#DannoParentale: non è necessario il “totale sconvolgimento delle abitudini di vita”.
La Corte di Cassazione, III sez. civ., con la sentenza n. 7748/20, è intervenuta su un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, ossia il danno parentale, chiarendo che ai fini della sua risarcibilità non è richiesto necessariamente che vi sia un totale stravolgimento delle abitudini di vita dei parenti. La lesione della persona di taluno, infatti, può provocare nei congiunti sia una sofferenza d’animo (danno morale), sia una perdita vera e propria di salute (danno biologico), come un’incidenza sulle abitudini di vita.
La vicenda, oggetto della pronuncia, riguarda il caso di un incidente stradale tra un’auto (colpa al 70%) e un motorino (colpa al 30%) con il decesso del guidatore di quest’ultimo.
I giudici di merito non avevano riconosciuto ai parenti della vittima il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ritenendolo sussistente ed ipotizzabile solo in presenza di una sofferenza che si fosse tradotta in uno “sconvolgimento dell’esistenza” rivelato da “drastici cambiamenti dello stile di vita” all’interno del nucleo familiare.
La Suprema Corte è intervenuta ribaltando la decisione dei giudici di merito, statuendo che le gravissime lesioni permanenti riportate da un soggetto in seguito ad un incidente, legittimano la richiesta dei genitori e dei fratelli al risarcimento iure proprio del danno non patrimoniale, cd. parentale; danno, diretto e non riflesso, che deve ritenersi sussistente proprio in virtù del rapporto di parentela che fa presumere che genitori e fratelli soffrano per le lesioni del congiunto senza che ci sia bisogno che queste sofferenze si traducano in uno “sconvolgimento delle abitudini di vita”.
Dott.ssa Daniela Cappello
Continua#Traffico di influenze illecite #art 346 bis cp #legittimo sequestro PC
La Suprema Corte con la sent. n. 12094/20 ha ritenuto legittimo il sequestro operato del PM nei confronti dell’ex presidente della Fondazione Open, indagato per il reato di cui all’art. 346 Bic c.p. (traffico di influenze).
Il ricorso della difesa mirava a far dichiarare nullo il sequestro perché sproporzionato e non mirato ai temi centrali dell’indagine.
Per contro la S.C. ha ritenuto legittimo il sequestro perché operato su “prove” informatiche connesse alle accuse soprattutto in relazioni a “strani” passaggi di denaro, di presunta provenienza illecita, tra l’ex presidente ed una fondazione.
Secondo i giudici di legittimità il sequestro riguarda sia il corpo del reato, sia cose pertinenti al reato, peraltro, la Procura procedente ha indicato percorsi e tempistiche tali da non arrecare alcun disagio all’indagato, contingentando i tempi del sequestro, delle copie forensi e della restituzione degli strumenti informatici all’avente diritto.
on. avv. Giuseppe Scozzari
Continua#Bancarotta fraudolenta documentale #Scritture contabili #notevole lasso di tempo #inconfigurabilità reato
La Corte di Cassazione con la sent. n.8429/20 afferma un principio di diritto di estremo interesse ossia: non può essere riconosciuta la responsabilità penale per il reato di bancarotta fraudolenta documentale all’amministratore se questi dimostra l’impossibilità oggettiva del reperimento delle scritture contabili.
La S.C. pone a fondamento della decisione la mancanza del presupposto previsto dalla norma con riferimento all’elemento psicologico ed alla condotta materiale. Questa consiste nella volontaria condotta dell’amministratore, il quale priva i creditori sociali dei documenti necessari per ricostruire i movimenti finanziari che hanno portato al fallimento della società. In altri termini se l’imputato dimostra che il mancato reperimento dei documenti non è a lui imputabile, ma al notevole lasso di tempo trascorso, questi non può essere condannato perché mancherebbe oltre alla condotta materiale, anche l’elemento psicologico del dolo.
