Diritto Penale: Il Giudice dell’esecuzione può modificare l’esecuzione di una decisione passata in giudicato.
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 12916 del 2019 ha affermato che il Giudice dell’esecuzione può modificare l’esecuzione di una decisione passata in giudicato. La decisione prende le mosse dal rigetto, da parte del Giudice dell’esecuzione, dell’istanza di applicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 56 del 2016 che aveva dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs 42/2004, che ha integrato la fattispecie della contravvenzione prevista dal primo comma per ogni intervento abusivo su beni vincolati paesaggisticamente. La sentenza della Corte di Cassazione, a fronte di un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha affermato che in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale che incida sul trattamento sanzionatorio, il Giudice dell’esecuzione deve intervenire non solo sulla misura della pena ma anche dichiarare l’estinzione del reato quando accerti che i termini di cui agli artt. 157 ss. cod. pen. siano interamente spirati alla data dell’ultima sentenza di merito.
La pronuncia della Suprema Corte di Cassazione si inserisce nel processo di erosione dell’intangibilità del giudicato. Molte pronunce della Suprema Corte (cfr. Corte cost. n. 210/2013, Sez. U. n. 18821/2014) hanno ribadito il concetto secondo cui, la restrizione della libertà personale del condannato deve avvenire secondo delle leggi conformi alla Costituzione. Se in fase di esecuzione una legge viene dichiarata incostituzionale, il Giudice dell’esecuzione, che è garante della legalità della pena in fase esecutiva, deve ricondurre la pena inflitta a legittimità.
Dott.ssa Roberta Mossuto
ContinuaDiritto Civile: Il Comune è responsabile per l’errore commesso dal proprio funzionario.
l Tribunale di Frosinone, con la sentenza n. 803 del 2018, ha accolto la domanda di risarcimento dei danni promossa da un cittadino, a causa del fatto illecito commesso dal funzionario del Comune.
La vicenda trae origine dalla richiesta, da parte di un cittadino, di rilascio del certificato di destinazione urbanistica di un immobile che lo stesso intendeva acquistare. L’ingegnere capo del Comune, pertanto, rilasciava il suddetto certificato, dal quale risultava che il terreno fosse idoneo all’edificazione in ossequio al PRG dello stesso Comune.
Sicché il cittadino, facendo affidamento sulla certificazione rilasciata dall’ente, procedeva all’acquisto del terreno, sul quale intendeva costruire un fabbricato. Tuttavia, al momento del rilascio della concessione edilizia, un altro funzionario dello stesso Comune rilevava l’improcedibilità dell’istanza, poiché l’immobile risultava insistente su un’area inedificabile.
Pertanto, l’acquirente adiva l’autorità giudiziaria al fine di ristorare il danno subìto dalla condotta illecita del funzionario, che aveva rilasciato il certificato di destinazione urbanistica dell’immobile.
Il Tribunale, investito della questione, ha osservato che, la condotta del funzionario, che aveva rilasciato un documento attestante una situazione urbanistica non rispondente al P.R.G., costituisce fatto illecito colposo, con conseguente violazione dell’affidamento ingenerato nel privato dall’atto amministrativo.
Ciò posto, dal fatto illecito commesso dal funzionario del comune, e per l’effetto riconducibile all’ente di appartenenza, ne sarebbe derivato al privato un danno, riconducibile alla categoria del c.d. danno conseguenza.
Pertanto, il Tribunale di Frosinone ha condannato il Comune al risarcimento dei danni, liquidati in via equitativa, subìti dal cittadino a causa delle spese sostenute per l’avvio della procedura amministrativa connessa all’edificazione del fabbricato.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaAmministrativo ambientale: Il responsabile dell’inquinamento risponde anche alla sola presenza di indizi.
In materia ambientale, com’è noto, uno dei principi che governa il settore è quello del “chi inquina paga”, sancito dalla normativa nazionale, europea ed internazionale.
Tuttavia, spesso risulta estremamente difficoltoso procedere all’individuazione del responsabile dell’inquinamento, come nell’ipotesi, finita sui banchi del Consiglio di Stato e decisa con la sentenza n. 7121 del 16.12.2018, di cessione di un ramo di azienda.
