D.LGS. 231/01 IL SEQUESTRO PREVENTIVO FINALIZZATO ALLA CONFISCA DEVE ESSERE ADEGUATAMENTE MOTIVATO
La Sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sent. n. 14047/2024, ha sottolineato che anche nei processi riguardanti la responsabilità degli enti ex Decreto 231, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca deve necessariamente essere motivato in merito alle esigenze cautelari.
Anzi, tale obbligo motivazionale, secondo la Suprema Corte, sussiste a fortiori nelle ipotesi di sequestro preventivo avente ad oggetto il patrimonio dell’ente, in quanto tale misura sarebbe potenzialmente in grado di provocare effetti irreversibili rispetto alla sopravvivenza dell’ente stesso.
Tale situazione si verifica tutte le volte in cui il sequestro abbia ad oggetto beni e risorse necessari per la prosecuzione dell’attività aziendale.
Proprio in ragione della peculiarità della responsabilità ex D. Lgs.231/01, l’incidenza del sequestro finalizzato alla confisca, è tale da richiedere garanzie rafforzate e non certo inferiori rispetto a quanto previsto dalla normativa generale in tema di sequestro preventivo contenuta nell’art. 321 c.p.p.
L’esigenza di un’adeguata motivazione, precisa la Corte, non viene meno neanche qualora la capienza del patrimonio dell’ente risulti priva di particolare significato, in quanto il decreto di sequestro preventivo “richiede una specifica motivazione in ordine alle ragioni per le quali i beni suscettibili di apprensione, potrebbero, nelle more del giudizio, essere modificati, dispersi, deteriorati, utilizzati o alienati, tenendo conto della tipologia dei beni presenti nel patrimonio del destinatario della confisca, senza che, tuttavia, le esigenze cautelari possano essere desunte esclusivamente dall’incapienza del patrimonio rispetto al presumibile ammontare della confisca”.
Infatti, è la stessa natura delle misure cautelari che richiede la ricorrenza dei requisiti del fumus e del periculum e non vi è alcuna ragione, conclude la Cassazione, “per ritenere che il decreto di sequestro, adottato ai sensi dell’art.53 d.lgs. n. 231 del 2001, non debba contenere la sia pur sintetica motivazione in ordine alle esigenze cautelari che il sequestro mira a tutelare”.
Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS.231/01 PER LA CASSAZIONE INAMMISSIBILE LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE CONTRO L’ENTE
La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sent. n.3211/2024, ha riaffermato l’inammissibilità dell’istituto della costituzione di parte civile nei processi inerenti la responsabilità da reato dell’ente. Si tratta di un principio che la Suprema Corte aveva già sostenuto in numerose precedenti pronunce e che si basa, fondamentalmente, nella mancata previsione dello stesso all’interno del D. Lgs.231/01.
Già nel 2011, con la sent. n. 2251, la Cassazione aveva espressamente stabilito l’impossibilità di operare un’interpretazione analogica o estensiva delle norme del codice di procedura penale al fine di ammettere la costituzione di parte civile nei processi contro l’ente.
Sulla stessa scia si pone la sentenza in commento, che ribadisce che la mancata previsione dell’istituto non è da ricondurre ad una lacuna normativa ma ad una consapevole scelta del legislatore.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, “nel processo instaurato per l’accertamento della responsabilità da reato dell’ente non è ammissibile la costituzione di parte civile, atteso che l’istituto non è previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001 che in ogni sua parte non fa mai riferimento alla parte civile o alla persona offesa”.
La mancata previsione dell’istituto, sarebbe riconducibile ad una “scelta consapevole del legislatore, che ha voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla regolamentazione codicistica” in quanto “l’illecito amministrativo ascrivibile all’ente non coincide con il reato, ma costituisce qualcosa di diverso, che addirittura lo ricomprende, sicché deve escludersi che possa farsi un’applicazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che invece contengono un espresso ed esclusivo riferimento al reato in senso tecnico”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS.231/01 RESPONSABILITÀ DELL’ENTE E CRITERI DI IMPUTAZIONE IN CASO DI INFORTUNI SUL LAVORO
La terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n.4210/2024, ha stabilito che si configura la responsabilità da reato dell’ente ex d.lgs.231/01 in caso di violazione della normativa cautelare perpetrata allo scopo di conseguire un’utilità per l’ente.
In particolare, la Suprema Corte ha chiarito quali sono i criteri di imputazione in tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica.
Tali criteri sono previsti dall’art.5 del Decreto 231 e sono rappresentati dall’“interesse” o “vantaggio” derivanti all’ente dalla commissione del reato presupposto.
