Procedura Penale: una sentenza attesa da lungo tempo. Indagini difensive. La Cassazione limita le ipotesi di nullità del verbale.
La III sez. Penale della Cassazione con la sentenza 2049 ha statuito che l’atto scritto dal legale, nell’ambito delle indagini difensive, è equiparabile al verbale redatto dal Pubblico ministero. La nullità si ha solo nei casi in cui non si ha certezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione dell’avvocato. Irrilevante l’omessa sottoscrizione foglio per foglio del dichiarante.
È una sentenza attesa dai penalisti perché spesso si sono registrate ipotesi di incriminazione ad operi di zelanti uffici dei pubblici ministeri che da sempre hanno mal digerito il fatto che anche i difensori possano procedere ad “interrogare” persone informate sui fatti, nel corso delle indagini preliminari a carico dei propri assistiti.
La Corte di Cassazione con la sentenza 2049, dopo avere ancora una volta chiarito gli ambiti di applicabilità della legge 397/2000 sulle indagini difensive, ha ribadito la assoluta utilizzabilità delle dichiarazioni di persone presenti sui luoghi al momento dei fatti oggetto di contestazione. La decisione in commento è in controtendenza rispetto ai precedenti della stessa Corte.
On. avv. Giuseppe Scozzari
Continua“Non è reato filmare la doccia della vicina di casa” (Cass. Sez. Pen. n. 372 del 08.01.2019)
Non è configurabile il reato ex art. 615 bis c.p. (interferenza illecita nella vita privata) qualora l’azione o l’immagine ritratta possa essere osservata da estranei senza particolari accorgimenti e, pertanto, non viene leso il diritto alla riservatezza personale (privacy).
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha escluso la configurabilità del reato ex art. 615 bis c.p. e ha assolto l’imputato (condannato tuttavia per altri gravi reati) che aveva filmato, dalla propria abitazione, la vicina di casa intenda a farsi la doccia.
La Corte di Cassazione ha fondato la propria decisione su una circostanza cruciale ed ignorata negli altri gradi di giudizio, ovvero Il bagno della donna era sprovvisto di tende. È emerso, osservando le abitazioni fronti stanti della persona offesa e dell’imputato, che mancavano le tende, o qualsiasi tipo di ostacolo, alle finestre della vicina quindi l’imputato non ha utilizzato alcun accorgimento o espediente particolare per filmare e fotografare la donna; per questi motivi deve escludersi la configurabilità del reato di interferenza illecita nella vita privata, non essendo stati ripresi comportamenti della vita privata sottratti alla normale osservazione dall’esterno, posto che la tutela del domicilio è limitata a ciò che si compie nei luoghi di privata dimora in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile a terzi. L’art. 615 bis c.p. punisce “chiunque mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614 c.p.”; alla luce del dettato normativo, per integrare il reato in questione non è sufficiente che la condotta posta in essere abbia ad oggetto immagini che riguardino atti che si svolgano in uno dei luoghi indicati dall’art. 614 c.p. ma è anche necessario che tale condotta sia posta in essere indebitamente. Pertanto, se l’azione, compiuta all’interno di una privata dimora, può essere liberamente e normalmente osservata da estranei senza particolari accorgimenti (ad esempio affacciandosi semplicemente dalla propria finestra) non si configura una lesione al diritto alla riservatezza (privacy) e pertanto non sussiste, in capo all’osservatore – guardone il reato in esame.
Dott. Biagio Cimò
ContinuaSe fra colleghi vi è scambio di file protetti, si configura il reato di “accesso abusivo in un sistema informatico” di cui all’art. 615-ter del codice penale.
La V Sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 565/2019, ha rigettato il ricorso proposto, per tramite del proprio difensore, da un impiegato di banca che aveva chiesto a un collega di lavoro l’invio di dati a cui, per policy aziendale, non aveva accesso ed ha condannato il ricorrente medesimo al pagamento delle spese processuali. Questi, condannato dalla Corte di Appello di Milano per il reato di “accesso abusivo in un sistema informatico” (art. 615-ter c.p.), aveva impugnato la decisione della Corte milanese sostenendo che il semplice invio di una mail tra colleghi non può integrare il profilo oggettivo del reato contestato (“accesso abusivo al sistema”).