Ed è proprio quando non è possibile individuare con certezza il responsabile dell’inquinamento che il principio “chi inquina paga” rischia di essere vanificato.
Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 7121/2018 ha risolto un contrasto giurisprudenziale in merito all’applicabilità del suddetto principio. Secondo un primo orientamento, fatto proprio dalla difesa, in base al principio “chi inquina paga” sarebbe responsabile solo colui che “abbia … in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità” (Cfr. Cons. di Stato, VI, 5 ottobre 2016, n. 4119).
Per un secondo orientamento, invece, al fine di accertare la sussistenza del nesso di causalità tra attività industriale svolta nell’area ed inquinamento dell’area medesima trova applicazione il canone civilistico del “più probabile che non” (Cfr. Cons. di Stato, sent. n. 5668/2017).
Il Consiglio di Stato ha, pertanto, aderito a tale orientamento precisando che, ai fini dell’individuazione del soggetto responsabile dell’inquinamento, la giurisprudenza amministrativa, suffragata anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, esclude l’applicazione dei canoni penalistici dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Tuttavia, il Consiglio di Stato ha puntualizzato che, al fine di presumere l’esistenza di un nesso di causalità, tra la produzione del rischio ed il verificarsi dell’evento, occorre che vi siano indizi plausibili in grado di dar fondamento alla presunzione di responsabilità del soggetto individuato, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato, nonché la corrispondenza delle sostanze inquinanti ritrovate con quelle prodotte.
In conclusione, il Consiglio di Stato con la sentenza in commento ha notevolmente alleggerito l’onus probandi” in capo all’amministrazione pubblica preposta alla tutela ambientale.
ContinuaCOMPRAVENDITA IMMOBILI ABUSIVI: BASTA UN TITOLO EDILIZIO PER ESCLUDERE LA NULLITA’.
La corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 8230/2019), risolvendo un precedente contrasto, ha emesso un’importante pronuncia in materia di compravendita di immobili “abusivi”, sancendo la commerciabilità di un edificio in presenza di un titolo edilizio pur se la costruzione è stata realizzata in difformità.
Con la detta pronuncia la Suprema Corte ha risolto il contrasto giurisprudenziale sorto in merito all’interpretazione della sanzione della nullità prevista dalla Legge n. 47 del 1985, articoli n. 17 e 40, e dall’articolo 46 del Testo Unico in materia Edilizia, D.P.R. n. 380/2001.
Ed infatti, in materia si contrapponevano due diversi orientamenti: il primo, in affermazione di un principio di cd. “nullità formale”, riteneva la validità delle compravendite sulla base della semplice esistenza del titolo edilizio anche in presenza di variazioni essenziali nella realizzazione dell’immobile; in altre parole, le necessarie dichiarazioni nell’atto da parte dell’alienante costituiscono il requisito formale del contratto cosicché è la loro eventuale assenza a determinare la nullità dell’atto.
Il secondo orientamento, più recente, aveva invece accolto la tesi della cd. “nullità sostanziale”, ritenendo la nullità di tutte le compravendite relative ad immobili costruiti in assenza di titolo edilizio o comunque realizzati in difformità o con variazioni essenziali rispetto al titolo medesimo; alla luce di tale orientamento l’adempimento dell’obbligo di dichiarazione in seno all’atto del titolo edilizio presuppone che detta documentazione vi sia effettivamente e riguardi la costruzione in concreto realizzata, con la conseguenza di rendere incommerciabili gli immobili non in regola dal punto di vista urbanistico.
La Suprema Corte, in accoglimento della teoria della cd. “nullità formale”, ha aderito all’indirizzo più risalente, riconducendo la nullità nell’ambito dell’articolo 1418, comma, 3 c.c. e definendola come “nullità testuale”.
Si tratta di un’importante pronuncia che, si spera, potrebbe dare un impulso al mercato delle compravendite immobiliari, attualmente in crisi, favorendo anche la commercializzazione di quegli immobili realizzati con “abusi minori” che non poche incertezze avrebbero determinato nella pratica concreta.