In particolare, sostiene la Corte che detti criteri ricorrono, rispettivamente, “il primo, quando l’autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l’ente, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento, e, il secondo, qualora l’autore del reato abbia violato sistematicamente le norme antinfortunistiche, ricavandone oggettivamente un vantaggio per l’ente, sotto forma di un risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso”.
Inoltre, ai fini della configurabilità della responsabilità dell’ente, non rileva l’esiguità del vantaggio o la scarsa consistenza dell’interesse perseguito, dal momento che anche la mancata adozione di cautele che comportino anche il minimo risparmio di spesa può comportare la commissione di reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS. 231/01 L’ENTE RISPONDE PER “FATTO PROPRIO” SE NON VENGONO ADOTTATI ACCORGIMENTI IDONEI AD EVITARE LA COMMISSIONE DI REATI
La Corte di Cassazione, con la sentenza n.1971/2024, ha ulteriormente rafforzato un principio già consolidato in tema di responsabilità da reato dell’ente.
Ai fini della configurabilità di detta responsabilità, sostiene la Suprema Corte, non basta la mancanza o l’inidoneità di modelli di organizzazione, essendo altresì necessaria la cd “colpa di organizzazione”.
Il concetto di “colpa di organizzazione”, più volte richiamato dalla Cassazione nelle pronunce riguardanti la responsabilità dell’ente, deve essere tenuta distinta dalla colpa degli autori del reato.
La struttura dell’illecito addebitabile all’ente è infatti incentrata sul reato presupposto e permette di escludere che possa essere attribuito all’ente un reato commesso sì da soggetto incardinato nell’organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questa. Il legislatore, infatti, all’art. 5 d.lgs.231/01, ha richiesto quale presupposto di imputazione della responsabilità all’ente, che il reato sia commesso nel suo interesse o a suo vantaggio.
La “colpa di organizzazione” richiesta ai fini dell’affermazione della responsabilità in capo all’ente è da intendere in senso “normativo”, ricollegata cioè al rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione di reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità dell’ente.
Ciò consente di affermare che “l’ente risponde per “fatto proprio” e che – per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva – deve essere verificata una “colpa di organizzazione” dell’ente, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaCORTE COSTITUZIONALE Sent. N. 41/24. Affermato un principio di grande civiltà giuridica. Il decreto di archiviazione non deve contenere motivazioni incriminanti. Pena gravi responsabilità del magistrato richiedente o emittente.
Secondo la Consulta il provvedimento e\o il decreto di archiviazione che contiene elementi che fanno presupporre la colpevolezza dell’indagato viola «in maniera eclatante», sia la presunzione di non colpevolezza (art. 27, co. 2° Cost.), che il diritto di difesa.
La Consulta è durissima laddove precisa che nell’ipotesi in cui l’archiviazione dovesse contenere elementi incriminanti che «sono in concreto suscettibili di produrre, ove per qualsiasi ragione arrivino a conoscenza dei terzi, come spesso accade, gravi pregiudizi alla reputazione, nonché alla vita privata, familiare, sociale e professionale, delle persone interessate. Ciò che, in ipotesi, potrebbe dare altresì luogo a responsabilità civile e disciplinare dello stesso magistrato» che ha richiesto o emesso il provvedimento.
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on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS.231/01 APPLICABILE LA DOPPIA SANZIONE SE GLI ILLECITI NON SONO SOVRAPPONIBILI
La legge delega fiscale (L. n.111/2023) mira ad una revisione del sistema sanzionatorio, penale e amministrativo, puntando ad una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione. Il fine della legge è quello di giungere ad una completa attuazione del principio del ne bis in idem, che si configura quando i fatti contestati siano giuridicamente identici nei propri elementi strutturali.
Tale situazione, con riferimento al rapporto tra i procedimenti amministrativo e penale eventualmente scaturenti da violazioni di natura fiscale, è regolata dal D. Lgs.74/2000 il quale, introducendo il principio di specialità, prevede che quando una medesima violazione è punita da una sanzione penale e da una sanzione amministrativa “si applica la disposizione speciale” (“in concreto, il più delle volte risulterà speciale la norma penale”, così C.M. 4 agosto 2000, n.154).
Questo principio, nella realtà, non ha mai trovato effettiva applicazione, innanzitutto perché è necessaria l’identità del trasgressore. Pertanto, in concreto, sembrerebbe operare solo per le violazioni commesse nell’ambito di imprese individuali, artisti o professionisti ovvero associazioni o enti privi di personalità giuridica, con conseguente esclusione di tutte le violazioni tributarie costituenti reato commesse da società, in quanto per la parte fiscale ne risponde l’ente e per quella penale la persona fisica.
