CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE VI, CON SENTENZA N. 16529/2017: IL SINDACO NON RISPONDE DEL REATO DI PECULATO SE C’È BUONA FEDE SULLE SPESE DI RAPPRESENTANZA.
La Suprema Corte ha annullato senza rinvio perché il fatto non costituisce reato stante l’assenza di dolo, la sentenza della Corte d’Appello che, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, aveva condannato il sindaco, per il reato di peculato e disposto l’interdizione temporanea dai Pubblici uffici. Nei fatti il sindaco aveva disposto il rimborso di somme di denaro in suo favore, spese per alcuni conviviali, cui aveva partecipato nella veste di sindaco, per confrontarsi con altri amministratori dei comuni del circondario, al fine di realizzare, insieme agli stessi, un’unione di Comuni per contrapporsi alla linea politica sostenuta dalla vicina Comunità Montana. E ancora, altre liquidazioni erano state disposte dallo stesso sindaco, in suo favore, per altri pranzi con funzionari di alcuni Istituti di credito, aventi come scopo l’ottenimento di alcune sovvenzioni e prestiti per le attività istituzionali del comune amministrato dallo stesso sindaco.
I Giudici di Piazza Cavour hanno ribadito il principio, già riconosciuto dai giudici d’Appello, in merito alla configurabilità del reato di peculato, secondo il quale le spese sono qualificabili come “spese di rappresentanza” quando vengono soddisfatti i requisiti strutturali e funzionali, ovvero per quanto attiene al primo lo svolgimento di una funzione rappresentativa esterna e un fine istituzionale proprio dell’ente pubblico che sostiene tali spese, conseguentemente, per quanto attiene il secondo requisito, esse devono essere funzionali all’immagine esterna dell’Ente Pubblico, in altri termini le “spese di rappresentanza” devono apportare all’Ente maggiore prestigio all’immagine pubblica dello stesso.
La Sesta sezione della Corte di Cassazione, tuttavia, ha deciso di fondare la motivazione del decisum in commento, circa il tema della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, pertanto chiarendo in primis che il dolo nel reato di peculato è caratterizzato dalla mera coscienza e volontà di appropriarsi della “cosa pubblica” e in secundis che l’errore del pubblico ufficiale riguardante la disponibilità di un bene pubblico per fini diversi da quelli istituzionali non configura un errore di fatto su legge diversa da quella penale – ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 47 c.p. – e pertanto idoneo ad escludere il dolo, bensì costituisce errore o ignoranza della legge penale, che non costituisce scusante ex art. 5 c.p..
La Suprema Corte di Cassazione non ha condiviso la tesi proposta dai giudici di merito di primo e secondo grado che non hanno tenuto in debito conto le tesi difensive, inerenti la rilevanza dell’elemento psicologico ed in particolare quelle relative ad una difettosa percezione della realtà fattuale. Il Sindaco, nella fattispecie che ci occupa, infatti, ha ritenuto che le spese sostenute fossero qualificabili di “rappresentanza”, per le circostanze in cui le stesse sono state sostenute, ovvero i pranzi che comunque erano riconducibili a eventi e situazioni latu sensu istituzionali e finalizzati ad ottenere benefici, in termini di prestigio e di complessiva immagine pubblica per il Comune da egli rappresentato, se pur non riconducibili esattamente ai requisiti strutturali e funzionali previsti per la configurazione di una “spesa di rappresentanza”. Proprio per questi motivi la Suprema Corte ha ritenuto di cassare la sentenza della Corte d’Appello, configurandosi nel caso di specie un errore di fatto ai sensi dell’art. 47, primo comma del Codice Penale, considerata la buona fede del sindaco, e quindi capace di escludere il dolo necessario per la configurazione del reato di peculato.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaGIUDIZIALECONSULENZA CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAVORO, SENTENZA N. 5284/17; DEPOSITATA IL 1° MARZO – LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE PUBBLICO SE VENGONO UTILIZZATI PER RELATIONEM GLI ATTI DEL PROCEDIMENTO PENALE APERTO SUI MEDESIMI ADDEBITI
Con la sentenza in commento, la Sezione Lavoro della Cassazione ha annullato la decisione della Corte d’appello di Roma che aveva confermato la sentenza del giudice di primo grado in merito alla reintegra nel posto di lavoro di una dipendente del Ministero delle Politiche agricole, Alimentari e Forestali, fondando il “decisum” sull’illegittimità del licenziamento in assenza di un’autonoma fase istruttoria che comprovi le contestazioni addebitate al lavoratore.
Nel caso di specie, il Ministero con nota 200 del 2013 effettuava la contestazione disciplinare nei confronti della propria dipendente, richiamando i capi di imputazione formulati dal Gip del Tribunale di Roma al fine di motivare il provvedimento cautelare a carico della donna.
