Amministrativo/Penale: pugno duro sull’impugnazione delle interdittive antimafia con la sentenza n. 54010/2018 del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 5410 del 14.09.2018 ha respinto il ricorso di una società, cui era giunta un’interdittiva antimafia, la quale impediva alla stessa di intrattenere rapporti contrattuali con la P.A.. L’interdittiva antimafia, com’è noto, trova la sua ratio nella salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione. Pertanto, è precipuo potere del Prefetto interdire un imprenditore dall’intrattenere rapporti contrattuali con la Pubblica Amministrazione qualora questi risulti essere “in odor di mafia”. Nel caso di specie, il provvedimento interdittivo veniva giustificato per il fatto che, nella compagine societaria figuravano alcuni esponenti vicini alle cosche mafiose campane, nonché per la presenza, nella pianta organica aziendale, di alcuni dipendenti condannati per associazione di tipo mafioso. A nulla era valso per i vertici aziendali, aver licenziato i dipendenti ritenuti solidali alla locale associazione criminale. Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in commento, definisce, per un verso i limiti del giudizio prognostico, di competenza del Prefetto, al fine dell’emissione di un’interdittiva antimafia, per altro verso i limiti alla sindacabilità del provvedimento prefettizio in sede giurisdizionale. Il Collegio giudicante ha affermato che il giudizio del Prefetto, in merito al rischio di inquinamento mafioso, debba essere fondato sul criterio del “più probabile che non”, che può essere integrato da dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è anche quello mafioso. Pertanto, viene riconosciuto al Prefetto un ampio potere discrezionale, che prescinde dagli eventuali elementi probatori ritenuti non sussistenti in sede penale, al fine di valutare l’opportunità o meno di emettere un provvedimento interdittivo, peraltro supportato “dall’utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca, che esclude la possibilità per il giudice amministrativo di sostituirvi la propria”. Ne consegue, sostengono i Giudici del Consiglio di Stato, che la valutazione giurisdizionale, in merito al provvedimento prefettizio d’interdittiva, debba essere circoscritta alla sola manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti del provvedimento.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaCassazione n. 39077/2018: l’assoluzione determinata dalla scarsa credibilità di una dichiarazione, in caso di appello del Pubblico Ministero, comporta che il giudice del gravame è tenuto a rinnovare l’istruttoria dibattimentale.
La seconda sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte di Appello di Firenze, con la quale la stessa aveva fatto diniego alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in relazione all’escussione della persona offesa, le cui dichiarazioni erano state ritenute inattendibili dalla Corte territoriale e pertanto decisive per l’assoluzione dell’imputato. Sul punto la Corte distrettuale ha argomentato sostenendo che le dichiarazioni di altro testimone in un diverso procedimento, che avrebbero dovuto riscontrare quelle della persona offesa, non costituirebbero nuova prova ai sensi dell’art. 603, comma secondo, del codice di rito, bensì ritrattazione delle dichiarazioni rese nel procedimento de quo.
I Giudici di legittimità hanno censurato tale assunto poiché, ad avviso del Supremo Collegio, le dichiarazioni rese dal teste in altro procedimento non sono qualificabili come una mera ritrattazione bensì si tratterebbe di vere e proprie nuove prove. Conseguentemente, risultava illegittimo il diniego, della Corte di Appello, alla nuova escussione della persona offesa nonché del teste escusso nel connesso procedimento penale, che aveva suffragato le dichiarazioni rese dalla persona offesa.
La Corte di Cassazione richiama i principi espressi in un precedente arresto giurisprudenziale delle Sezioni Unite (sent. n. 27620/2016) secondo il quale il giudice di appello non può riformare la sentenza assolutoria impugnata dal P.M. senza aver preventivamente rinnovato l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei testi che abbiano reso dichiarazioni decisive sui fatti del processo, e pertanto determinanti ai fini del giudizio di assoluzione, in ossequio al disposto di cui all’art. 6, par. 3, lett. d, della CEDU.