Con la sentenza n. 565/2019, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte di Appello di Milano che, in riforma della sentenza di primo grado, ha prosciolto l’imputato dal reato di cui all’ art. 615-ter del c.p, perché estinto per prescrizione, confermando le sole sanzioni civili in favore della persona offesa per i fatti di cui il soggetto imputato si è reso responsabile.
La responsabilità del condannato deriva dall’avere concorso con un altro collega, nel trattenersi abusivamente all’interno del sistema informatico protetto dalla banca.
Il punto nevralgico della decisione della Corte Suprema concerne la riconducibilità del fatto in contestazione all’alveo dell’art. 615-ter del c.p., il quale sancisce che “chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni.”
La Cassazione ha pronunciato la sentenza in esame nel solco di due importanti precedenti delle S. U. (sentenza Casani, 4694/12; sentenza Savarese, 41210/17), ed ha precisato che “colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risulanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamete motivato l’ingresso nel sistema” integra il delitto previsto dall’art. 615-ter c.p..
Pertanto, la V Sezione ha considerato il ricorso infondato ed ha confermato quanto i giudici di merito avevano ricostruito, ovvero la “responsabilità concorsuale in termini di partecipazione psichica a mezzo istigazione” del ricorrente. Il riscontro oggettivo di tale forma di responsabilità è ravvisabile nel contenuto della mail inviata al collega di lavoro, con la quale, il ricorrente aveva chiesto a quest’ultimo “di ritrasmettergli la mail sul proprio indirizzo di posta privata”, il che conferma inoltre la richiesta e l’invio di mail precedenti.
Nella specie, la condotta in rassegna è consistita nel fatto che il collega “si fosse trattenuto (nel sistema informatico bancario) per compiere un’attività vietata, ossia la trasmissione della lista a soggetto non autorizzato (il ricorrente) a prenderne cognizione, in ciò violando i limiti di autorizzazione che egli aveva ad accedere e a permanere in quel sistema informatico protetto”.
Tutto ciò considerato, con la Sentenza n. 565/19, la Suprema Corte ha deciso che i rispettivi ruoli svolti dai due bancari, senza ragionevole dubbio, configurano il reato di “accesso abusivo in un sistema informatico” ex art. 615-ter del codice penale.
La decisione in esame, inoltre, richiama alcune delle previsioni del titolo XII (delitti contro la persona), capo II (delitti contro la libertà individuale), sezione IV (delitti contro la inviolabilità del domicilio) del codice penale; deve infatti ravvisarsi che i sistemi informatici o telematici costituiscono un’espansione ideale di alcuni dei diritti fondamentali dell’individuo, quale la riservatezza o la segretezza della corrispondenza ed altri diritti concernenti la personalità dell’individuo, garantiti dalla Costituzione e tutelati penalmente nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali.
Dott.ssa Anna Maria Signorino Gelo
ContinuaSANZIONE AMMINISTRATIVA E SANZIONE PENALE, UN ALTRO COLPO AL SISTEMA DEL DOPPIO BINARIO? LA S.C. FA ULTERIORE CHIAREZZA RIDUCENDO L’AMBITO DI APPLICABILITÀ.
Con riferimento al reato contravvenzionale p.p. dall’art. 650 c.p., si segnala all’attenzione del lettore, la recente sentenza n. 44957/2018 con cui la Suprema Corte si è pronunciata sul carattere sussidiario della norma penale ivi contenuta.
Quanto ai fatti, basti al lettore sapere che il Comune di Chiari emetteva tre ordinanze intimando ad omissis di allontanare alcuni animali da un’area, la cui presenza veniva ritenuta causa di una rilevante degradazione delle condizioni di salubrità dell’ambiente.
Omissis dopo esser stato rinviato a giudizio per aver violato l’art. 650 c.p., veniva condannato dal Tribunale di Brescia e la sentenza di condanna veniva confermata anche in grado di appello. Soltanto nel giudizio di legittimità, la sentenza in argomento, veniva annullata senza rinvio.