La più facile commercializzazione degli immobili urbanisticamente non in regola, naturalmente, non deve scoraggiare gli acquirenti: quest’ultimi, infatti, potranno tutelarsi con i normali rimedi previsti dal codice civile (risoluzione, riduzione del prezzo, risarcimento del danno).
Avv. Angelo Sutera
ContinuaDiritto penale: L’estinzione del reato per intervenuta prescrizione non impedisce la disposizione della confisca urbanistica.
La sanzione della confisca è prevista all’art. 240 del codice penale ed in base alle sue disposizioni secondo il quale il giudice può ordinare che le cose che sono servite o sono state destinate a commettere il reato o le cose che sono state “prodotto” o “profitto” del reato, siano sottoponibili alla misura di sicurezza patrimoniale della confisca, ma solo nel caso in cui vi sia condanna dell’imputato.
La Corte di Cassazione ha recentemente chiarito, a seguito di una vicenda processuale avviata per il reato di lottizzazione abusiva ex art. 44 lett c) del D.P.R. 380/2001 (Testo Unico dell’edilizia), che la prescrizione del reato (che costituisce causa di estinzione del reato) non incide necessariamente sulla confisca urbanistica di terreni ed immobili. Sulla questione si era già pronunciata la Corte di Appello di Catania, che aveva dichiarato estinto il reato per il maturare della prescrizione ed aveva confermato la confisca dei terreni e delle opere abusive in sequestro. Gli ermellini, tuttavia, hanno annullato senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello poiché, quest’ultima, nel dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione, aveva confermato la confisca dei beni oggetto del reato senza però procedere all’analisi delle doglianze sollevate dalla difesa degli imputati e senza aver accertato in contraddittorio -con tutte le garanzie che da esso discendono, prima fra tutte quella del diritto di difesa- la sussistenza degli elementi costitutivi del reato, necessari affinchè potesse confermare la disposizione della misura di sicurezza della confisca.
Sul tema della disposizione della confisca urbanistica, anche in assenza di una sentenza formale di condanna a causa della prescrizione, è risultata fondamentale e di estremo rilievo una recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha chiarito che i principi di legalità e colpevolezza (art. 7 CEDU) e della presunzione di non colpevolezza (art. 6 CEDU), non risultano violati (come è invece è accaduto nel caso in esame con la pronuncia sopracitata della Corte d’Appello di Catania) qualora i giudici aditi si pronuncino accertando, nel corso del processo, l’esistenza del reato e la responsabilità degli imputati e non mancando di attuare ogni garanzia di tipo processuale penale. Dunque, nel caso in cui i Tribunali dovessero pervenire ad una sentenza di non luogo a procedere a causa della sola prescrizione e dovessero, a loro volta, accertare che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva, potranno ordinare la confisca dei terreni e delle opere abusive. Proprio secondo tale criterio ermeneutico della Corte europea, con sentenza n. 5936 del 2018, la Suprema Corte ha quindi annullato la pronuncia della Corte d’Appello di Catania, disponendo il rinvio ad altra sezione per un nuovo esame che verta sui principi testé enunciati.
ContinuaDiritto Penale: Il datore di lavoro va esente da responsabilità penale nell’ipotesi di comportamento “eccentrico” del lavoratore.
La Suprema Corte, con la sentenza n. 54813/2018, torna a pronunciarsi sul tema della sicurezza sui luoghi di lavoro, ed in particolare relativamente al profilo del rilievo della c.d. condotta abnorme del lavoratore e della delega di funzioni inerenti alla sicurezza in cantiere quali eventi interruttivi del nesso causale tra condotta ed evento.
Il processo traeva origine da un incidente mortale avvenuto in cantiere, per il quale furono imputati il datore di lavoro, nonché i vari preposti addetti alla sicurezza.
Al datore di lavoro veniva, in particolare, contestato l’omessa formazione ed informazione dei lavoratori, in violazione dell’art. 37, comma 1 e 1bis del D.lgs. n. 624/1994 e ss.mm.ii..