La Suprema Corte afferma che, i suddetti principi trovano, specularmente, applicazione nel diritto della parte pubblica ad ottenere il riesame dei testi e la valutazione degli elementi di prova sopravvenuti, dopo la sentenza di primo grado, che possano condurre ad un diverso apprezzamento della prova dichiarativa svalutata nella sentenza di primo grado.
Peraltro, tale assunto ha, di recente, trovato consacrazione nell’art. 603, comma 3 bis c.p.p., introdotto dalla legge 103/2017.
Per concludere, il supremo consesso ha anche precisato che, al fine di introdurre le dichiarazioni potenzialmente rilevanti di un teste di un procedimento connesso nel giudizio, non può prescindersi dalla diretta assunzione del dichiarante nel successivo giudizio di appello, onde consentire l’accertamento dell’attendibilità dello stesso in ragione del principio del libero convincimento del giudice.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaDiritto Penale: Abnormità del provvedimento emesso dal GUP
In data 20.12.2017 il Gup del Tribunale di Napoli emetteva un’ordinanza con la quale, al termine dell’udienza preliminare, preso atto del rifiuto del Pubblico Ministero a modificare l’imputazione, restituiva gli atti al PM e applicava per analogia l’art. 521 del c.p.p.
L’ordinanza in questione veniva impugnata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli perché aveva le caratteristiche di un provvedimento abnorme.
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 29334 del 2018 ha dichiarato fondato il ricorso. La Corte precisa che un provvedimento è affetto da abnormità quando risulti “avulso dall’intero ordinamento processuale”.
Secondo il ragionamento della Cassazione, l’art. 33 sexies del codice di procedura penale consente al GUP con ordinanza di trasmettere gli atti al PM per emettere il decreto di citazione diretta. In questi casi il Giudice non può modificare il capo di imputazione. Nel caso di specie, invece, è avvenuto che il Giudice ha disposto la restituzione degli atti al PM e ha modificato il capo di imputazione, fattispecie non consentita dal codice di procedura penale.
L’abnormità dell’ordinanza impugnata deriva dalla stasi che essa potrebbe produrre al processo, perché “il pubblico ministero, che dovrebbe attenersi alla indicazione del GUP, non potrebbe più elevare la imputazione ritenuta più corretta in base ai dati fattuali a disposizione”.
Dott.ssa Roberta Mossuto
ContinuaDiritto Civile: Assegno di divorzio – Funzione assistenziale compensativa
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018 ha cercato di mettere chiarezza sulla natura e sul riconoscimento dell’assegno di divorzio.
Nella prima parte della sentenza i giudici ricostruiscono il quadro normativo e giurisprudenziale che ha caratterizzato il divorzio. Il principio che ha guidato i giudici per oltre 30 anni in tema di assegno di divorzio è stato fissato dalla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 11490 del 1990, che preveda un carattere assistenziale per l’assegno e la sua concessione avveniva per l’inadeguatezza dei mezzi economici del coniuge istante. Lo scopo principale dell’assegno era quello di garantire e conservare al coniuge un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio.
Questo orientamento viene mutato con la sentenza della Corte di Cassazione n. 11504 del 2017, che ha individuato come criterio di attribuzione la non autosufficienza economica del coniuge istante. La sentenza ha cercato di valorizzare l’autoresponsabilità di ciascuno dei due ex coniugi e ha riconosciuto all’assegno di divorzio una funzione equilibratrice – perequativa.
La recente sentenza della Cassazione parte dalla premessa che la scelta di sciogliere l’unione matrimoniale comporta un deterioramento complessivo nelle condizioni di vita del coniuge meno dotato di capacità reddituali, economiche e patrimoniale proprie. Il Giudice deve accertare, attraverso poteri istruttori officiosi, l’esistenza o meno dello squilibrio determinato dal divorzio. Inoltre, secondo il Supremo Collegio l’assegno deve avere una funzione equilibratrice tesa a riconoscere il ruolo e il contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla realizzazione della situazione comparativa attuale, di conseguenza all’assegno di divorzio viene riconosciuta una funzione assistenziale e compensativa.
Dott.ssa Roberta Mossuto
ContinuaDiritto Penale Ambientale: La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 29652/2018 torna a pronunciarsi sulle procedure di “end of waste” dei materiali di dragaggio.