L’art. 650 c.p. rubricato “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità” prevede che “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro”.
La contravvenzione sopra riportata rappresenta uno dei molteplici punti di contatto tra il diritto penale ed il diritto amministrativo.
Con un lessico più narrativo che giuridico, l’art. 650 c.p. può ritenersi una veste penale del provvedimento amministrativo, se invece si indossano le vesti del tecnico del diritto, nell’art. 650 c.p. si scorge una norma penale in bianco dal carattere sussidiario.
Le norme penali in bianco altro non sono che disposizioni il cui comando è genericamente formulato ed è contenuto in un’altra norma. Si ha, quindi, una norma che punisce “penalmente” la violazione di una diversa norma “non penale”.
L’art. 650 c.p. è norma a carattere sussidiario in quanto è destinata a trovare applicazione solo se il fatto non costituisca più grave reato ed allorchè, il provvedimento rimasto inosservato, non sia munito di un autonomo meccanismo di tutela.
Perché si possa ritenere violato l’art. 650 c.p., pertanto, occorrono tre requisiti:
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l’inosservanza deve riguardare un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato;
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il provvedimento inosservato deve essere adottato in relazione a situazioni non prefigurate da alcuna previsione normativa che comporti una specifica sanzione;
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il provvedimento deve essere emesso per ragioni di giustizia, sicurezza, ordine pubblico nell’esclusivo interesse della collettività e non di privati individui.
La sentenza in commento è di particolare interesse in quanto contribuisce a delineare la natura sussidiaria del reato di cui all’art. 650 c.p..
In merito, la sentenza n. 44957/2017 afferma che “atteso il prinicpio di sussidiarietà sancito dall’art. 650 c.p., il reato non è configurabile, quando l’inosservanza riguardi ordinanze applicative di leggi e regolamenti comunali assoggettati ad uno specifico meccanismo di tutela amministrativa, che si pone in rapporto di specialità rispetto a quella assicurata dall’art. 650 c.p.”.
Il richiamato principio di sussidiarietà comporta l’applicabilità della tutela penale solo quando, all’idem factum non siano preposte altre sanzioni, anche non penali.
Infatti, si parla di sussidiarietà nel diritto penale per esprimere l’idea dello strumento penale come extrema ratio. Il ricorso alla pena si giustifica solo quando risulta assolutamente necessario. Nella sentenza in commento, la Suprema Corte, pare fare riferimento proprio alla concezione ristretta del principio della sussidiarietà.
Secondo questa accezione, che corrisponde ad una visione più moderna e laica dei compiti del diritto penale, il ricorso allo sanzione penale appare ingiustificato tutte le volte in cui la salvaguardia del bene in questione è ottenibile mediante sanzioni di natura extrapenale.
La pronuncia n. 44957/2017 pare quindi confacente alle rinnovate esigenze del diritto penale che, inquadrando la vicenda nell’ambito di un illecito amministrativo e rilevando l’esistenza di una sanzione amministrativa per la condotta contestata, ha annullato la gravata sentenza con la formula “il fatto non costituisce reato”.
Dott. Danilo Conti
ContinuaABUSO D’UFFICIO E PROVA DEL DOLO INTENZIONALE. LA CASSAZIONE DETTA LE REGOLE.