Proprio sull’insufficienza motivazionale il Tribunale capitolino dichiarava l’illegittimità del licenziamento e ordinava, come prassi, la reintegra nel posto di lavoro e il pagamento risarcitorio delle mancate retribuzioni e dei contributi non versati dal licenziamento all’effettiva reintegrazione.
Secondo la corte territoriale, non sarebbe ammesso in sede di procedimento disciplinare il mero rinvio “per relationem” agli atti del procedimento penale, ma occorrerebbe invece «procedere all’autonoma fase istruttoria comprovando le contestazioni addebitate al lavoratore».
Ma la necessità di un’autonoma valutazione e motivazione dei fatti tali da giustificare il licenziamento da parte del datore di lavoro – in questo caso pubblico – è stata confutata alla radice dai giudici di legittimità.
In particolare, la Suprema Corte ha sottolineato che non esiste alcuna norma che imponga alla Pubblica amministrazione di procedere ad un’autonoma istruttoria ai fini della contestazione disciplinare.
Soprattutto, ciò non è previsto dal testo unico sul pubblico impiego applicabile ratione temporis (il d.lgs 165/2001) tantomeno nella norma che regola i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale (l’articolo 55-ter), ai sensi della quale in caso di successivo proscioglimento penale, la parte potrà riassumere il procedimento disciplinare entro sei mesi per chiedere l’esecuzione della decisione.
Tuttavia, vale anche la conclusione simmetrica, ossia la riapertura di un procedimento disciplinare archiviato senza sanzione, se il versante penale si è successivamente concluso con l’affermazione della penale responsabilità sui medesimi fatti.
Secondo la S.C. sulla base della suddetta pronuncia, e all’esito di una ricognizione normativa, pertanto, la P.A. sarà libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di «ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi di contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente».
Conseguentemente, argomenta la Suprema Corte, la prova delle condotte oggetto della contestazione devono essere fornite dal datore non tanto nella procedura disciplinare, ma piuttosto nella successiva ed eventuale fase di impugnativa giudiziale. Per tutto ciò, deve ritenersi ingiustificata – secondo la S.C. – un’assoluta omissione di vaglio da parte del giudice civile di merito delle argomentazioni difensive che una parte prospetti,deducendole dagli atti del procedimento penale aperto sui medesimi addebiti.
Avv. Samantha Borsellino
ContinuaGIUDIZIALECONSULENZA NEWSLETTER N. 1 – MAGGIO 2017 SANITÀ
Illegittimità del criterio della spesa storica nella distribuzione dei budget. Violazione del principio della concorrenza con riguardo alle strutture di recente accreditamento.
Il Giudice Amministrativo, in numerose e recenti pronunce, ha avuto modo di affermare l’illegittimità di quelle disposizioni, dettate in sede di determinazione dell’aggregato di spesa e di riparto dei budget, che precludono l’accesso a soggetti privati accreditati (e quindi astrattamente in possesso di tutti i requisiti richiesti, ancorché, in atto, non contrattualizzati), al mercato delle prestazioni erogabili per conto del servizio sanitario pubblico.
In questi termini, la sentenza 16 settembre 2013, n. 4574 della III sezione del Consiglio di Stato, a tenore della quale “sebbene… il sistema sanitario nazionale legittimamente risulti ispirato alla necessità di coniugare il diritto alla salute degli utenti con l’interesse pubblico al contenimento della spesa, esso non può… prescindere dal contemplare anche … (la) tutela della concorrenza, irrimediabilmente lesa dall’automatica preclusione alla messa a contratto di nuovi soggetti accreditati“. I Giudici di Palazzo Spada, hanno condiviso la sentenza di primo grado, a tenore della quale “escludendo dal sistema, automaticamente ed indiscriminatamente, tutti i soggetti che negli anni precedenti non sono già stati parte di un contratto con la competente ASL, senza tenere conto, in particolare, della posizione degli operatori accreditati che abbiano fatto richiesta di essere ammessi ad erogare prestazioni a carico del servizio sanitario nazionale” si determina una “discriminazione tra gli operatori” illegittima.
Fermo restando, infatti, il tetto di spesa massimo, la ripartizione del budget tra i soggetti accreditati dovrebbe essere operata in base ad appositi criteri idonei a garantire condizioni di parità tra tali soggetti, a prescindere dal fatto che essi abbiano o meno sottoscritto in precedenza un contratto. In altri termini, il criterio della spesa storica, anche nel caso di risorse decrescenti, comporta, infatti, l’esclusione a tempo indefinito dal mercato di altri soggetti che si è ritenuto di poter accreditare, traducendosi in una illegittima discriminazione.