La Corte di Cassazione annulla con rinvio l’ordinanza con la quale il Tribunale di Gorizia aveva confermato il provvedimento di diniego del GIP, con il quale veniva rigettata la richiesta di sequestro preventivo dell’impianto di recupero dei fanghi di dragaggio, nell’ambito di un procedimento penale in merito al reato di “attività di gestione di rifiuti non autorizzata” di cui all’art. 256 del D.lgs. 152/2006.
La Corte, in particolare, ha statuito che il conseguimento dell’autorizzazione di cui all’art. 208 del Testo Unico Ambientale (Autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti) rappresenta il presupposto affinché possa essere svolta l’attività di gestione dei rifiuti. Tuttavia per le operazioni volte a far cessare la qualifica di rifiuto occorre un quid pluris, ovvero: a) l’effettuazione di un trattamento di recupero, consistente anche solo in un’attività di cernita dei diversi materiali; b) l’effettuazione delle analisi, volte ad escludere i rischi correlati alla reimmissione degli stessi nell’ambiente; c) solo all’esito positivo delle analisi svolte, in ossequio ai requisiti ed alle condizioni di cui all’art. 184 quater del D.lgs. 152/2006, i materiali dragati cessano di essere qualificati come rifiuti. Pertanto, solo all’esito di tale iter i materiali dragati potranno essere reimmessi sul mercato come merci e come tali trasportati fuori dallo stabilimento con il documento di trasporto (D.D.T.).
Ed infatti, secondo i Giudici della terza sezione penale, la disciplina relativa alle operazioni di cessazione della qualifica di rifiuti dei materiali, nella specie provenienti da dragaggio, non può esulare dall’osservanza delle specifiche procedure previste all’art. 184 quater del T.U.A., in relazione alla tipologia di rifiuti.
Peraltro, afferma la Suprema Corte che, la norma di cui all’art. 184 quater del D.lgs. 152/2006 si pone in rapporto di specialità rispetto all’art. 184-ter, che disciplina in generale le operazioni di cessazione della qualifica di rifiuto, atteso che la suddetta norma si riferisce esclusivamente all’utilizzo dei materiali di dragaggio.
Precisamente, l’art. 184 quater del T.U.A. prevede una serie di requisiti affinché i materiali dragati cessino di essere qualificati come rifiuti, all’esito delle operazioni di recupero, quali: 1) il non superamento dei valori delle C.S.C. di cui alla tabella 1 A e B (in base alla destinazione d’uso del luogo ove i materiali verranno riutilizzati), dell’allegato 5 al titolo V della parte quarta del testo unico ambientale; 2) che sia certo il sito di destinazione di tali materie, senza rischi per le matrici ambientali.
Pertanto, i Giudici della Suprema Corte sostengono che, solo all’esito della procedura e nel rispetto dei requisiti di cui all’art. 184 ter del D.lgs. 152/2006, i materiali di dragaggio potranno essere movimentati dall’impianto con il c.d. documento di trasporto (DDT), in assenza del formulario di identificazione rifiuti (FIR).
Per concludere, non si può non rilevare che, sul tema delle procedure di “end of waste”, il 18 giugno 2018 è stato pubblicato in gazzetta ufficiale il regolamento recante la disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di conglomerato bituminoso ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, con il quale il Ministero dell’Ambiente ha stabilito i criteri in presenza dei quali il c.d. fresato di asfalto cessa di essere qualificato come rifiuto.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaDiritto Penale Ambientale: Il titolare ed il responsabile dell’impresa o dell’ente rispondono anche per culpa in vigilando e per violazione
La Corte di Cassazione ha affermato che, il reato di abbandono incontrollato di rifiuti di cui al comma secondo dell’art. 256 del D.lgs. 152/2006 si configura ponendo in essere, non solo una condotta attiva, ma anche omissiva.