E’ nota la linea interpretativa tracciata – ormai da tempo – dalla Suprema Corte di Cassazione, secondo la quale la prova del dolo intenzionale che qualifica l’elemento psicologico del reato di abuso d’ufficio non richiede l’accertamento di un accordo collusivo con la persona che si intende favorire. L’intenzionalità del vantaggio ingiusto, infatti, può ben prescindere dalla volontà di favorire specificatamente il privato interessato alla singola vicenda amministrativa ed essere, invece, desunta anche da ulteriori elementi, quali “ad esempio la macroscopica illegittimità dell’atto compiuto o da un’erronea interpretazione di una norma amministrativa, il cui risultato si discosti in termini del tutto irragionevoli dal senso giuridico comune, tanto da apparire frutto di una decisione arbitraria”. Ciò è stato recentemente ribadito dalla VI sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 43287/2018. Già in passato l’esigenza di evitare il dilagare di incriminazioni per abuso d’ufficio – a causa della genericità della formulazione della normativa – aveva portato il legislatore alla riscrittura di tale fattispecie di reato ad opera della legge 234/1997. Fra gli elementi di maggior rilievo per la configurabilità del reato di cui all’art. 323 c.p. previsti dalla riforma si ravvisano, oggi, la violazione di norme di legge o di regolamento, la previsione della nuova figura di abuso d’ufficio per la violazione dell’obbligo di astensione (in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o in altri casi prescritti) e la punibilità a titolo di dolo intenzionale generico. Infatti, l’ingiusto vantaggio o il danno ingiusto, anche non patrimoniale, non costituiscono più il fine perseguito dal reo, ma l’evento del reato. Pertanto, per la sussistenza dell’elemento psicologico del reato non è sufficiente che il soggetto attivo agisca con dolo diretto (cioè che si rappresenti l’evento come verificabile con elevato grado di probabilità), né che agisca con dolo eventuale (cioè che accetti il rischio del suo verificarsi). E’, invece, necessario che l’evento di danno o quello di vantaggio sia voluto o realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta e non risulti semplicemente realizzato come risultato accessorio di questa. Ricostruita in tal senso la configurabilità dell’elemento soggettivo, va pertanto, evidenziato che – secondo un ormai diffuso orientamento della giurisprudenza di legittimità – il dolo intenzionale del reato di abuso di ufficio deve escludersi quando l’agente, pur nella consapevolezza dell’illegittimità del proprio agire e del relativo ingiusto vantaggio patrimoniale di natura privata così realizzato, abbia inteso – in ogni caso – soddisfare un concomitante interesse pubblico di preminente rilievo. L’intenzionalità del dolo esige, quindi, la prova della certezza che la volontà dell’agente sia diretta a procurare – a sé o ad altri – un danno ingiusto o un ingiusto vantaggio patrimoniale; certezza che – ad ogni buon conto – non può unicamente essere desunta dal comportamento non iure tenuto dallo stesso, ma che deve trovare, piuttosto, conferma anche in altri elementi sintomatici, che mettano in evidenza l’effettiva ratio ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza professionale dall’agente, l’apparato motivazionale del provvedimento adottato, il contesto e la portata dei rapporti personali tra l’agente ed il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono un vantaggio patrimoniale o subiscono un danno (Cfr. Cass. n. 21192/2013).
Dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaDiritto penale del lavoro. Rspp: ridisegnato il ruolo dalla Suprema Corte. “Non può essere considerato un semplice consulente del datore di lavoro”.
La IV sezione della Suprema Corte di Cassazione ha ridefinito il ruolo del Responsabile del Servizio di Previdenza e Protezione. La Corte, mutando un precedente orientamento interpretativo, ha precisato che tale figura – ancorché non abbia un ruolo operativo – non può affatto essere considerato come un mero consulente del datore di lavoro.
Il sistema prevenzionistico, tradizionalmente fondato su diverse figure di garanti e su diversi livelli di responsabilità organizzative e gestionale, vede il datore di lavoro come primo garante della salute ed incolumità fisica e morale dei prestatori di lavoro. L’art. 17 del D.lgs n. 81/2008 impone, infatti, al datore di lavoro di effettuare la valutazione di ogni rischio che può verificarsi sul luogo di lavoro, il quale – per la redazione del documento di valutazione dei rischi (DVR) – può avvalersi della consulenza di un professionista.
Le caratteristiche – vocatamente consultive e prive di effettivi poteri decisionali – hanno reso il Responsabile del Servizio di Previdenza e Protezione una figura di non sempre facile collocazione all’interno del complesso di obblighi e responsabilità previsti dalla normativa antinfortunistica.
In ragione di ciò ed anche in considerazione del fatto che il D.lgs n. 81/2008 non prevede specifiche sanzioni a carico del RSPP, la giurisprudenza di legittimità in passato aveva affermato che il suddetto professionista non fosse il “titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica; lo stesso, piuttosto, opera quale consulente in tale materia del datore di lavoro, il quale è e rimane direttamente tenuto ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio” (Cfr.: Cass. pen., sez. IV, sentenza n. 11492/2013).