Il datore di lavoro, condannato dai giudici di merito, ricorreva per Cassazione lamentando il vizio di motivazione della sentenza di appello consistente, nella omessa valutazione dei limiti dell’obbligo di garanzia in capo all’imputato rispetto a quelli gravanti sui vari soggetti garanti presenti all’interno del cantiere, nonché la disparità di trattamento con una coimputata per la quale era stata esclusa la responsabilità, in ragione della abnormità della condotta posta in essere dai lavoratori rispetto alla propria sfera di garanzia.
I giudici della Suprema Corte, investiti della questione, nel ribadire il principio in base al quale anche in caso di delega, il datore di lavoro non è del tutto sollevato dagli obblighi connessi alla sua posizione di garanzia, tra i quali rientrano anche quelli inerenti la formazione ed informazione dei lavoratori, ha tuttavia annullato la sentenza ribadendo il principio secondo il quale “è interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore, quando essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è interruttivo non perché eccezionale ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare”.
Nel caso in esame la S.C. nell’annullare la sentenza della Corte di Appello di Reggio Calabria, ha accolto le ragioni di cui al ricorso dell’imputato e ritenuto contraddittoria la motivazione. Ha conseguentemente rinviato gli atti ad altra sezione della Corte di appello per un nuovo giudizio.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaCIVILE: PER LA CADUTA SULLA SCALINATA D’ACCESSO AL DUOMO NON DEVE RISARCIRE IL COMUNE.
La sentenza n. 5841 del 28 febbraio del 2019 a distanza di 15 anni dal fatto rigetta definitivamente il ricorso presentato da un infortunato per il diritto al risarcimento del danno. La sentenza in esame trae origine dalla richiesta di risarcimento avanzata da una signora che rovinava sui gradini del duomo della città in cui risiedeva. L’attrice avanzava la richiesta di risarcimento del danno nei confronti del Comune, infatti sulla scalinata sussisteva un uso pubblico. Però, diverse sentenze della Corte di Cassazione, hanno affermato che la semplice imposizione di un vincolo di uso pubblico su strada vicinale, pur permettendo alla collettività di esercitarvi il diritto di servitù di passaggio con le modalità consentite dalla conformazione della strada stessa, non alterano il diritto di proprietà che rimane privata.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5841 del 2019, afferma il seguente principio di diritto: “la responsabilità da omessa custodia di un bene destinato all’attività di culto, anche se per consuetudine asservito a uso pubblico, grava sul proprietario del bene e non sull’ente territoriale su cui insiste il bene, a meno che non sia dimostrata una detenzione o un potere di fatto dell’ente territoriale sulla cosa”. Di conseguenza la parte attrice prima di rivolgersi al Tribunale doveva accertarsi se la responsabilità spettava alla diocesi o alla parrocchia sulla base dell’art. 15 della legge 27 maggio 1929 n. 848 (Patti Lateranensi).
Dott.ssa Roberta Mossuto
ContinuaPenale tributario: La compensazione di crediti inesistenti configura il reato di omesso versamento I.V.A. di cui all’art. 10 quater del D.lgs. 74/2000.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5934/2019, sebbene abbia annullato la sentenza impugnata per intervenuta prescrizione, ha statuito che, commette il reato d’indebita compensazione, di cui all’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000, colui il quale utilizzi un credito I.V.A. fittizio in detrazione e lo “trascini” nelle successive dichiarazioni.
La questione finita al vaglio della Suprema Corte riguardava, in particolare, un ingente credito I.V.A. ritenuto inesistente, ma inserito nella dichiarazione del 2002, e “trascinato” nei successivi esercizi. Tale credito I.V.A. veniva utilizzato dagli amministratori della società in detrazione dei debiti I.V.A. delle successive dichiarazioni.