In termini sostanzialmente analoghi la sentenza del Tar Catanzaro n. 2525 del 19 dicembre 2016, a tenore della quale la determinazione dei tetti di spesa per le prestazioni di assistenza specialistica da privato in ragione del “costo storico” si pone in contrasto con i principi di tutela della concorrenza, se non siano adottati i necessari correttivi o se, quanto meno, non vi siano specifiche ragioni di tutela della sanità che la giustifichino.
Secondo la richiamata sentenza, infatti, “sebbene il sistema sanitario nazionale legittimamente risulti ispirato alla necessità di coniugare il diritto alla salute degli utenti con l’interesse pubblico al contenimento della spesa, esso non può prescindere dal contemplare anche la tutela della concorrenza (pur solo tendenziale in questa materia: cfr. T.A.R. Calabria – Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1323), irrimediabilmente lesa dall’automatica preclusione alla messa a contratto di nuovi soggetti accreditati (T.A.R. Lombardia – Brescia, Sez. II, 19 giugno 2012, n. 1083, condivisa sul punto da Cons. Stato, Sez. III, 16 settembre 2013, n. 4574)”.
Recentemente, il Tar Catania, con la sentenza n. 927 dell’1 aprile 2016, ha ritenuto in contrasto con il principio di concorrenza di derivazione comunitaria la previsione, contenuto in un decreto assessoriale recante la determinazione dell’aggregato regionale (art. 7 del Decreto dell’Assessore alla Salute della Regione Siciliana del 06/09/2013, secondo cui “nel caso in cui l’aggregato assegnato nel 2013 ad una singola branca non sia interamente fruibile in relazione alla domanda e/o alle potenzialità erogative delle strutture, i direttori generali delle Aziende sanitarie provinciali possono attribuire, nel limite del 50% delle eventuali economie per ciascuna branca che residua dopo l’applicazione di quanto previsto dal punto 3 del precedente art. 6, un budget anche a strutture accreditate ma in atto non contrattualizzate”), che condiziona la futura contrattualizzazione di strutture sanitarie già accreditate al realizzarsi di “eventuali economie per ciascuna branca”. Infatti, per quanto la previsione sia meno rigida di quella (art. 25 l. reg. n. 5/09) che precludeva in modo assoluto l’assegnazione di budget a soggetti accreditati ma mai prima di allora contrattualizzati (su cui v. Tar Palermo, n. 857/11), anche la norma del decreto assessoriale persevera nel riservare a questi ultimi un trattamento deteriore rispetto a quello riservato ai titolari di accordi contrattuali. Senza che, però, vi siano ragioni che giustifichino tale indiscriminata preferenza.
Legittime le clausole di salvaguardia previste negli accordi per l’erogazione delle prestazioni sanitarie a carico del Servizio Sanitario.
È legittima la clausola inserita nello schema tipo di accordo contrattuale tra gli erogatori privati accreditati con il SSR, nella parte in cui prevede a carico degli operatori privati, l’accettazione incondizionata dei provvedimenti che hanno fissato i tetti di spesa e determinato le tariffe per le prestazioni erogate, nonché la rinuncia ai contenziosi instaurabili contro i predetti provvedimenti.
Questo è il discutibile principio contenuto nella sentenza n. 1039 del 16 maggio 2016, con il quale il T.A.R. Catanzaro è stato chiamato a valutare la legittimità del decreto adottato dal commissario ad acta per l’Attuazione del Piano di Rientro dai Disavanzi del Settore Sanitario della Regione Calabria, con il quale è stato approvato lo schema tipo di accordo contrattuale per l’erogazione delle prestazioni sanitarie e socio sanitarie per conto ed a carico del servizio sanitario regionale.
La sentenza ha precisato che la predetta clausola può ritenersi legittima a condizione che i suoi effetti si producano solo nei confronti di provvedimenti già adottati, in quanto l’eventuale limitazione della tutela giurisdizionale di atti non conosciuti (o non ancora adottati) si porrebbe in contrasto con norme imperative, con riguardi all’art. 24 della Costituzione, e sarebbe, quindi, affetta da nullità ai sensi degli artt. 1418 e 1419 del c.c.
La sentenza del T.A.R. Catanzaro si pone in linea con la recente pronuncia del Consiglio di Stato, sez. III, (ordinanza n. 906 del 26 febbraio 2015), che ha riconosciuto la legittimità di un’analoga previsione inserita nello schema di accordo adottato dal commissario ad acta per la realizzazione del Piano di Rientro dai Disavanzi del Settore Sanità della Regione Abruzzo, precisando che: “gli operatori privati non possono ritenersi estranei a tali vincoli e stati di necessità, che derivano da flussi di spesa che hanno determinato in passato uno stato di disavanzo eccessivo nella Regione e che riguardano l’essenziale interesse pubblico alla corretta e appropriata fornitura del primario servizio della salute alla popolazione della medesima Regione per la quale gli stessi operatori sono dichiaratamente impegnati”.