Infatti, la Suprema Corte con la sentenza n. 28492 del 20 giugno 2018, riaffermando il principio già espresso con le sentenza n. 40530 del 1 ottobre 2014 e n. 24736 del 22 giugno 2007, ha statuito che il titolare e il responsabile dell’impresa o dell’ente rispondono anche per culpa in vigilando, segnatamente per omessa vigilanza sull’operato dei dipendenti che abbiano commesso il reato di abbandono di rifiuti.
Nell’ambito delle attività di gestione di rifiuti non autorizzata, viene ravvisato dai Giudici di legittimità un ulteriore profilo di responsabilità penale a titolo omissivo, in capo ai dirigenti dell’azienda, allorquando vengano violati quei doveri di diligenza volti ad evitare la commissione di illeciti nella gestione di rifiuti.
In particolare, con la sentenza n. 47432 del 11 dicembre 2003, la Suprema Corte ha dichiarato la penale responsabilità dei titolari dell’impresa per aver omesso di adottare tutte quelle misure necessarie volte ad evitare la commissione di illeciti nell’attività di gestione dei rifiuti.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaAmministrativo e Penale: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna l’Italia – nessuna confisca senza condanna penale.
A distanza di quasi tre anni dall’udienza innanzi la “Grande Chambre” è stata depositata la sentenza, con la quale è stata decisa la questione relativa ai ricorsi promossi in merito ai fatti di lottizzazione abusiva in diverse zone della penisola.
In particolare, la questione riguardava la confisca urbanistica di numerosi terreni, sui quali insistevano costruzioni abusive, disposta dal Giudice italiano, ai sensi dell’art. 44, co 2 del D.P.R. 380/2001, in assenza di una sentenza penale di condanna che accerti la commissione del reato.
I Giudici della Corte Europea, con una pronuncia degna di nota, hanno avallato le ragioni dei ricorrenti, i quali sostenevano che la confisca urbanistica non avesse una sufficiente base legale data l’assenza di una sentenza di condanna.
Ed infatti, secondo la Corte Europea, la confisca urbanistica prevista all’art. 44, co 2 del D.P.R. 380/2001 in assenza di una sentenza definitiva del giudice penale che accerti che vi sia stata, effettivamente, una lottizzazione abusiva, comporterebbe una violazione dell’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ovvero del principio di legalità, nonché violazione dell’art. 6, paragrafo 2 ed art. 1 del protocollo n. 1 della CEDU, che, rispettivamente prevedono il diritto alla presunzione di innocenza e del diritto alla protezione della proprietà.
Invero, si rileva che la Corte europea si era già pronunciata in tal senso, su una vicenda analoga con la sentenza Varvara del 29 ottobre 2013, che tuttavia rimaneva disattesa dai supremi organi giurisdizionali italiani sostenendo che non si trattava di un orientamento consolidato della Corte Europea.
Le conclusioni cui è giunta la Corte Europea, con la pronuncia in commento, hanno suscitato un notevole scalpore nel panorama giuridico italiano, infatti, i commenti sono stati orientati in maniera diacronica tra chi sostiene la correttezza della pronuncia dei giudici europei e chi, invece, sostiene la posizione dei giudici europei configura una negazione della tutela dell’ambiente.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaDiritto Amministrativo: T.A.R. Calabria sentenza n. 1063/2018 – È legittima l’esclusione dalla gara in caso di condanna con una sentenza patteggiata.
La Sezione Seconda del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria con la sentenza 17 maggio 2018, n. 1063 ha rigettato il ricorso promosso, da una società aggiudicataria di una gara, per l’annullamento di un decreto dirigenziale con il quale la Stazione Unica Appaltante aveva annullato l’aggiudicazione già disposta in suo favore e ne aveva disposto l’esclusione dalla gara.
In particolare, la stazione appaltante motivava il provvedimento di esclusione, ai sensi dell’art. 80, co 5 lett. f bis, del D.lgs. 50/2016, in quanto la società aggiudicataria aveva reso dichiarazioni non veritiere in ordine al requisito di partecipazione di cui all’art. 80, co. 5 lett. a, del D.lgs. 50/2016, con specifico riferimento alla mancata dichiarazione della sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p., che aveva ad oggetto la violazione di norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria, con la sentenza 17 maggio 2018 n. 1063, ha dichiarato il ricorso palesemente infondato poiché l’art. 445 c.p.p. stabilisce l’equiparazione della sentenza di patteggiamento, ex art. 444 c.p.p., alla sentenza di condanna, anche se non vi è stato un accertamento dei fatti in sede dibattimentale.
