Omesso versamento IVA. #Art.10ter #dlgs74/00 #omessoversamento #Iva
La Cassazione con la sentenza n. 28488/2020 conferma un orientamento restrittivo ed estremamente punitivo nei confronti delle imprese in crisi.
In pillole: 1) secondo la S.C. il debito tributario va sempre pagato; 2) la causa di forza maggiore (art. 43 c.p.) può essere invocata quando costituisce l’unica causa che ha dato corso all’impossibilità oggettiva di pagare i debiti con l’Erario; 3) la mancanza di liquidità non costituisce causa di forza maggiore, considerato che il reato si consuma se non viene rispettata la scadenza annuale con il fisco, quindi l’imprenditore avrebbe un anno di tempo (termine per la dichiarazione annuale) per programmare e pagare; 4) la scelta di pagare i dipendenti e non il fisco integrerebbe pienamente il dolo perché l’imprenditore deliberatamente sceglie chi pagare.
L’orientamento non può essere condiviso anche alla luce della pandemia in atto che ha costretto le imprese ad un nuovo assetto organizzativo, a seguito della riforma dell’art. 2086 c.c., che impone assetti organizzativi adeguati alle dimensioni a natura dell’impresa.
Lo scenario Covid imporrebbe il riequilibrio del quadro normativo complessivo, soprattutto fiscale, nella contingenza degli effetti della crisi pandemica. Che il legislatore ascolti e spero provveda, solo così si può evitare il default del sistema economico italiano.
on. avv. Giuseppe Scozzari
Continua#Covid-19 # Deposititelematici #dirittodidifesa
Il Governo, per fronteggiare l’emergenza nazionale legata al contagio da Coronavirus e, allo stesso tempo, evitare un nuovo blocco dell’attività giudiziaria, ha cercato di digitalizzare quanto possibile introducendo il divieto di deposito cartaceo in luogo del telematico e rimettendo ai Presidenti dei vari uffici giudiziari la regolamentazione di tutti gli altri aspetti.
La conseguenza? Termini, modalità e regole diverse da un ufficio giudiziario ad un altro, senza un raccordo comune e senza prevedere una sospensione dei termini in caso di disservizi o tilt informatici.
Primo caso: Il foro del Riesame di Milano, considera inammissibili le impugnazioni trasmesse a mezzo pec (secondo il Consiglio direttivo della Camera penale) per una errata interpretazione di una decisione della Cassazione del 3 novembre scorso che sancisce, appunto, l’inammissibilità delle impugnazioni (cfr. sent. n. 2840/2020).
Una sentenza superata, però, dal decreto Ristori secondo il quale per tutti gli atti, documenti e istanze, diversi da quelli indicati nell’avviso di conclusione delle indagini, è prevista la possibilità di deposito con valore legale mediante posta elettronica certificata; nonché dal D.M. del 9 novembre 2020, nel quale vengono indicate le Pec e le modalità di formazione degli atti digitali.
La posizione del Tribunale del Riesame di Milano, al momento, è un unicuum e quindi si confida che tutto rientri. La preoccupazione però, per gli avvocati della Camera penale, è che al Riesame è in gioco la libertà delle persone e, come afferma il Presidente dell’ordine degli avvocati di Milano, V. Nardo: “Se un giudice ti preannuncia che l’impugnazione via pec verrà dichiarata inammissibile, è chiaro che un avvocato, per cautela, si recherà in tribunale a depositare personalmente, vanificando la ratio della norma e tutte le battaglie per la sicurezza fatte in questi mesi”.
Secondo caso: Il vicepresidente della Corte d’Appello di Napoli, in tema di disservizi che impediscono il deposito telematico degli atti, si è appellato alla “benevolenza” dei magistrati per la concessione della rimessione in termini. Sul punto si è espresso il Presidente delle Camere civili di Napoli, A. de Notaristefani che, seppur riconoscendo le buone intenzioni del suddetto invito, ha ritenuto assurdo e inaccettabile che il diritto di difesa sia rimesso alla “benevolenza di un giudice” che decide a suo piacimento se concedere o meno la rimessione in termini ex art. 153 comma 2 c.p.c.
Alla luce di tale situazione, sono diversi i nodi da sciogliere che investono sia questioni di principio normativo-costituzionali sia di carattere organizzativo (difficoltà di collegamento e supporti tecnici). Dubbi, contrasti e incertezze in un delicato momento storico per il Paese che dopo mesi spesi tra lockdown e coprifuoco spera in una, seppur graduale e lenta ripresa. Si auspica, dunque, un celere intervento del Governo che riveda e preveda norme chiare e uguali in tutti i Tribunali italiani.