Le Corti di merito, avevano ritenuto configurato nel caso di specie il reato di cui all’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000, atteso che, lo stesso copre non solo le operazioni di compensazione ex art. 17 del D.lgs. 241/97, effettuate mediante presentazione di delega bancaria, c.d. mod. F24, per estinguere debiti tributari, ma anche le operazioni di detrazione ex art. 19 del D.P.R. 633/72, effettuate in contabilità e poi trasposte nella dichiarazione, quindi sia nell’ipotesi di c.d. compensazione orizzontale che verticale.
Le difese, invero, ritenevano estranea la fattispecie prevista dall’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000 alla fattispecie in esame, atteso che l’imputato non aveva eseguito compensazione di I.V.A. con I.V.A. mediante modello F24, ma aveva consumato il proprio credito mediante detrazioni; ritenendo, peraltro, che, i crediti utilizzati fossero conformi alle dichiarazioni e come tali esistenti e spettanti.
Il Supremo Collegio, con la pronuncia in commento, disattendeva le tesi difensive poiché:
1. l’esistenza di un credito I.V.A. non può essere correlata alla sua esposizione in dichiarazione, pur derivando da un’operazione inesistente;
2. l’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000 non circoscrive la rilevanza penale ai soli casi di compensazione orizzontale, ma punisce tutte le condotte volte all’omesso versamento di imposte attraverso l’indebito utilizzo di crediti.
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte, ha affermato che, l’ipotesi di reato di cui all’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000 si configura non soltanto nel caso di compensazione orizzontale, ossia relativa a imposte diverse, o, come nel caso di specie mediante il “trascinamento” del credito inesistente nelle successive dichiarazioni; ma anche le detrazioni di imposta ex art. 19 del D.P.R. 633/72, qualora le stesse siano prive dei requisiti di validità.
La Suprema Corte, in conclusione, ha sancito che l’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000 attribuisce rilevanza penale anche nell’ipotesi di un distorto utilizzo della compensazione tributaria, perché si risolve in sostanza in un omesso versamento di imposte.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaE’ LEGITTIMA LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’ENTE COMUNALE PER I REATI AMBIENTALI? LA CASSAZIONE DICE SI.
La commissione di reati ambientali nel territorio di competenza di un Comune legittima la Costituzione di parte civile dell’ente comunale.
È infatti di estremo interesse il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 2780/2019.
Con l’Ordinanza in commento è riconosciuto il diritto dell’ente comunale a costituirsi parte civile, e ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso di condotte illecite costituenti reati ambientali realizzate nel territorio di pertinenza del predetto ente.
Il caso oggetto della pronuncia riguardava numerose violazioni alla disciplina ambientale con sentenza di condanna poi confermata, ancorché con riduzione di pena, in secondo grado da parte della Corte di Appello di Lecce.
L’imputato, a seguito della pronuncia di condanna in secondo grado, ricorreva per Cassazione, deducendo, tra gli altri motivi, l’assenza di legittimazione processuale dell’ente territoriale ed il conseguente difetto di ogni diritto al risarcimento data la totale mancanza dei suoi presupposti.
Deduceva infatti il ricorrente, che la normativa consente la sola partecipazione al processo dello Stato attraverso il ministero competente quale titolare del diritto leso.
L’ordinanza della Suprema Corte, delinea i contorni del diritto a costituirsi parte civile in procedimenti penali come questo, con una sicura individuazione dei soggetti ai quali possa essere riconosciuto il risarcimento del danno, conseguente alle condotte illecite costituenti reato commesse nel territorio di sua competenza.
Gli ermellini hanno ritenuto comunque legittima quella parte della sentenza di secondo grado relativa alle statuizioni civili, che riconosce al Comune il diritto al risarcimento.
A tale conclusione, si è giunti prendendo le mosse dal riconoscimento in capo all’ente Comune di due diritti derivanti dalle sue prerogative.
Il Comune, infatti, è titolare di un diritto alla propria posizione funzionale in seno all’ ordinamento, e dispone di una competenza per la realizzazione dell’assetto urbanistico nel territorio di competenza.
Tali prerogative, vengono lese da condotte illecite costituenti reati ambientali.
È legittima, pertanto, la costituzione di parte civile del Comune nei procedimenti penali aventi ad oggetto reati ambientali commessi nel territorio di competenza comunale. Lo Stato, pertanto, non è più il solo ente competente a partecipare al procedimento penale in qualità di parte lesa.