I Giudici del T.A.R. hanno argomentato sul punto come sia lo stesso art. 80 del codice degli appalti a recepire esplicitamente la suddetta equiparazione, nonostante sia riferita alla distinta ipotesi di cui al comma 1, la quale, però, non presenta sostanziali differenze rispetto al caso di specie.
Il T.A.R., quanto poi alla doglianza, proposta dalla ricorrente, in merito all’attuazione di apposite misure di self cleaning adottate, ha osservato che, queste non potevano essere apprezzate, a valle, dalla stazione appaltante in funzione “sanante”, stante la dichiarazione non veritiera resa, a monte, dalla ricorrente in ordine alla assenza di violazioni delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Sul punto inoltre, in riferimento alla presunta rilevanza del punto 7.5. delle Linee guida ANAC n. 6/2017, il TAR ha osservato che le stesse linee guida disciplinano un’ipotesi diversa da quella del caso di specie, e che comunque la corretta interpretazione del punto 7.5. è nel senso che la relativa disposizione, che prescrive un contraddittorio più rigoroso in ordine alla valutazione delle misure di self cleaning, si riferisce alla violazione del principio di leale collaborazione in precedenti procedure concorsuali e non alla dichiarazione non veritiera nella gara in corso.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaDiritto Penale: Omesse ritenute certificate, la crisi economica e i tentativi di rimedio per far fronte alla stessa costituiscono causa di esclusione della responsabilità penale.
(Cass. Pen. Sez. III n. 20725/2018)
In relazione al reato di omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali, così come nei reati tributari in genere, la Suprema Corte di Cassazione ha posto delle limitazioni specifiche all’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 45 c.p., ovvero la non punibilità del soggetto che ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore.
L’improvvisa crisi di liquidità non imputabile al datore di lavoro o all’imprenditore non è da sola sufficiente a far attivare l’esimente di cui all’art. 45 c.p..
Come specificato ormai da costante giurisprudenza, da ultimo Cass. Sez. III n.20728/2018, il soggetto su cui ricade l’onere di adempiere all’obbligazione tributaria, che si trova a fronteggiare una situazione di crisi economica e di liquidità non dallo stesso provocata, deve provare in giudizio che ha posto in essere tutti i rimedi, le azioni e le misure dirette al recupero, anche sfavorevoli al proprio patrimonio personale, delle somme necessarie ad assolvere il debito erariale.
Durante la fase dibattimentale sarà onere dell’imputato provare, attraverso i documenti e testimonianze relative alle azioni e ai tentativi di rimedio posti in essere per far fronte alla crisi di liquidità, prove che in concreto possono essere anche rappresentate dalle richieste di accesso al credito bancario (mutui, fideiussioni e ipoteche come nel caso in esame).
Le azioni poste in essere dal soggetto costituiscono la prova che non è stato inerme e che non è stato altrimenti possibile trovare risorse necessarie per un puntuale rispetto degli obblighi fiscali.
In definitiva, la crisi economica sopravvenuta e la conseguente attivazione nel recupero di liquidità per far fronte ai debiti (che siano erariali o di altra natura) costituiscono la prova dell’insussistenza della volontà del contribuente di sottrarsi al pagamento del debito erariale, non adempiuto per contingenze non imputabili allo stesso, e l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 45 c.p.
Con la sentenza n. 20728/2018 la Corte di Cassazione, oltre a reiterare e confermare il proprio orientamento in materia, coglie l’occasione per sottolineare come i Giudici di merito devono valutare tutte le prove gli atti e documenti, relativi ai rimedi posti in essere per far fronte alla crisi economica, fornite in giudizio dal contribuente.
Dott. Biagio Cimò
ContinuaDiritto Amministrativo: La P.A., nell’ambito dei procedimenti ad evidenza pubblica, non è esente dal regime della responsabilità precontrattuale per violazione dei doveri di correttezza e buona fede.