Dott.ssa Daniela Cappello
Continua
Riciclaggio: per la Cassazione non sussiste se non vi è prova del reato presupposto. #Riciclaggio #Cassazione #sentenzagarantista
Con la sentenza n. 32112/20, la Cassazione interviene in relazione ad un sequestro penale di somme di denaro detenute senza alcuna giustificazione.
Secondo la Corte regolatrice la disponibilità di denaro ad opera di un nullatenente, anche con precedenti, non prefigura il reato di riciclaggio se il pubblico ministero non fornisce indizi relativi al reato presupposto.
Si tratta di una sentenza garantista che muove da un principio assolutamente corretto e soprattutto in ossequio al principio dell’onere della prova che non può essere a carico dell’imputato come spesso accade.
Per la S.C., che ha annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame, nelle ipotesi di reato di riciclaggio va individuata la condotta del reato presupposto indicando in caso di sequestro l’origine del bene da sottoporre a sequestro.
Nel caso in esame i Carabinieri procedevano al sequestro di € 65.870 ad un soggetto nullatenente con precedenti penali, ma secondo la Corte non veniva fornito alcun indizio in merito al reato presupposto, ritenendo non sufficiente la mera supposizione della sussistenza di operazioni sospette.
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaDichiarazioni infedeli: la sussistenza del reato va verificata quantificando l’imposta evasa da ciascun socio. #cassazione #reatitributari #dichiarazioneinfedele
Con la sentenza n. 31195/2020, la Corte di Cassazione, sezione III penale, ha statuito che nel caso di reato di dichiarazione infedele (articolo 4 del D.lgs. n. 74/2000) commesso da società personali, la sussistenza del reato va verificata quantificando l’imposta evasa da ciascun socio.
Nel caso al vaglio della III sezione penale della Corte, il tribunale del riesame confermava il sequestro preventivo ai fini di confisca per il suddetto reato ascritto ai soci/amministratori di una Sas. Gli stessi, nel ricorso per cassazione, lamentavano invece la mancata analisi dei redditi e la conseguente asserita violazione in capo ai singoli soci.
La Suprema Corte – pur respingendo il ricorso – ha offerto una corretta e coerente interpretazione della norma, stabilendo che il reato di dichiarazione infedele può essere integrato anche mediante la presentazione della dichiarazione in nome della Sas ma che, in tal caso, l’imposta sui redditi evasa deve essere calcolata avendo riguardo al reddito dei singoli soci.
Tale decisione, rivoluzionaria anche rispetto al precedente contrario indirizzo espresso nella sentenza n. 19228/2019, fornisce un condivisibile orientamento, favorevole ai contribuenti: invero, riferendosi alle singole dichiarazioni dei soci, per configurarsi il reato, ciascuna di esse dovrà sottrarre a tassazione almeno € 100.000 di Irpef.
Dr. Roberto Sciacchitano
Continua#Trojanhorse #captazionicolloqui #colloquiriservati
Per la Cassazione (sent. 31604/2020) il sistema di captazione attraverso il “trojan” oltre ad essere legittimo non è subdolo.
Cos’è il trojan? In realtà è un sistema di captazione di conversazioni molto subdolo. Perchè è subdolo? Perchè a volte viene istigata l’auto-installazione di un’app con costi a carico del soggetto spiato.
La S.C. con la citata sentenza ne ha sancito la assoluta legittimità, con un distinguo: solo se la captazione tra presenti è vietata (ad esempio tra un avvocato ed il proprio assistito), questa ma solo questa è inutilizzabile.
La Corte regolatrice ne statuisce la tipicità del captatore informatico, asserendo che esso era utilizzato prima della riforma Bonafede. Da tale assunto ne consegue, sempre secondo la S.C., che il trojan possa essere inquadrato tra gli strumenti di pressione sulla libertà fisica e morale.
on. avv. Giuseppe Scozzari
Continua#Giovaniavvocati #neolaureati #collaboratoristudio
Scozzari & Associati è alla ricerca di due neolaureati in Giurisprudenza, per la sede di Agrigento, da inserire nella propria organizzazione.
Requisiti richiesti: ottimo CV universitario con indicazione della tipologia di tesi; dimostrazione della assoluta disponibilità a lavorare in maniera intensa ed impegnata, anche attraverso spostamenti all’interno del territorio siciliano.
L’impegno richiesto riguarderà le materie del diritto penale tributario, societario, “collar white crime” ed ambientale, la cui formazione sarà a cura dello studio. La conoscenza della lingua inglese è titolo di preferenza.