Avv. Danilo Conti
ContinuaDiritto penale: possibile la revisione della sentenza di condanna per i soli effetti civili.
Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 6141 del 2019, hanno risolto il contrasto interpretativo in ordine all’ammissibilità dell’istanza di revisione proposta dall’imputato, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non doversi procedere perché il reato si è estinto per prescrizione, con conferma, tuttavia, della condanna al risarcimento dei danni in favore della sola parte civile costituita.
I Giudici della Suprema Corte, in particolare, hanno riportato i due orientamenti in contrasto secondo i quali:
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in siffatte ipotesi l’istituto della revisione non sarebbe ammissibile, poiché il codice di procedura penale configura tale istituto quale mezzo di impugnazione straordinario nei confronti di sentenze penali di condanna limitatamente ai soli effetti penali (cfr. ex plurimis Cass. sez. I, n. 1672/1992);
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mentre, secondo un orientamento minoritario, la revisione sarebbe ammissibile poiché dal dato letterale dell’art. 629 c.p.p. si evince che, l’istituto della revisione opera genericamente per le “sentenze di condanna” senza precisarne l’oggetto, ovvero se limitatamente ai soli effetti penali o civili (cfr. Cass., sez. V, n. 46707/2016).
La Suprema Corte, nel corposo excursus in ordine al contrasto giurisprudenziale sorto sul tema, non tralascia quanto affermato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 129/2008 secondo cui “… l’avvenuta dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione, non [n.d.r. costituisce] affatto sentenza penale di condanna suscettibile di essere impugnata con lo straordinario rimedio della revisione”.
Tuttavia, osserva la Suprema Corte che, accogliendo l’orientamento tradizionale, seppur suffragato dalla pronuncia del Giudice delle Leggi, si creerebbe un vulnus di tutela nei confronti dell’imputato prosciolto per estinzione del reato, ma condannato ai soli effetti civili.
Le Sezioni Unite, quindi, dopo aver sintetizzato i termini del contrasto giurisprudenziale, hanno posto al centro della disamina la questione relativa all’interpretazione della locuzione “condannato” ossia il soggetto esclusivamente legittimato a proporre richiesta di revisione.
Infatti, lo status di condannato, necessario per la richiesta di revisione, viene acquistato dal “soggetto che ha esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda” (cfr. Cass. SS.UU., n. 13199/2016).
Peraltro, la Suprema Corte, argomentando sulla ratio dell’istituto della revisione richiama la nozione attribuita alla stessa dalla tradizionale dottrina, secondo cui la revisione costituisce il rimedio contro “il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze della verità e della giustizia reale”.
Sulla scorta di una di un così nobile fondamento, l’istituto della revisione trova riconoscimento agli artt. 24 e 27 della Carta Costituzionale, all’art. 4, VII Protocollo alla Convezione EDU, nonché all’art 14, §6, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Pertanto, la Suprema Corte, rifacendosi all’orientamento minoritario, ha rilevato come la lettera dell’art. 629 c.p.p. indichi genericamente, tra i provvedimenti soggetti a revisione, le sentenze di condanna, nonché come il successivo art. 632 c.p.p. indichi quale soggetto legittimato a proporre istanza di revisione il “condannato”.
Orbene, non v’è dubbio alcuno che la sentenza che accoglie l’azione civile nel processo penale costituisca una pronuncia di condanna, atteso che la stessa presuppone indirettamente l’accertamento della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato contestato, seppur limitatamente agli effetti civili.
In conclusione, le Sezioni Unite, dirimendo il contrasto giurisprudenziale sorto sul tema, hanno affermato il seguente principio di diritto: “è ammissibile, sia agli effetti penali che agli effetti civili, la revisione, richiesta ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., della sentenza del giudice di appello che, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, in applicazione della disciplina dettata dall’art. 578 cod. proc. pen., abbia prosciolto l’imputato per l’intervenuta prescrizione del reato, e contestualmente confermato la sua condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile”.
Continua