Sul piano dell’effettività della tutela giurisdizionale, il principio espresso in tali pronunce costituisce un parziale passo indietro rispetto a quello in precedenza affermato dal Giudice amministrativo, che con maggiore larghezza in passato ha ritenuto illegittime clausole consimili, anche con riferimento a fatti precedenti alla rinuncia e a giudizi già in corso.
Si tratta, però, di un orientamento che va consolidandosi (cfr. Tar Lazio, 03/03/17, n. 3104: “Il rapporto tra diritto fondamentale alla difesa in giudizio con questo quadro normativo emergenziale è stato pure trattato dalla sezione, che seppure esaminandola come censura proposta da altro ricorrente avverso i due decreti impugnati n. 324 e n. 555 del 2015, ha osservato che, come affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.238/2014 il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale può essere limitato purchè vi sia un interesse pubblico riconoscibile come potenzialmente preminente sul principio consacrato dall’art.24 della Costituzione (TAR Lazio, III quater, 2 febbraio 2016, n. 1446). Ed in questo caso l’interesse pubblico preminente è individuato, in presenza di una dettagliata normazione di rango primario e di rango regionale in tema di contenimento della spesa pubblica sanitaria, (da ultimo Consiglio di Stato, sezione III, 19 luglio 2016, n. 3202, di conferma in senso reiettivo dell’appello alla sentenza della sezione n. 6199/2009; ed analogamente del 25 marzo 2016, n. 1244 di conferma in senso reiettivo dell’appello alla sentenza n. 6200/2009, nelle quali veniva posta in rilievo la natura emergenziale della legislazione in tema di Piani di Rientro) nella necessità di non aggravare detta spesa anche con quella derivante dal contenzioso”).
Il contributo del 2% previsto dall’art. 1, co. 39, L. n. 243/04, dovuto dalle società di capitali accreditate con il Servizio Sanitario Nazionale ha come base di calcolo il “fatturato annuo” attinente alle prestazioni specialistiche effettuate con l’apporto dei medici operanti con tali società.
Con undici recenti sentenze (nn. 11256, 11254, 11255, 11256, 11257, 11418, 11419, 11420, 11523, 11523, 11748 e 12107 del 2016), in parte tra loro identiche, la Corte di Cassazione ha interpretato l’esatta portata normativa dell’art. 1, co. 39, L. n. 243/04, ai sensi del quale “Le società professionali mediche ed odontoiatriche, in qualunque forma costituite, e le società di capitali, operanti in regime di accreditamento col Servizio sanitario nazionale, versano, a valere in conto entrata del Fondo di previdenza a favore degli specialisti esterni dell’Ente nazionale di previdenza ed assistenza medici (ENPAM), un contributo pari al 2 per cento del fatturato annuo attinente a prestazioni specialistiche rese nei confronti del Servizio sanitario nazionale e delle sue strutture operative, senza diritto di rivalsa sul Servizio sanitario nazionale. Le medesime società indicano i nominativi dei medici e degli odontoiatri che hanno partecipato alle attività di produzione del fatturato, attribuendo loro la percentuale contributiva di spettanza individuale”.
Interpretando l’esatta portata precettiva di tale norma, con particolare riferimento al concetto di “fatturato annuo”, sulla cui base l’ENPAM pretende il contributo del 2%, la Corte ha evidenziato che esso non riguarda l’intero fatturato della società, ma quella parte derivante dal regime di accreditamento con il Servizio Sanitario Nazionale. Tale quota di fatturato, in altri termini, rappresenta il controvalore di tutte le prestazioni di carattere specialistico rese dai medici e dagli odontoiatri, retribuite secondo i criteri indicati dal d. lgs.vo n. 502/92.
Secondo la Corte, tale interpretazione risponde ad esigenze di tipo solidaristico, che permettono di considerare i contributi quali strumenti finanziari della previdenza: “il medico in regime di libera professione e collaborazione con una società di capitali, in quanto svolge una prestazione di tipo professionale identica a quella dello specialista direttamente convenzionato (accreditato), beneficia a titolo di solidarietà (seppur nella misura diversa e inferiore del 2%) del contributo a carico dell’impresa accreditata, allo stesso modo con cui ne beneficia il medico o odontoiatra accreditato ad personam o facente parte di un’associazione di professionisti o di una società di persone, e ciò in forza dello stesso contratto di accreditamento con il Servizio sanitario nazionale. In tali sensi depone anche la funzione che l’ordinamento assegna a tali società, qualificandole come “partecipanti all’erogazione dei livelli essenziali di assistenza garantiti dallo Stato“, che, unita all’omogeneità delle prestazioni rese da tali strutture rispetto a quelle rese dal servizio pubblico, concorre a delineare un concetto “unitario” di servizio sanitario” (Cass. civile, sez. lav., 31/05/2016, n. 11256).
