Diritto Civile: Il risarcimento del danno anche alle coppie di fatto che non coabitano. (Cass. Civ. Sez. III n. 9178/2018)
Con l’espressione “famiglia di fatto” si identifica quella relazione sorta dalla semplice convivenza personale tra un uomo e una donna, in assenza di un vincolo matrimoniale.
Forma di aggregazione sociale che ha progressivamente assunto dimensioni davvero consistenti, inducendo da un lato il legislatore ad introdurre un’apposita regolamentazione dell’istituto e, parimenti, dall’altro lato un’intensa elaborazione giurisprudenziale, corroborata dai contributi della più moderna dottrina.
Pur non essendo invocabile l’art. 29 Cost. che fa espresso riferimento alla “famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, la famiglia di fatto ha ricevuto tutela costituzionale quale “formazione sociale” nella quale si estrinseca la personalità dell’individuo (ai sensi dell’art. 2 Cost.).
Con la legge n. 76 del 2016 (cosiddetta “Legge Cirinnà”) vengono per la prima vota introdotte e disciplinate nell’ordinamento italiano le convivenze di fatto (commi 36 e ss.).
In particolare per “conviventi di fatto” si intendono due persone maggiorenni unite stabilmente (anche senza registrazione della coppia all’anagrafe del Comune di residenza) da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, tra le quali non intercorrono rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile (comma 36 l. n. 76/2016).
Analizzando il caso del decesso del convivente, derivante da fatto illecito di un terzo, si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite (comma 49 l. n. 76/2016).
In tal modo il legislatore ha posto fine al dibattito sviluppatosi in passato sul punto.
Dibattito in cui anche la giurisprudenza, solo di recente, ha ammesso la risarcibilità del danno non patrimoniale (ex art. 2059 c.c.) sulla base della considerazione che anche la perdita del convivente more uxorio determina nell’altro soggetto una sofferenza analoga a quella che si ingenera nell’ambito della famiglia (matrimoniale), purché si dia prova della tendenziale stabilità e della consistente durata del rapporto.
Su tali basi normative e giurisprudenziali la Corte di Cassazione, tenendo conto anche dei tempi moderni e delle difficoltà economiche, ha recentemente riconosciuto la risarcibilità del convivente superstite anche in mancanza di una prova certa della convivenza, ponendo l’attenzione sullo “stabile rapporto affettivo fra i conviventi” corroborato da indizi che devono essere valutati in maniera unitaria e non frazionata (Cass. Civ. Sez. III n. 9178/2018).
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di una signora alla quale l’assicurazione aveva negato il diritto al risarcimento per la morte del compagno. In particolare il Giudice di merito adito aveva riconosciuto la relazione e la frequentazione regolare tra la coppia, tuttavia mancava la prova della convivenza, anzi risultava che il compagno aveva la residenza in un altro Comune.
La Corte di Cassazione, nel decidere sulla questione, ha fondato la propria decisione tenendo conto della situazione attuale con particolare riferimento alla crisi economica del Paese, che obbliga una coppia a vivere in case e Comuni diversi e distanti, senza però alterare il rapporto affettivo fra la coppia.
In aggiunta a tale ragionamento, nel caso erano presenti degli “indizi” sulla convivenza della coppia quali: un conto in comune, la scelta dello stesso medico di base, la presenza delle agende del compagno in casa della signora; tuttavia, alla luce di tali indizi il Giudice di merito, errando, non ha considerato l’unitarietà di queste circostanze, che comprovavano un rapporto affettivo stabile e ben consolidato tra la coppia.
Dott. Biagio Cimò