiori carenze.
La rimodulazione dell’offerta ospedaliera accreditata privata avverrà secondo i criteri forniti dal medesimo decreto, distinti a seconda che la casa di cura sia accreditata per meno di 40 o 60 p.l. acuti ovvero per un numero di p.l. acuti compreso fra 40 e 59.
Con riferimento al primo modulo (ossia, case di cura accreditate per meno di 40 o 60 p.l. acuti), il decreto pone una diversa disciplina distinguendo tra case di cura “non monospecialistiche”, case di cura “monospecialistiche” e case di cura “ad indirizzo specifico neuro-psichiatrico”, specificando nel dettaglio cui si rinvia (http://www.gurs.regione.sicilia.it/Gazzette/g17-15o/g17-15o.pdf) le particolari forme di riconversione previste per ognuna delle riferite categorie.
Rispetto al secondo modulo (ossia, case di cura con numero di p.l. acuti da 40 a 59), il decreto prevede che le strutture appartenenti ad un unico soggetto giuridico o gruppo societario potranno proporre la rimodulazione della loro articolazione mediante trasferimenti o concentrazione di p.l., coerentemente con il rispetto del fabbisogno e degli standard.
In particolare, le case di cura con p.l. accreditati per acuti in numero inferiore a 60, ma già autorizzate per 60 o più p.l. per acuti, potranno incrementare i letti accreditati fino a 60, fino al un massimo di 10 p.l. per ogni struttura, sempreché lo standard provinciale non sia saturo. È prevista, inoltre, anche per le case di cura con p.l. inferiore a 60, la riconversione in “monospecialista” o in post acuti.