La sentenza in commento del 20 luglio 2018, n. 34311 della S.C., individua a carico del RSPP ambiti di responsabilità, riconoscendo direttamente in capo allo stesso una posizione di garanzia. La Corte ha, infatti, sottolineato che “il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all’interno della struttura aziendale un ruolo non operativo e gestionale ma di consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente all’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli”.
Conseguentemente, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere, oggi, chiamato a rispondere – in concorso con il datore di lavoro o anche a titolo esclusivo – del verificarsi di un infortunio sul lavoro ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare.
Alla luce, dunque, della più recente giurisprudenza – volta ad ampliare le ipotesi di responsabilità nell’ottica di una maggiore sensibilizzazione di tutto il sistema prevenzionistico – si rende assolutamente necessario un confronto costante ed imprescindibile tra datore di lavoro ed RSPP, al fine di gestire e prevenire al meglio ogni possibile rischio.
Dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaREATO AMBIENTALE: E’ SUFFICIENTE UN EVENTO DI DANNEGGIAMENTO DELL’AMBIENTE.
Nel 2015 è stato introdotto nel codice penale italiano l’art. 452 bis, rubricato Inquinamento ambientale. Il legislatore ha voluto tutelare l’ambiente da quelle condotte altamente lesive, diverse da quelle previste nel codice ambientale, introducendo una norma direttamente nel codice penale, con una prescrizione normativa ben più pregnante ed una pena decisamente pesante (da due a sei anni con eventuale aggravante). La Corte di Cassazione con la sentenza n. 50018 del 2018 ha esteso l’ambito di applicabilità della norma anche nei casi in cui è integrata l’ipotesi meno grave di inquinamento, relativa un ambito intermedio che in ogni caso per la S.C. merita tutela. La Corte nel rigettare il ricorso dell’imputato ha ribadito che nel caso in esame non è configurabile l’applicabilità dell’art. 240 del d.gls. 152 del 2006, in quanto quest’ultima norma riguarda le ipotesi di bonifica del sito inquinato ed il caso in cui vi sia la prova della contaminazione del sito stesso. La S.C. ha ribadito, infatti, che la matrice e il contesto di applicazione del decreto legislativo 152 del 2006 sono molto diversi rispetto alla volontà e agli obiettivi che hanno portato il legislatore a novellare nel 2006 il titolo VI bis del codice penale. Su questo punto la sentenza ha chiarito che: “con riguardo al reato di inquinamento ambientale, deve invece affermarsi il principio secondo cui il danno previsto dall’art. 452 bis c. p. ha come oggetto di tutela ambientale l’ambiente in quanto tale e postula l’accertamento di un concreto pregiudizio a questo arrecato, secondo i limiti di rilevanza determinati dalla nuova norma incriminatrice, che non richiedono la prova della contaminazione del sito indicato degli artt. 240 ss. d.lgs. 152 del 2006.” Di conseguenza il deterioramento o la compromissione a cui fa riferimento l’art. 452 bis c.p. consistono in una alterazione della originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema caratterizzata da una condizione di squilibrio funzionale dei processi naturali o in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuire in modo apprezzabile il valore o impedirne l’uso. La Corte, con questa ennesima pronuncia, ha voluto ribadire gli ambiti di tutela penale dell’ambiente indipendentemente dalla prova della contaminazione, estendendo l’ambito di tutela ai casi in cui ci si trovi innanzi casi di danneggiamento dell’ambiente. Tale orientamento se da un lato amplia la sfera di tutela dell’ambiente, dall’altro, essendo estremamente generico il termine “danneggiamento”, potrebbe porre non pochi problemi legati alla violazione dei principi cardine del nostro diritto penale quali la determinatezza e la tassatività delle leggi penali.
Avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaIn materia di responsabilità degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate la giurisdizione spetta al giudice ordinario.
Con l’ordinanza n. 22406/2018 le Sezioni Unite della Cassazione Civile mettono un punto fermo sui contrasti di giurisdizione in materia di società in “house providing” (cioè sulla disciplina delle società a partecipazione pubblica) che vengono dichiarate fallite.