Si procederà attraverso un colloquio iniziale, ed una breve prova scritta in una data successiva concordata.
La ricerca riveste il carattere di urgenza, con disponibilità immediata o a breve termine.
Gli interessati sono pregati di inviare al seguente indirizzo mail il proprio curriculum: info@scozzarieassociati.it
avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaINTERDITTIVE ANTIMAFIA. In aumento durante il lockdown. Un potere devastante che sfugge di fatto al controllo giurisdizionale. Auspicabile una riforma.
Nonostante il lockdown le Prefetture hanno emesso un numero maggiore di interdittive rispetto al 2019, con un trend di crescita di oltre il 25%.
L’obiettivo delle interdittive è ben noto ossia evitare l’infiltrazione illegale nell’economia legale. A volte però una interdittiva paradossalmente produce l’effetto opposto, ossia consegna all’economia illegale una azienda che con grande difficoltà cerca di rimanere legalmente in vita facendo i conti con contesti sociali ed urbani complicati.
Una azienda interdetta è una azienda morta, a cui viene negato ogni sorta di rapporto con lo Stato e le amministrazioni periferiche.
Spesso con estrema leggerezza le prefetture emettono interdittive sulla base di semplici illazioni, altro che indizi gravi precisi e concordanti, emergenti nelle relazioni superficiali delle forze di polizia.
Il dato oggettivo, peraltro, che emerge da una analisi delle decisioni giurisdizionali amministrative è che manca qualsiasi controllo giurisdizionale. I T.A.R. ed il Consiglio di Stato, infatti, raramente annullano una interdittiva, con il triste risultato che un provvedimento che ha effetti devastanti simili a quelli di una sentenza penale, viene gestito da una autorità amministrativa (Prefetto e forze di polizia), sfuggendo di fatto a qualsiasi controllo giurisdizionale.
Il tribunale di Palermo ha sollevato una corretta questione di legittimità costituzionale rigettata dalla Corte, anche se in quel provvedimento di rigetto vi sono delle opportune puntualizzazioni. Per Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali «È uno dei problemi cruciali del rapporto tra amministrazione della giustizia e sistema economico – dice – Ed ormai è un’emergenza. Il Consiglio di Stato respinge il 100% dei ricorsi».
La soluzione? Basterebbe giurisdizionalizzare il procedimento che porta all’interdittiva antimafia, circostanza che darebbe maggiori garanzie alle imprese.
#interdittive #antimafia #prefettura #lockdown #aumentointerdittive #nessuncontrollo #giurisdizionale
on. avv. Giuseppe Scozzari
Continua#confisca #sequestro #nuovorientamento #cassazione #proporzionalità #peculato #truffaaggravata #contocointestato
Finalmente la Cassazione muta orientamento in merito alla sequestrabilità di un conto corrente cointestato.
Di estremo interesse la sentenza della VI sez. penale n. 25427-20, che accogliendo il ricorso di una indagata ha sancito che è illegittimo il sequestro finalizzato alla confisca di un conto corrente bancario se esso è cointestato a persona non indagata.
Tale orientamento supera un ingiusto ed eccessivo precedente orientamento, che consentiva il sequestro indiscriminato di conti correnti, anche quando ad esempio in esso vi erano somme di un terzo estraneo ai fatti.
Si tratta di una procedimento penale per fatto di peculato e truffa aggravata a carico di una dottoressa, che aveva un conto cointestato con il suo ex marito.
In sostanza i giudici di legittimità hanno ristretto il perimetro della misura cautelare a tutela di chi non ha avuto alcun ruolo nell’indagine.
La Cassazione precisa che a nulla serve la sola disponibilità ma «quanto piuttosto il fatto che il denaro sia causalmente riconducibile allo stesso indagato, provenga cioè da questi, perché solo ciò consente di affermare, in ragione della sua fungibilità, che quel bene sia profitto o prezzo del reato».
on. avv. Giuseppe Scozzari
#Art.595cp #reatipenali #diffamazioneaggravata #postsuisocial
Rischia una condanna per diffamazione aggravata chi pubblica un post offensivo e/o diffamatorio sulla propria bacheca Facebook.
Il Tribunale di Campobasso, con una recente sentenza, si è pronunciato sulla rilevanza penale dell’uso distorto dei social network. Ed infatti, con la sentenza n. 574/2019, ha affermato che l’utilizzazione della bacheca di Facebook per insultare l’ex partner costituisce reato di diffamazione aggravata ex art. 595 terzo comma cod. pen. punibile con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.