Si tratta di una sentenza coraggiosa coerente con i patologici tempi dei processi penali, soprattutto quelli relativi ai reati societari, spesso impantanati in una miriade di consulenze e perizie che ne appesantiscono oltremodo lo svolgimento.
on. avv. Giuseppe Scozzari
Continua#Rito Abbreviato Condizionato #Divieto Di Modifica Imputazione #Sezioni Unite
Con la sentenza n. 5788/2020 le Sezioni Unite sono intervenute per chiarire e limitare l’ambito di operatività della legge 479/1999 che ha introdotto nell’ordinamento la possibilità di esperire ulteriori attività istruttorie nel giudizio abbreviato.
Il rito premiale ex artt. 438 c.p.p. e seguenti (giudizio abbreviato) viene richiesto ed attivato dall’imputato e si svolge “allo stato degli atti” ovvero sulla base dell’attività di indagine espletata fino al momento della chiusura delle indagini preliminari; pertanto l’imputato risponde dell’imputazione cristallizzata sull’indagine fino a quel momento svolta. Deroghe a tale corollario sono costituite dall’art. 438 comma 5 c.p.p. (l’imputato chiede di acquisite ulteriori prove e subordina la richiesta del rito all’acquisizione delle suddette prove, configurandosi nel caso il cosiddetto “rito abbreviato condizionato”) e dall’art. 441 comma 5 c.p.p. (il giudice quando ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume d’ufficio gli elementi necessari per la decisione).
Alle Sezioni Unite veniva chiesto se nel giudizio abbreviato condizionato il Pubblico Ministero poteva formulare contestazioni suppletive fondate su fatti non emersi dalle attività istruttorie richieste dalla parte (ex art. 438 comma 5 c.p.p) o dal giudice (ex art. 441 comma 5 c.p.p.p), ma già conosciute al momento della chiusura delle indagini preliminari, ma non contenute né contestate nell’imputazione, per la quale l’imputato chiedeva di accedere al rito alternativo.
Le Sezioni Unite, richiamando diverse pronunce della Cassazione, si soffermano soprattutto sull’art. 441 comma 1 c.p.p., il quale prevede che si osservano in quanto applicabili le disposizioni previste per l’udienza preliminare, nonché sulla visione logico-sistematica dell’istituto processuale del giudizio abbreviato.
Seguendo il ragionamento delle Sezioni Unite: se da un lato l’imputazione può essere modificata dal Pubblico Ministero durante l’udienza preliminare dall’altro si riconosce la valenza del sistema premiale previsto dall’art. 441, comma 1 c.p.p. che deve svolgersi “allo stato degli atti”, distinguendolo dalle disposizioni dettate per l’udienza preliminare in quanto applicabili al rito abbreviato, con la conseguente impossibilità per il Pubblico Ministero di modificare l’imputazione originariamente mossa e nota all’imputato nel momento in cui questi ha formulato la propria richiesta di ammissione al rito alternativo.
Come detto unica deroga logico-sistematica alla modifica dell’imputazione e della contestazione nel rito abbreviato è permessa qualora il fatto o la circostanza emerga per la prima volta dall’attività istruttoria richiesta dalla parte o dal giudice con la conseguenza dell’impossibilità di contestare circostanze già note in precedenza.
Nel caso concreto la Suprema Corte di Cassazione, originariamente investita della questione poi rimessa alle Sezioni Unite, era stata chiamata ad esaminare un caso nel quale il Pubblico Ministero aveva operato una contestazione in via suppletiva di alcune aggravanti per un omicidio all’esito delle attività istruttorie richieste in sede di giudizio abbreviato condizionato, ma per fatti non correlati alle disposte acquisizioni probatorie e agli esiti di questi ultimi.
Le Sezioni Unite con l’odierna sentenza hanno armonizzato i principi sopra illustrati, mantenendo ferme le garanzie processuali e le premialità del rito abbreviato che resta un giudizio “allo stato degli atti” ma precisando che la modifica dell’imputazione può avvenire soltanto per i fatti o le circostanze emergenti dagli esiti e dai limiti dell’attività di integrazione probatoria richiesta dall’imputato o dal giudice e non da fatti o circostanze già note e non contestate, prima della richiesta del giudizio abbreviato.