Con tali affermazioni, è stata, pertanto, respinta la tesi sostenuta da numerose società, secondo cui l’interpretazione che àncora al fatturato della società la base di calcolo della contribuzione previdenziale per i medici e gli odontoiatri finirebbe per sottoporre a contribuzione anche la quota di fatturato prodotto da soggetti diversi dal medico specialista (biologi, analisti, tecnici di laboratorio ecc.), i quali, comunque, concorrono a rendere possibile la prestazione sanitaria. A questo proposito, però, la Suprema Corte ha precisato che “la prestazione specialistica in questione è (per definizione) la stessa, nel senso che richiede la stessa organizzazione e il coinvolgimento delle stesse professionalità, sia che sia resa da una società di capitali o di professionisti, sia che sia resa dal singolo medico-persona fisica; la sua remunerazione è unica e fissata dall’autorità pubblica nel nomenclatore tariffario, anche sulla base di una valutazione complessiva dei costi che essa comporta. E così come non si dubita che il medico-persona fisica non possa scomputare dalla base di calcolo del contributo ENPAM da lui dovuto il valore dell’opera prestata dai collaboratori di cui si sia avvalso o il costo dei macchinari adoperati (oltre alla già prevista decurtazione riferita al costo dei materiali e alle spese prevista dai D.P.R. n. 119 e 120: artt. 7 e 4, richiamati dal regolamento ENPAM), altrettanto deve ritenersi con riguardo alla società di capitali che si avvale del medico specialista in regime di libera professione e che per la prestazione sanitaria da questi resa riceve dallo stesso Servizio sanitario nazionale la medesima remunerazione del primo. E analogamente a quanto previsto per il singolo medico professionista accreditato, l’Ente previdenziale si è dato carico di stabilire una quota di “abbattimento” della base contributiva volta a depurare il fatturato dai costi di produzione necessari per le prestazioni sanitarie specialistiche, attraverso il richiamo al D.P.R. n. 119 e D.P.R. n. 120 del 1988 (e alle percentuali previste in tali decreti) contenuto nel Regolamento del fondo della specialistica esterna, come modificato dagli artt. 1 e 2 con delibera n. 19 del 22 aprile 2005, approvata dai Ministeri vigilanti sulla fondazione ENPAM e assunta per dare attuazione alla L. n. 243 del 2004. Questa determinazione non è, come si sostiene nella sentenza impugnata e dalla stessa controricorrente, fuori da ogni previsione legislativa ma rientra nell’ambito dei poteri che l’ordinamento riconosce all’ente previdenziale nel D.Lgs. n. 509 del 1994, art. 2 laddove gli attribuisce autonomia gestionale, organizzativa e contabile, nei limiti ed “in relazione alla natura pubblica dell’attività svolta” (art. 2, comma 1) e gli impone di costituire una riserva legale preordinata ad assicurare la continuità nell’erogazione delle prestazioni ed a garantire l’equilibrio di bilancio (art. 1, comma 4, lett. c)” (Cass. civile, sez. lav., 31/05/2016, n. 11256).
La nuova riorganizzazione della rete ospedaliera ai sensi del d.m. 2 aprile 2015 n. 70: l’ospedalità privata alla luce del decreto 31 marzo 2017 dell’Assessorato della Salute della Regione siciliana.
Con decreto del 31 marzo 2017, pubblicato sul Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana n. 15 del 14 aprile 2017, l’Assessorato della Salute ha dettato disposizioni recanti la riorganizzazione della rete ospedaliera ai sensi del d.m. 2 aprile 2015 n. 70. Con particolare riferimento all’ospedalità privata, il decreto si propone, fra l’altro, di razionalizzare l’offerta ospedaliera privata, incentivando la riconversione dei posti letto acuti in post acuti, con la conseguente implementazione degli stessi, coerentemente alla programmazione complessiva regionale e per bacino, con maggiore attenzione a quelle province che presentino maggiori carenze.
La rimodulazione dell’offerta ospedaliera accreditata privata avverrà secondo i criteri forniti dal medesimo decreto, distinti a seconda che la casa di cura sia accreditata per meno di 40 o 60 p.l. acuti ovvero per un numero di p.l. acuti compreso fra 40 e 59.
Con riferimento al primo modulo (ossia, case di cura accreditate per meno di 40 o 60 p.l. acuti), il decreto pone una diversa disciplina distinguendo tra case di cura “non monospecialistiche”, case di cura “monospecialistiche” e case di cura “ad indirizzo specifico neuro-psichiatrico”, specificando nel dettaglio cui si rinvia (http://www.gurs.regione.sicilia.it/Gazzette/g17-15o/g17-15o.pdf) le particolari forme di riconversione previste per ognuna delle riferite categorie.