La decisione della Suprema Corte, dopo un travagliato excursus giurisprudenziale, ha stabilito che sull’azione di responsabilità proposta nei confronti dei componenti degli organi di amministrazione e degli organi di controllo delle società partecipate dichiarate fallite, la giurisdizione spetta al giudice ordinario. Le S.U. fanno una distinzione precisando, in primo luogo, che per le condotte poste in essere dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate dichiarate fallite, la giurisdizione spetta al giudice ordinario. Le S.U. vanno oltre e precisano che laddove dalla condotta degli amministratori di una società “in house” e\o partecipata, sono prospettabili anche danni erariali, la giurisdizione sarà devoluta non solo al giudice ordinario ma anche alla Corte dei Conti senza che ciò comporti la violazione del principio del ne bis in idem.
Tale indirizzo giurisprudenziale costituisce una inversione di rotta rispetto ad un precedente indirizzo sancito con la sentenza, sempre della Cassazione Civile, n. 26283 del 2013, con la quale la Corte Suprema aveva espresso un indirizzo giurisprudenziale più restrittivo o forse più benevolo, secondo il quale soltanto la Corte dei Conti aveva giurisdizione sulla responsabilità degli organi sociali per danni al patrimonio di una società “in house”. Questa stessa pronuncia è stata successivamente modificata con la decisione n. 24591/2016 delle Sezioni Civili della Cassazione, che hanno determinato l’affermarsi del principio secondo il quale le società a partecipazione pubblica devono essere disciplinate dalle disposizioni del codice che regola le norme sulle società, quindi dal codice civile.
Si è trattata di un’inversione giurisprudenziale della Suprema Corte che trova ratio nel presupposto che il perseguimento dell’interesse pubblico deve in primo luogo avvenire per mezzo dello strumento privatistico, determinando l’applicazione degli istituti delle società capitali, onde scongiurare la violazione delle norme sulla concorrenza, sia nell’ambito dell’insolvenza che della responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo di una società “in house providing”. La Cassazione fugando ogni dubbio dunque ripartisce le competenze fra tribunali ordinari e Corte dei Conti, concludendo che la decisione in merito alla responsabilità di sindaci e amministratori di una società in house dichiarata fallita spetta in primis al giudice ordinario.
Dott.ssa Anna Maria Signorino Gelo
ContinuaINTERDITTIVA ANTIMAFIA – L’IMPORTANZA DELLE SENTENZE DI CONDANNA – FATTI RISALENTI NEL TEMPO.
L’interdittiva prefettizia antimafia è disciplinata dal decreto legislativo del 6 settembre 2011 n. 159 il c.d. “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione”. Il legislatore ha voluto allontanarsi dal modello della repressione penale e utilizzare una misura preventiva volta ad impedire rapporti contrattuali tra la Pubblica amministrazione e società che sono formalmente estranee, ma direttamente o indirettamente collegate con la criminalità organizzata. Lo scopo della interdittiva antimafia è quello di evitare che soggetti che sono coinvolti, collusi o condizionati dalla delinquenza organizzata possano avere rapporti con la Pubblica Amministrazione.
Per l’applicazione della misura la Prefettura valuta e verifica se gli elementi raccolti siano sufficienti a far ritenere probabile e o ragionevole il rischio di infiltrazioni mafiose. Sul punto, la sentenza del Consiglio di del 9 ottobre 2018, n. 5784 ha fatto chiarezza sulle modalità e i parametri da seguire per l’applicazione della misura.
In primo luogo, non bisogna avere la prova del condizionamento di un determinato atto, bastano solo degli indizi gravi, precisi e concordanti. Inoltre non occorre provare che ci sia l’infiltrazione mafiosa, ma la sussistenza di elementi sintomatici – presuntivi dai quali sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata.