A tale riguardo, la bozza di decreto delegato introduce nel D. Lgs.74/2000 l’art. 21 ter, puntando ad estendere il principio di specialità anche nel rapporto tra la sanzione tributaria e la corrispondente sanzione amministrativa dipendente da reato ex D. Lgs.231/01. Tale bozza, tuttavia, non sembra essere molto efficace. Non vengono superate, infatti, le criticità già presenti nell’attuale disciplina, in quanto, anche in questo caso, per evitare la doppia sanzione sarà necessaria la perfetta coincidenza tra i due illeciti, eventualità esclusa dalla Cassazione che ha sempre ritenuto le violazioni non sovrapponibili.
Un tentativo di superamento di tale problema da parte del legislatore delegante deriva dalla previsione secondo cui, se per lo stesso fatto è stata applicata al soggetto una sanzione penale o una sanzione amministrativa o una sanzione amministrativa dipendente da reato ex Decreto 231, il giudice o l’autorità amministrativa, al momento della determinazione della sanzione di propria competenza, tiene conto di quelle già applicate. Da ciò emerge chiaramente che la norma si presenta come una disposizione di principio che lascia ampi margini di discrezionalità al giudice e all’autorità amministrativa e che porta a ritenere difficilmente superabile il problema della “doppia sanzione”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaD.LGS.231/01 L’ISTITUTO DELLA MESSA ALLA PROVA NON TROVA APPLICAZIONE NEI PROCEDIMENTI INERENTI LA RESPONSABILITÀ DELL’ENTE
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n.14840/2022, hanno risolto la questione interpretativa riguardante l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova di cui all’art. 168 bis c.p. ai procedimenti riguardanti la responsabilità da reato dell’ente ex Decreto 231.
A fronte degli orientamenti contrastanti dei giudici di merito sul tema, le Sezioni Unite hanno risolto negativamente la questione concludendo nel senso della inapplicabilità dell’istituto in esame ai procedimenti riguardanti l’ente.
Il ragionamento della Suprema Corte prende le mosse dall’analisi della natura della responsabilità da reato dell’ente, che viene considerata un tertium genus rispetto ai modelli tradizionali di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa. Infatti, il sistema normativo introdotto dal D. Lgs.231/01, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, costituisce un corpus normativo di peculiare impronta. D’altro canto, sempre nella medesima pronuncia si evidenzia che la messa alla prova ex art. 168 bis c.p. deve, invece, inquadrarsi nell’ambito di un “trattamento sanzionatorio” penale.
Di conseguenza, conclude la Corte, che “l’istituto della messa alla prova non può essere applicato agli enti, a ciò ostando, innanzitutto, il principio della riserva di legge di cui all’art. 25, comma 2, della Costituzione. L’introduzione attraverso provvedimenti giurisdizionali di un trattamento sanzionatorio ad una categoria di soggetti – gli enti – non espressamente contemplati dalla legge penale, si pone in contrasto con il principio di legalità della pena, del quale la riserva di legge costituisce un corollario”.
Inoltre, a parere della Corte, la messa alla prova sarebbe insuscettibile di trovare applicazione nei confronti dell’ente, in quanto la disciplina di cui all’art. 168 bis c.p. è disegnata e modulata specificamente sull’imputato persona fisica e sui reati allo stesso astrattamente riferibili.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaIL CONDOMINO MOROSO PUO’ PAGARE DIRETTAMENTE IL TERZO CREDITORE (Cass. Sez. Civile III, ordinanza n. 34220/2023)
La Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha riconosciuto al singolo condomino moroso, al fine di evitare eventuali azioni forzose nei suoi confronti, la possibilità di pagare direttamente il terzo creditore.
In un condominio, in caso di forniture o appalti con soggetti terzi è l’amministratore, quale rappresentante del condomino, che assume gli obblighi e deve effettuare i pagamenti al fornitore o all’appaltatore; pertanto, il condomino versa le somme dovute a titolo di quote condominiali e l’amministratore, a sua volta, estingue il debito con il terzo creditore.
Nel caso in cui vi siano uno o più condomini che non abbiano versato la propria quota relativa al debito contratto con il terzo, l’amministratore, in ossequio all’art. 63 delle disp. att. del Codice Civile ha l’obbligo di consegnare la cd. “lista dei morosi” al terzo creditore per poter permettere allo stesso di agire a tutela del proprio diritto di credito.
Nella vicenda in esame una ditta edile creditrice di un condominio, dopo aver ottenuto un decreto ingiuntivo contro il condominio stesso e la detta “lista dei morosi” da parte dell’amministratore, aveva intimato il pagamento del credito restante ai tre condomini morosi con tre precetti differenti.