Rispetto al secondo modulo (ossia, case di cura con numero di p.l. acuti da 40 a 59), il decreto prevede che le strutture appartenenti ad un unico soggetto giuridico o gruppo societario potranno proporre la rimodulazione della loro articolazione mediante trasferimenti o concentrazione di p.l., coerentemente con il rispetto del fabbisogno e degli standard.
In particolare, le case di cura con p.l. accreditati per acuti in numero inferiore a 60, ma già autorizzate per 60 o più p.l. per acuti, potranno incrementare i letti accreditati fino a 60, fino al un massimo di 10 p.l. per ogni struttura, sempreché lo standard provinciale non sia saturo. È prevista, inoltre, anche per le case di cura con p.l. inferiore a 60, la riconversione in “monospecialista” o in post acuti.
ContinuaNEWSLETTER N. 1 – MAGGIO 2017 APPALTI PUBBLICI
Il bando di gara che prevede il criterio di aggiudicazione con il massimo ribasso è impugnabile senza attendere l’aggiudicazione.
La III Sezione del Consiglio di Stato, con la recente sentenza n. 2014/2017, ha precisato che nel caso di contratti c.d. labour intensive, il criterio di aggiudicazione da seguire è sempre quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, senza possibilità alcuna di derogarvi, ancorché ricorra una delle ipotesi di cui all’art. 95, co. 4 (“servizi con caratteristiche standardizzate”), d. lgs. n,. 50/16.
Come è noto, il criterio “ordinario” è, oggi, quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Quello del minor prezzo, invece, ha un ruolo ormai recessivo, dal momento che può essere utilizzato nei soli casi tassativamente previsti dalla legge e in presenza di specifica ed adeguata motivazione: “Se nell’art. 83 del vecchio Dlgs. n. 163/06 tali criteri erano posti su una posizione di parità, e spettava unicamente all’Amministrazione nella sua discrezionalità optare per l’uno per l’altro, l’art. 95 dopo avere affermato che “I criteri di aggiudicazione non conferiscono alla stazione appaltante un potere di scelta illimitata dell’offerta” e che “Essi garantiscono la possibilità di una concorrenza effettiva e sono accompagnati da specifiche che consentono l’efficace verifica delle informazioni fornite dagli offerenti al fine di valutare il grado di soddisfacimento dei criteri di aggiudicazione delle offerte”, ha imposto l’offerta economicamente più vantaggiosa come criterio “principale”, e il massimo ribasso come criterio del tutto “residuale” utilizzabile solo in alcuni e tassativi casi, e comunque previa specifica ed adeguata motivazione”.
Quando sia stato scelto il criterio del prezzo più basso (ora indicato come “minor prezzo”) ancorché sia obbligatorio l’utilizzo di quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, il Consiglio il bando va immediatamente impugnato, senza attendere l’esito della gara. Secondo il OCnsiglio di Stato, infatti, “Ciò non può che condurre, sul versante delle condizioni e dei tempi di esperibilità dell’azione di annullamento, alla conclusione dell’onere dell’immediata impugnazione dell’illegittima adozione del criterio del massimo ribasso. Tutti i presupposti sono sussistenti: a) la posizione giuridica legittimante avente a base, quale interesse sostanziale, la competizione secondo meritocratiche opzioni di qualità oltre che di prezzo; b) la lesione attuale e concreta, generata dalla previsione del massimo ribasso in difetto dei presupposti di legge; c) l’interesse a ricorrere in relazione all’utilità concretamente ritraibile da una pronuncia demolitoria che costringa la stazione appaltante all’adozione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ritenuto dalle norme del nuovo codice quale criterio “ordinario” e generale”.
La soluzione contraria, conclude la sentenza, comprometterebbe due principi fondamentali del nuovo impianto normativo:
1) la “gerarchia” affermata fra i due criteri di aggiudicazione, ed il conseguente primato del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, non “conterebbe più nulla” se non venisse offerta al ricorrente la possibilità di impugnare da subito il bando;
2) allo stesso modo, verrebbe tradita la logica “a due fasi” che caratterizza il nuovo impianto normativo: il legislatore ha infatti deciso di affrancare il contenzioso sull’aggiudicazione da tutte le questioni attinenti all’ammissione ed esclusione, che temporalmente e logicamente precedono, appunto, la fase dell’aggiudicazione. Sicché, non avrebbe senso dover attendere l’aggiudicazione per far valere un vizio afferente alla fase di ammissione/esclusione.