Dott. Biagio Cimò
Continua#Indagine #Epimediologica #nessodicausalità #insufficienza #polochimico
Condotta commissiva\omissiva\evento. Presupposti fondamentali per la ricerca di una condotta penalmente rilevante nell’ambito di determinati reati.
Una semplice rilevazione epidemiologica, è sufficiente per imbastire un processo? Ce lo siamo chiesti tante volte, le stesse volte abbiamo sottoposto ai PPMM tale problema sostenendo l’insufficienza di una semplice indagine, per impossibilità dell’accertamento del nesso di causalità.
Il GUP di Taranto (dott.ssa Romano), interviene sul tema con una pronuncia che farà discutere, non accogliendo la richiesta di rinvio a giudizio per i manager e due medici dell’ex ILVA.
Per il Gup sui medici non può gravare una posizione di garanzia di tipo organizzativo; per i manager non ritiene sufficiente né idonea a determinare un processo una semplice indagine epidemiologica.
Il GUP non accoglie le tesi del CT del PM, per mancanza di un chiaro consenso scientifico sulla tesi della “dose-risposta”, mentre altra storia è la teoria della “dose-killer” che una volta inalata determinerà l’insorgenza della patologia.
Ma per il GUP è sempre necessario in questi casi circoscrivere il momento di innesco del nesso causale, che non può avvenire con una semplice indagine epidemiologia.
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaSEPARAZIONE: BASTANO LE FOTO CHE FANNO PRESUMERE IL TRADIMENTO PER GIUSTIFICARE LA PRONUNCIA DI ADDEBITO
Con la sentenza n. 4899/2020 la Corte di Cassazione ha confermato le sentenze di merito del Tribunale e della Corte di Appello di Roma che avevano pronunciato una separazione con addebito a carico del coniuge sulla base delle produzioni fotografiche che lo ritraevano in atteggiamenti intimi con l’amante.
La detta sentenza è degna di nota perché, da un lato, esprime il principio della piena utilizzabilità nell’ambito del procedimento di separazione delle produzioni fotografiche della parte che richiede l’addebito; dall’altro lato, afferma che la prova del tradimento può essere ritenuta sussistente anche ricorrendo al meccanismo delle presunzioni.
Ed infatti nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, il tradimento è stato ritenuto sussistente sulla base delle risultanze probatorie emergenti dalle produzioni fotografiche che, secondo la valutazione dei giudici di merito, ritraendo l’uomo in atteggiamento di intimità con una donna che secondo la comune esperienza portava a presumere l’esistenza tra i due di una relazione extraconiugale, erano dimostrative della violazione del dovere di fedeltà coniugale.
La decisione in commento sembra allargare un po’ le maglie in materia di prova della relazione extraconiugale e si distingue da un orientamento giurisprudenziale più rigoroso che richiede, invero, la prova della certezza del tradimento. In tal senso, si veda la sentenza n. 2060/2019 della Corte di Appello de L’Aquila con la quale è stata rigettata la richiesta di addebito in quanto, pur in presenza di una foto cd. “selfie” che ritraeva la moglie sul letto con un altro uomo a dorso nudo, non è stata ritenuta provata l’infedeltà in quanto, a detta dei giudici, non emergeva un atteggiamento intimo tale da far ritenere l’effettiva sussistenza di una relazione extraconiugale.
Avv. Angelo Sutera
Continua#confiscabeni hashtag # confiscaperequivalente hashtag # naturapenale
La Suprema Corte con una recente pronuncia conferma l’indirizzo ormai prevalente in tema di “confisca per equivalente”. Con la sentenza n° 10649/2020 dello scorso marzo, nel ribadire che la confisca è si una misura di sirena patrimoniale essa non può che avere natura giuridica squisitamente penale e per tale ragione deve sottostare ai principi di tassatività e determinate tipici del nostro ordinamento. Quindi il giudice penale che dispone la confisca per equivalente “deve determinare la somma di denaro costituente il prezzo, il prodotto o il profitto/vantaggio effettivamente ottenuti dall’attività illecita”. In caso contrario, come spesso avveniva nel passato, la pena è illegittima è va annullata (Conforme Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 11 settembre 2019 n. 37590).