I tre condomini morosi, in opposizione all’esecuzione dei precetti, contestavano il calcolo dell’importo dovuto poiché non si poteva richiedere l’intero importo non ancora versato alla ditta ma questa doveva calcolare per il singolo condomino moroso l’importo complessivo allo stesso spettante in proporzione: alle proprie quote di partecipazione al condominio in millesimi e l’intero corrispettivo dovuto all’impresa edile per i lavori eseguiti, detraendo eventuali importi già pagati.
La Cassazione, dando ragione preliminarmente alle richieste dei condomini morosi sull’importo dovuto pro quota, ha colto l’occasione per enunciare il principio in commento ovvero che è ammesso il pagamento diretto da parte del condomino moroso della propria quota al terzo creditore senza passare dall’amministratore.
Avv. Biagio Cimò
ContinuaD.LGS.231/01 SI CONFIGURA RESPONSABILITÀ DELL’ENTE ANCHE IN CASO DI REATO COMMESSO DA SOGGETTI CHE ESERCITANO UN CONTROLLO SOLO DI FATTO
La Corte di Cassazione, con la sentenza n.3211/2023, ha esteso la nozione di controllo rilevante al fine di ritenere sussistente la responsabilità da reato dell’ente.
Con la sentenza in commento, infatti, la Corte chiarisce che il riferimento dell’art. 5 D. Lgs.231/01 alle “persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente”, non si riferisce soltanto ai soggetti che, pur non avendo la maggioranza dei voti in assemblea, esercitino comunque un’influenza dominante, ma anche ai soggetti che pur non rivestendo una carica formale all’interno della società, si trovano, di fatto, ad esercitare un’attività di controllo che “ricomprende anche l’attività di vigilanza o, comunque, di verifica e incidenza nella realtà economico-patrimoniale della società, sovrapponibile a quella svolta dai sindaci o dagli altri soggetti a ciò formalmente deputati”.
Pertanto, nel caso in cui il reato sia commesso a vantaggio dell’ente da soggetti che non rivestono una carica formale all’interno della società, ma in punto di fatto si trovano ad esercitare una posizione di controllo, si configura la responsabilità dell’ente ex Decreto 231.
Nella medesima pronuncia la Suprema Corte specifica, inoltre, che se il reato è commesso da soggetti che esercitano un ruolo di controllo e di gestione solo di fatto, la società è chiamata a rispondere anche in presenza di un Modello organizzativo, che non esplica, in tale caso, efficacia esimente. Infatti, se la società è gestita in modo occulto, vuol dire che la stessa non si è dotata di sistemi organizzativi per la prevenzione dei reati “che dunque non possono considerarsi adeguati, anche ove gli stessi siano conformi ai codici di comportamento approvati dal ministero della Giustizia”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaD.LGS.231/01 LA SANZIONE DELLA SOSPENSIONE O REVOCA PUÒ RIGUARDARE ANCHE UNA SOLA AUTORIZZAZIONE
Con la sent. n.47564/2023, la Corte di Cassazione ha segnato i confini tra le sanzioni interdittive applicabili all’ente in caso di responsabilità amministrativa da reato dello stesso.
L’elenco delle sanzioni interdittive è contenuto nell’art. 9 co.2 del d.lgs. 231/01 “Le sanzioni interdittive sono: a) l’interdizione dall’esercizio dell’attività; b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi”.
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce la portata delle sanzioni interdittive di cui alle lett. a) e b) dell’art. 9, specificando che la sanzione della sospensione o revoca di cui alla lettera b) può riguardare anche una sola autorizzazione e non necessariamente occorre bloccare tutti i nulla osta, altrimenti detta sanzione sarebbe del tutto equiparabile a quella di cui alla lettera a), ovvero l’interdizione dall’esercizio dell’attività.
Nella vicenda che ha dato origine alla pronuncia della Corte era stata applicata in via cautelare ad un’impresa la sanzione dell’interdizione dall’esercizio dell’attività, poi sostituita con quella della sospensione delle autorizzazioni in sede di riesame.
A fronte del ricorso presentato dal Pm secondo cui la sanzione della sospensione si riferirebbe “ai soli provvedimenti che legittimano, in tutto o in parte, lo svolgimento dell’attività d’impresa”, la Cassazione si è espressa nel senso che tale interpretazione “contrasta con la lettera stessa della legge che circoscrive la sua portata ai provvedimenti amministrativi funzionali alla commissione dell’illecito”.
Pertanto, in sede di applicazione di una misura cautelare, il giudice deve limitare il provvedimento cautelare a quell’attività dell’ente alla quale si riferisce l’illecito.
La Corte ha altresì ricordato che la risposta sanzionatoria nei confronti dell’ente deve sempre essere coerente al principio di gradualità e proporzionalità, espressamente sancito dal decreto 231.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
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