Alla luce di tale importante pronuncia, quindi, gli appalti c.d. labour intensive, come quelli di raccolta e trasporto rifiuti, devono sempre essere aggiudicati col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, a prescindere dalla modalità di scelta del contraente (procedura, aperta, ristretta, negoziata).
Gli oneri di sicurezza nel nuovo codice degli appalti pubblici.
Con l’introduzione del d.lgs. n. 50/2016 si è finalmente cercato di porre rimedio ad un’annosa questione che per lungo tempo ha diviso la giurisprudenza. Si fa riferimento agli oneri di sicurezza aziendale e alla conseguente esclusione del partecipante ad una gara pubblica che abbia omesso di indicarli.
In merito, il nuovo Codice Appalti, all’art. 83, co. 9, statuisce che “Le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all’articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all’offerta tecnica ed economica, obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all’uno per mille e non superiore all’uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 5.000 euro. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere, da presentare contestualmente al documento comprovante l’avvenuto pagamento della sanzione, a pena di esclusione. La sanzione è dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione. Nei casi di irregolarità formali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non essenziali, la stazione appaltante ne richiede comunque la regolarizzazione con la procedura di cui al periodo precedente, ma non applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa”.
Ad una prima lettura, la norma citata sembrerebbe escludere la possibilità di sanare, attraverso il soccorso istruttorio, i vizi afferenti l’offerta tecnica o economica. In realtà, la più recente giurisprudenza amministrativa, anche in ragione dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia Europea, ritiene sanabile l’omessa indicazione degli oneri di sicurezza tutte le volte che la legge di gara non lo abbia previsto espressamente: “il disposto di cui all’art. 83, comma 9, del d.lg. n. 50/2016, che esclude l’applicabilità della procedura di soccorso istruttorio per la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale “afferenti all’offerta tecnica ed economica“, deve essere contemperato con la necessità, in applicazione dei principi di parità di trattamento e di trasparenza, di una intermediazione/contraddittorio con l’appaltatore, che potrebbe aver presentato comunque un’offerta comprensiva degli oneri senza averla però dettagliata. Tale necessità che l’esclusione del concorrente non possa essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato dalla stazione appaltante, nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio, a regolarizzare l’offerta, proprio in quanto espressione dei principi generali richiamati dalla Corte di Giustizia, deve trovare applicazione anche nei casi di gare cd “sottosoglia” nelle ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale l’offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale” (TAR Sicilia, Catania, sez. III, sent. n. 3712/2016).
Con il recente “correttivo” al codice appalti (d. lgs. n. 56/17, entrato in vigore il 20/05/17), è stato espressamente previsto che “Nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell’articolo 36, comma 2, lettera a)”. In base alla novella, quindi, nel mentre sono individuate alcune tipologie di appalti (come quelli inferiori ad euro 40.000 per i quali si sia proceduto mediante affidamento diretto) per i quali non è richiesta l’indicazione degli oneri, per gli altri la previsione esplicita da parte della Legge circa l’onere dichiarativo in parola, in combinato disposto con l’art. 83, co. 9, del Codice (che non consente si ricorrere al soccorso istruttorio per le omissioni relative all’offerta economica), può autorizzare a ritenere che in questi casi debba senz’altro disporsi l’esclusione dell’offerta che esibisca tale lacuna, anche se la legge di gara taccia al riguardo, in virtù del meccanismo della c.d. eterointegrazione, e cioè del fatto che il nuovo Codice, diversamente da quello precedente, pone (dopo la modifica del 2017 di cui si è dato atto) in modo esplicito un onere dichiarativo (“deve…”) a carico dell’offerente, non rimediabili attraverso il soccorso istruttorio, stante il divieto all’uopo previsto dall’art. 83, co. 9 (anch’esso modificato dal correttivo).
Gare d’appalto, la mancata adesione al patto di legalità è sanabile nel corso del procedimento.
Il soggetto che omette di allegare all’offerta l’adesione ai patti di legalità contro il rischio di infiltrazione criminale nelle gare d’appalto, di cui all’art. 1, comma 17, l. n. 190/2012, può integrare la dichiarazione ed evitare l’esclusione pagando la sanzione pecuniaria prevista dal bando per il soccorso istruttorio (sanzione oggi eliminata dal correttivo al Codice).
Ciò è quanto ha stabilito l’Anac con delibera n. 1374 del 21 dicembre 2016, depositata presso la Segreteria del Consiglio in data 4 gennaio 2017, su richiesta di parere formulata dal Ministero dell’Interno, nel solco di quanto già deciso dalla medesima Autorità (determinazione n. 1/2015 e delibera n. 227/2016) nella vigenza del precedente codice dei contratti pubblici (D. Lgs. n. 163/2006).