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaNessun peculato se la somma trattenuta è esigua. #Peculato #Intramoenia #MedicoOspedaliero
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 11003/20 ha statuito che non c’è peculato nella condotta del medico che non versa nelle casse dell’Azienda sanitaria una somma esigua rispetto all’attività dallo stesso svolta in intramoenia.
La S.C. ritiene penalmente non censurabile la condotta del medico perché mancante dell’elemento psicologico del dolo.
Infatti il medico ginecologo tratto a giudizio è stato condannato perché non aveva versato nelle casse dell’Azienda sanitaria gli importi relativi a soli «… tre casi, a fronte di circa seicento interventi», per una somma totale pari a circa € 300. Si tratterebbe di interventi effettuati e non fatturati.
Il medico ha proposto ricorso fondando le proprie ragioni sulla mancanza dell’elemento soggettivo del dolo, considerato che i tre omessi versamenti corrisponderebbero allo 0,50% del totale degli interventi negli ultimi tre anni, ritenendo tale omissione come condotta di “mera negligenza”.
La S.C., accogliendo il ricorso con rinvio, ha ritenuto che «in termini percentuali l’omissione corrisponderebbe, ad una misura quasi insignificante dei casi complessivamente trattati», tenuto conto anche dell’occasionalità della condotta stessa.
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaCoronavirus: D.L. 19-20
§ 0. Brevi note per i cittadini, le attività commerciali e le istituzioni locali.
Dal 26 marzo 2020 è in vigore nel nostro Paese il nuovo decreto legge (n.19) che disciplina le misure di contenimento del COVID-19.
Questo decreto legge ha un merito, ossia quello di sanare le molte falle sul fronte del principio di legalità, in cui erano incorsi soprattutto i DPCM (decreti del Presidente del Consiglio).
Non è il momento di fare polemiche e non ne abbiamo fatte, ma era inconcepibile che una serie di DPCM (che assurgono a fonte regolamentare la penultima nella scala delle fonti a seguire troviamo gli usi e le consuetudini), incidessero in maniera preponderante su principi e valori (tra tutti la libertà personale ed il libero esercizio dell’attività di impresa) tutelati dalla Costituzione oltre che dalle leggi ordinarie.
Ma vediamo cosa cambia in concreto con l’entrata in vigore del nuovo decreto, che avrà efficacia fino al 31 luglio 2020, data indicata in via molto cautelativa dal Governo, quale probabile data del cessato allarme COVID.
§ 1. Non più conseguenze penali, ma sanzioni amministrative,
per chi non ottempera alle ordinanze.
Le precedenti sanzioni da penali, per le medesime condotte indicate nei DPCM e nel D.L. n. 6/20, diventano quasi tutte amministrative, in altri termini fedina penale quasi salva, un po’ meno il portafogli. Nel D.L. ovviamente viene utilizzata la formula residuale “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, ciò significa che se un soggetto sa di essere positivo al virus e se ne va in giro a contagiare altre persone volontariamente o colposamente, non potrà invocare a suo favore l’applicazione della sanzione amministrativa, perché in questi casi ne risponderà penalmente.
L’art. 4 del D.L. 19/20 statuisce che il mancato rispetto delle misure di contenimento (leggasi ordinanze di vario titolo e grado) sarà punito in alcuni casi con la sanzione amministrativa, che va da un minimo di 400 euro ad un massimo di 3.000 euro, mentre in altri casi rimane condotta penalmente rilevante . Ma andiamo con ordine:
- La prima ipotesi riguarda soggetti che non sanno di essere positivi e decidono deliberatamente o colposamente di violare le ordinanze (nazionali, regionali o comunali), questi rischiano una sanzione amministrativa, applicata dal Prefetto, che va euro 400 ad euro 3000, salvo che non commetta la violazione a bordo di auto o motociclo, in questi casi la sanzione dovrà essere aumentata fino ad un terzo; è stato eliminato il riferimento all’applicabilità degli artt. 650 c.p. e 260 T.U. leggi sanitarie.