Il caso: un uomo sporgeva querela per diffamazione aggravata nei confronti della sua ex compagna, la quale aveva pubblicato un post su Facebook in cui lo accusava di “non passare un euro” al figlio ed in cui lo metteva a paragone con il nuovo compagno, che al contrario, si prendeva cura di un figlio non suo. Il post “incriminato” veniva, in brevissimo tempo, visionato da un numero imprecisato di utenti, ricevendo nel giro di qualche ora, numerosi “Mi piace”, commenti e diverse condivisioni, divenendo così virale.
Il giudice ha ritenuto penalmente responsabile l’imputata per il reato a lei ascritto, affermando che:
-le dichiarazioni della donna non fossero del tutto veritiere –l’ex partner, infatti, non aveva ottemperato solo alle ultime cinque mensilità dell’assegno di mantenimento- avendo peraltro interposto richiesta di assegnamento esclusivo del figlio presso di lui;
-il contenuto del post fosse effettivamente lesivo della reputazione dell’uomo, considerato che i social network, consentono visibilità e rapida diffusione di contenuti tra un gruppo di persone apprezzabile per composizione numerica.
La pronuncia del Tribunale di Campobasso, peraltro, è in linea con l’orientamento ormai consolidato in materia, secondo il quale: “l’utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione. La condotta di postare un commento sulla bacheca facebook realizza, pertanto, la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone comunque apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dal terzo comma dell’art. 595 c.p.” (Cfr. sent. Cass. n. 24431/2015).
La genericità della formulazione relativa al “mezzo di pubblicità” di cui all’art. 595 c.p. comma terzo è stata interpretata in senso estensivo e oggi, in cui i social network impazzano, include anche i post su Facebook, trattandosi di condotta “potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone”.
L’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, terzo comma dell’art.595 c.p., trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando e aggravando, in tal modo, la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa.
Dott.ssa Daniela Cappello
ContinuaFoto dei figli minori sui social network: divieto di pubblicazione in assenza di consenso espresso, qualora sul punto esistano dissidi tra i genitori.
Il codice civile agli articoli 147 e 357 prescrive i doveri dei genitori nei confronti dei figli e impone ad ambedue l’obbligo di mantenerli, istruirli, educarli e assisterli. In queste norme rientra anche la corretta gestione dell’immagine dei minori sui social. In determinati casi, però, è possibile che questi doveri vengano compressi se in contrasto con il diritto alla privacy dei figli, anche se non ancora divenuti maggiorenni.
Il Tribunale di Chieti, con la sentenza n. 403/2020, oltre a dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto da una coppia, è intervenuto su una particolare tematica: la pubblicazione da parte dei genitori di fotografie dei propri figli minori sui social network. Il giudice ha dato rilevanza alla volontà del minore e ha statuito che sarà lui a decidere se e quando prestare il proprio consenso ai genitori riguardo la pubblicazione di proprie fotografie sui social.
Il caso: in una causa di divorzio veniva contestato, da parte di entrambi i genitori, la pubblicazione di fotografie “non opportune” del figlio minore sui rispettivi profili social e veniva chiesto al giudice di ordinarne la rimozione.
Il giudice di merito, nel pronunciare la sentenza, ha deciso di dar rilievo all’età del ragazzo, ritenendo quest’ultimo capace di autodeterminarsi, e ha ordinato “a entrambe le parti di astenersi da dette pubblicazioni in assenza di consenso esplicito del figlio (minore ma ormai entrato nel diciassettesimo anno d’età)”:
-in ossequio al D.lgs 101/2018, che ha recepito in Italia il Regolamento europeo sulla privacy, il cd. Gdpr (Ue 679/2016), che fissa a 14 anni la soglia minima per iscriversi a un social network senza il consenso dei genitori;
-e in linea con le ultime pronunce della Cassazione che ha definito come “grandi minori” i figli che, pur non avendo ancora raggiunto i 18 anni, hanno la facoltà di orientare le proprie scelte di vita.
La sentenza emessa dal Tribunale di Chieti potrebbe costituire un utile precedente nei casi, ad esempio, dei genitori che utilizzano nel loro smarthphone l’applicazione cd. parental control, per vigilare sugli spostamenti dei propri figli. Anche in questo caso, infatti, il figlio che abbia raggiunto almeno i 14 anni d’età potrà appellarsi alla propria capacità di autodeterminazione e al suo diritto alla privacy e ottenere l’inibizione dell’utilizzo dell’App da parte dei genitori, se ingiustificato.
Dott.ssa Daniela Cappello
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