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 4 maggio 2018, n. 5, ha affermato che anche la Pubblica Amministrazione, nello svolgimento dell’attività autoritativa nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica, è soggetta, non solo al rispetto delle norme di diritto pubblico ma anche, alle norme civilistiche della responsabilità precontrattuale che impongono di agire con lealtà e correttezza nell’ambito di tutte le fasi della procedura.
Il Consiglio di Stato con tale pronuncia ha posto un argine all’ondivago orientamento giurisprudenziale, che talvolta sosteneva la tesi in base alla quale la responsabilità precontrattuale fosse configurabile anche nella fase anteriore la scelta del contraente ed a prescindere dall’aggiudicazione (ex plurimis Cons. di Stato, sez V, 15 luglio 2013, n. 3831), talaltra, invece, sosteneva la tesi contraria in base alla quale la responsabilità precontrattuale non sarebbe configurabile anteriormente alla scelta del contraente poiché essa sarebbe connessa alla violazione delle regole di condotta tipiche della formazione del contratto (ex plurimis Cons. di Stato, sez. V, 8 novembre 2017, n. 5146).
Peraltro, l’ordinanza di remissione della questione all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha mostrato di aderire a tale ultimo orientamento, ponendo a supporto di ciò argomentazioni di carattere squisitamente civilistico in base al quale il bando di gara andrebbe qualificato alla stregua di un’offerta al pubblico ex art. 1336 c.c. o di una proposta di contratto in incertam personam.
Per effetto di tale assunto il Collegio rimettente, ritenendo la fase prodromica all’individuazione dei contraenti assorbita nella fase pubblicistica della competizione, sostiene che in questa fase non sarebbe configurabile la disciplina civilistica della responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c..
L’adunanza plenaria ha ritenuto di doversi discostare da tale assunto, ed ha affermato che “il dovere di correttezza e di buona fede oggettiva (e la conseguente responsabilità precontrattuale derivante dalla loro violazione) sia configurabile in capo all’Amministrazione anche prima e a prescindere dall’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva” ed inoltre che “tale responsabilità sia configurabile senza che possa riconoscersi rilevanza alla circostanza che la scorrettezza maturi anteriormente alla pubblicazione del bando oppure intervenga nel corso della procedura di gara”.
Il Consiglio di Stato, a sostegno di quanto sopra, richiama l’art. 2 della Carta Costituzionale cui viene ricondotto il fondamento del dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede in quanto rappresentazione di una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale.
Ed in particolare, un soggetto pubblico, sottoposto ai principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost., non può esimersi da un comportamento di correttezza e buona fede nei confronti del cittadino, in quanto pur mancando eventualmente una trattativa in senso tecnico-giuridico, essa è comunque idonea ad ingenerare ragionevoli affidamenti e fondate aspettative.
Infatti, l’Adunanza Plenaria afferma che ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare è “la libertà di autodeterminazione negoziale”.
Compendiando il percorso argomentativo seguito dal Consiglio di Stato con la pronuncia in commento nel quale viene affermato che nell’ambito delle procedure di evidenza o pubblica e più in generale del procedimento amministrativo le regole pubblicistiche e le regole privatistiche operano in maniera contemporanea e sinergica, dal momento che le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento amministrativo inteso quale esercizio diretto ed immediato del potere autoritativo, e le regole di diritto privato che hanno ad oggetto il comportamento complessivamente tenuto dalla staziona appaltante nel corso della gara.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, precisato che al fine di configurare una responsabilità in capo alla Pubblica Amministrazione è necessario che concorrano i seguenti presupposti: a) che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva; b) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, nel suo complesso, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e lealtà; c) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo; d) che il privato provi sia il danno – evento, sia il danno – conseguenza ed anche i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione.
In conclusione, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in applicazione del principio del legittimo affidamento, ha esplicitamente affermato che, la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione possa configurarsi anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare anche da comportamenti anteriori al bando, in modo da tutelare così le ragioni dei privati cittadini che si rapportano con le Pubbliche Amministrazioni.
Dott. Gaspare Tesè
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