- La seconda ipotesi riguarda gli esercizi e le attività produttive e commerciali, questi infatti, in caso di violazione dei provvedimenti amministrativi, oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria (€ 400\5000), rischiano di vedersi chiuso l’esercizio commerciale e\o l’attività per un periodo che va da cinque a trenta giorni. Se il titolare dell’esercizio commerciale reitera la condotta rischia di vedersi applicata la sanzione della chiusura nella misura massima.
§ 2. Quando la condotta diventa reato?
Ovviamente non tutto può essere ricondotto nell’alveo della sanzioni amministrative, ci sono condotte che per forza di cose sfuggono alla legge amministrativa e rientrano in quella penale, si tratta di condotte estremamente gravi che il legislatore ha, ovviamente, voluto mantenere tali e punirli con la legge penale.
In sintesi:
- La prima ipotesi penalmente rilevante, riguarda soggetti risultati positivi al virus che deliberatamente decidono di violare la quarantena. In questi casi i contravventori rischiano da tre a diciotto mesi di arresto e l’ammenda che va da un minimo di euro 500 ad un massimo di euro 5.000. Il D.L. in esame, infatti, nel richiamare l’art. 260 T.U. leggi sanitarie, si è preoccupato di modificare la precedente sanzione che prevedeva sanzioni non più attuali e pregnanti.
- Seconda ipotesi: l’art. 4 co. 6 del D.L. in esame prevede, inoltre, il caso di epidemia colposa, ossia quando un soggetto sapendo di essere positivo al virus viola le misure di contenimento; in questi casi rischia da uno a cinque anni di reclusione (art. 452 c.p. ”Epidemia colposa”).
- Terza ipotesi: gli stessi fatti di cui al punto 2) se commessi con dolo, ossia con coscienza e volontà, sono riconducibili alla ipotesi di ”Epidemia dolosa” (art. 438 c.p.), anche nella forma del dolo eventuale, ipotesi realistica, considerato che è sufficiente l’accettazione esplicita del rischio di contagiare altre persone. In questi casi la pena è dell’ergastolo.
§ 3. Rapporto Stato/Regioni/Comuni.
Grandissima confusione si è ingenerata nel corso di questi tumultuosi mesi tra le istituzioni locali, regionali e centrali.
Spesso i presidenti delle regioni presi da ansia da prestazione o da vere preoccupazioni, hanno emesso provvedimenti di contenimento estremamente restrittivi, distonici rispetto a quelli statali ed a quelli delle altre regioni.
Se a tutto ciò si aggiungono i provvedimenti di sindaci interventisti e\o iper-protagonisti, ne viene fuori un quadro normativo-regolamentare da rabbrividire in termini di omogeneità e coerenza giuridica.
Il D.L. in commento cerca di mettere ordine disciplinando tali aspetti ed interdicendo potestà autonome contrastanti con quelle statali.
Ecco cosa prevede il D.L.:
- REGIONI. Potere intertemporale delle Regioni di emettere ordinanze a tutela della salus pubblica. In altri termini le Regioni, nella vacatio delle ordinanze governative, se dovessero registrare situazioni di aggravamento del contagio potranno emettere ordinanze restrittive delle misure di attenuazione del contagio stesso. Le suddette ordinanze avranno una efficacia limitata fino alla emissione delle ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri, non potranno incidere nelle attività produttive né di quelle a rilevanza strategica nazionale. Quindi è stato messo un freno all’orda regolatrice delle regioni. In poche parole se il Presidente del Consiglio dei Ministri dovesse decidere che i supermercati dovranno rimanere aperti nei week end, nessun presidente di regione potrà emettere una ordinanza in contrasto.
- COMUNI: regulation ai sindaci! Questi non potranno adottare ordinanze in contrasto con le misure statali né potranno adottare ordinanze che vadano oltre le materie tracciate dal D.L. in esame. In caso contrario le ordinanze dovranno essere ritenute devono inefficaci.