In secondo luogo, costituiscono elementi per l’applicazione della misura condanne o informative degli organi di Polizia o del Gruppo Ispettivo Antimafia. Gli elementi appena elencati, secondo la Sentenza, possono anche non essere attuali. Infatti l’interdittiva antimafia può legittimamente fondarsi anche su fatti risalenti nel tempo, “purchè dall’analisi del complesso delle vicende esaminate emerga, comunque, un quadro indiziario idoneo a giustificare il necessario giudizio di attualità e di concretezza del pericolo di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’attività di impresa”.
In terzo luogo, le sentenze di condanna per un delitto “spia” devono essere prese in considerazione dal Prefetto ai fini del rilascio dell’informativa anche se sono risalenti nel tempo.
In definitiva, per il rilascio dell’iterdittiva prefettizia antimafia, devono essere valutati tutti quei elementi che presuppongono un implicito coinvolgimento con le criminalità organizzate, indipendentemente dal tempo in cui tale coinvolgimento è avvenuto.
Questo indirizzo giurisprudenziale estremamente restrittivo non si condivide anche perché riporta indietro nel tempo le importanti aperture giurisprudenziali che si erano registrate nei vari giudizi innanzi ai TAR. Il presupposto “dell’attualità” spesso è stato il discrimine per ritenere efficace o meno la misura interdittiva, anche perché spesso si sono trovati a subirla aziende i cui legali rappresentanti erano due o tre generazioni avanti rispetto ai soggetti per i quali si emetteva l’interdittiva.
Dott.ssa Roberta Mossuto
ContinuaIl bacio assassino secondo la S.C.: – il semplice bacio sulle labbra configura il reato di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p.
Ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p. va qualificato come «atto sessuale» anche il bacio sulla bocca che sia limitato al semplice contatto delle labbra.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 43553 del 02.10.2018.
Nel caso di specie la Suprema Corte ha ravvisato la tentata violenza sessuale nella condotta dell’imputato che ha dimostrato in modo non equivoco la volontà di baciare la vittima contro la sua volontà, intento non perseguito grazie alla reazione della stessa.
Secondo il ragionamento della Cassazione, per «atti sessuali» vanno intesi tutti quegli atti che coinvolgono zone del corpo che, in base alla scienza medica, psicologica e antropologica, sono considerate erogene, ovvero tali da dimostrare l’istinto sessuale.
Pertanto, anche il bacio sulla bocca rientra in tale nozione, costituendo una delle principali manifestazioni dell’istinto sessuale, a nulla rilevando che, per le particolari condizioni in cui sia dato o scambiato, si riveli inidoneo a eccitare l’istinto sessuale.
La decisione aderisce a quell’orientamento interpretativo, ampiamente consolidato, in forza del quale rientrano nella nozione di «atto sessuale» tutti gli atti, anche diversi dalla congiunzione carnale, che coinvolgono comunque la «corporeità sessuale» del soggetto passivo, nella convinzione che la lesione della libertà sessuale ha una gravità intrinseca che prescinde dal grado di intrusione corporale subito dalla vittima.
Tuttavia, detta connotazione non va attribuita al bacio sulle labbra qualora vi sia la presenza di particolari contesti sociali, culturali o familiari nei quali l’atto risulti privo di valenza erotica, come, ad esempio, nel caso del bacio sulla bocca scambiato nella tradizione russa come segno di saluto (Cass. Sez. III del 13.02.2007).
La lettura della news potrebbe destare diffusa preoccupazione e l’insorgere di una sostanziale fobia da bacio ma in realtà così non è perché, dalla lettura integrale della sentenza emerge un contesto ben diverso, da quello che superficialmente appare, giustificando la rigorosa decisione della S.C..
I fatti che sottendono la pronuncia del giudice di legittimità riguardano un “…imputato che aveva atteso la persona offesa all’uscita del luogo di lavoro, aggredendola e tentando di baciarla, come affermato non solo dalla donna, ma anche dell’agente di p.g., intervenuto sul posto, il quale noto’ il (OMISSIS) che tratteneva per il collo e per il braccio la (OMISSIS), la quale cercava di divincolarsi dalla presa e di spingerlo e di allontanarlo da se’ .“ (cfr. sentenza citata).
Quindi nessuna paura… baciate pure se reciprocamente voluto!
Dott. Biagio Cimò
Continua