§ 4. Breve chiosa giuridica.
Siamo in uno stato di gravissima emergenza sanitaria e certamente non si va per il sottile né tanto meno si vogliono fare raffinate disquisizioni giuridiche, ma qualche problema giuridico esiste e probabilmente verrà fuori quando tutto questo sarà terminato ed i nodi (rectius: provvedimenti dei Prefetti) verranno al pettine.
Il D.L. in commento cancella di fatto gli emittendi decreti penali di condanna derivanti dalle migliaia di contestazioni che in questi giorni sono state elevate dalle forze di polizia. Lo fa badando alla sostanza nel senso che, con una alchimia giuridica, quelle “multe” elevate in precedenza al D.L. del 25.03.20 si trasformeranno in sanzione amministrativa, la cui somma non deve andare oltre € 200,00. Così facendo il Governo ha aggirato due problemi che avrebbero potuto nascere:
- il primo riguarda il principio della riserva di legge. Una condotta che integra il reato non può essere depenalizzata, viene depenalizzata la norma che la prevede. Il D.L. del 6.02.20 prevedeva il reato di violazione delle disposizioni date per ragioni di sanità pubblica e rinviava per la pena all’art. 650 c.p.. Con il D.L. in commento il governo ha evitato un pastrocchio giuridico, depenalizzando con norma di pari rango (legge ordinaria) un precedente reato previsto dal D.L. del 6.02.20, pericolo scampato!!!
- Il secondo problema era ugualmente serio perché si rischiava di violare una norma costituzionale ossia l’art. 3 della Costituzione! In che senso: pensate cosa sarebbe successo se il governo non avesse ridotto al minimo del minimo le sanzioni precedentemente elevate dalle forze di polizia. Ci saremmo trovati innanzi la violazione del principio di uguaglianza tra: cittadini che avevano commesso la stessa identica condotta prima e quelli che l’avrebbero commesso dopo l’approvazione del D.L. del 25.03.20. Anche in questo caso il Governo è stato attento a non intaccare diritti tutelati dalla Costituzione.
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Cosa c’è da augurarsi? C’è da augurarsi che in primo luogo cessi questo dramma mondiale ed in secondo luogo che venga meno, grazie all’azione responsabile dei cittadini, questa confusa, contraddittoria e selvaggia consecuzione di provvedimenti che oltre a determinare sconforto nei cittadini ne determina uno stato di perenne angoscia, su ciò che è lecito e ciò che non lo è!!
Una cosa è certa: se si sta a casa tutto è lecito, non sempre è facile soprattutto quando di mezzo ci sono i bisogni essenziali dell’essere umano.
Palermo\Agrigento lì 10 marzo 2020
Scozzari e Associati
Continua#Bancarottaperdistrazione #Incorporantefallita
Con la sent. n. 9398/20 la Corte di Cassazione si occupa di una vicenda societaria che ha visto la fusione per incorporazione due società, ritenendo sussistente il reato di bancarotta per distrazione anche per la società incorporata, in quanto sarebbe stata dimostrata (ex ante) la pericolosità dell’operazione di fusione posta in essere dall’incorporante successivamente fallita.
La S.C. considera elemento centrale del reato l’elemento psicologico, considerato che il reato di bancarotta per distrazione è un reato di pericolo concreto, con dolo generico in cui è sufficiente «la consapevole volontà di conferire al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte».
Per la Corte non è necessaria nè la volontà di provocare il fallimento nè lo scopo di provocare un pregiudizio ai creditori.
Secondo la Corte il fallimento della incorporante pone tutti gli atti di amministrazione sul un piano valutativo sensibile perché ogni atto può avere determinato un pregiudizio ai creditori.
La S.C., in conclusione, ritiene che le operazioni rischiose, nel caso in esame l’assunzione di un rilevante debito fiscale, sono sufficienti ad integrare il reato di bancarotta per distrazione.
on. avv. Giuseppe Scozzari
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