Laddove le dovute dichiarazioni di adesione ai protocolli di intesa sulla legalità non vengano allegate ai documenti di gara, secondo l’Autorità non deve applicarsi la sanzione dell’esclusione automatica, bensì occorre attivare la procedura di soccorso istruttorio, con la quale la stazione appaltante richiede al soggetto di sanare la propria posizione entro dieci giorni. In questo caso, al soggetto verrà applicata la sanzione di cui all’art. 83, comma 9, del D. Lgs. n. 50/2016, ossia una somma compresa fra l’uno ed il cinque per mille del valore dell’appalto, che nel massimo non può comunque superare i cinquemila euro.
Ciò, chiarisce l’Autorità, nel solo caso in cui il soggetto non voglia incorrere nell’esclusione dalla gara. Se invece egli non dovesse rispondere alla richiesta di regolarizzazione, optando quindi per l’esclusione, la sanzione non deve essere pagata.
Nel nuovo Codice Appalti non è più prevista la deroga per i contratti di avvalimento infragruppo.
Con la recente sentenza, n. 1632/2017, la terza sezione del TAR Lazio, Roma ha statuito, in vigenza del d.lgs. n. 50/16, la necessità per le imprese partecipanti ad un bando di gara, che decidano di fruire di un contratto di avvalimento con un’azienda appartenente al medesimo gruppo, di presentare alla stazione appaltante un contratto che risponda a tutti i requisiti richiesti dall’art. 89, co. 1, d.lgs. n. 50/16.
In realtà, la questione prende le mosse dall’abrogato art. 49, co. 2 lett. g), del previgente Codice degli Appalti, a mente del quale “nel caso di avvalimento nei confronti di un’impresa che appartiene al medesimo gruppo in luogo del contratto di cui alla lettera f) l’impresa concorrente può presentare una dichiarazione sostitutiva attestante il legame giuridico ed economico esistente nel gruppo, dal quale discendono i medesimi obblighi previsti dal comma 5”. La ratio della norma appena citata risiedeva nella volontà del Legislatore di attenuare l’onere probatorio nelle situazioni in cui si poteva presumere una convergenza di interessi tra più soggetti, ai fini della messa a disposizione di un requisito dell’uno di cui l’altro fosse carente.
In merito, il Collegio afferma che “nessuna norma di analogo tenore trova oggi collocazione nel nuovo Codice degli Appalti Pubblici, il che deve indurre a ritenere che non abbia più spazio la deroga già prevista all’obbligo di produrre il contratto di avvalimento per il caso di sua conclusione tra soggetti societari appartenenti ad un medesimo gruppo (fattispecie nella quale il previgente art. 49 cit., considerava invece sufficiente “una dichiarazione sostitutiva attestante il legame giuridico ed economico esistente nel gruppo”);
c) in particolare, non si rinviene alcuna deroga per l’ipotesi di avvalimento infragruppo nell’art. 89 d.lgs. n. 50/2016 che oggi detta la disciplina fondamentale dell’avvalimento, prevedendo il generale obbligo di allegare il relativo contratto; né la deroga previgente può dirsi espressione di un particolare principio eurounitario di primaria rilevanza o cogente, trattandosi di disposizione (lett. g) del “vecchio” art. 49)”.
Il caso deciso dalla sez. III del TAR Roma, con la sentenza qui in commento, aveva ad oggetto un appalto di fornitura in uno dei settori speciali (aeroportuale), ma tale circostanza non ha impedito di estendere anche a quei settori il principio di diritto ivi affermato: “non può desumersi alcuna deroga neanche dal riferimento ai “settori speciali” di cui al comma 2 dell’art. 89 dove si legge “2. Nei settori speciali, se le norme e i criteri oggettivi per l’esclusione e la selezione degli operatori economici che richiedono di essere qualificati in un sistema di qualificazione comportano requisiti relativi alle capacità economiche e finanziarie dell’operatore economico o alle sue capacità tecniche e professionali, questi può avvalersi, se necessario, della capacità di altri soggetti, indipendentemente dalla natura giuridica dei legami con essi. Resta fermo quanto previsto dal comma 1, periodi secondo e terzo, da intendersi quest’ultimo riferito all’ambito temporale di validità del sistema di qualificazione”; la frase contenuta in quest’ultimo periodo (“Resta fermo…”) non assume una chiara portata derogatoria o eccezionale rispetto a quanto in generale statuito dal comma 1, in quanto con siffatta espressione si conferma, con valore di precisazione, la sicura applicazione, anche nei settori “de quibus”, delle norme di cui ai periodi secondo e terzo ma da essa non è desumibile, in termini univoci, una deroga alle norme contenute nei restanti periodi del comma 1, non espressamente richiamati dal comma 2 (in particolare l’ultimo, relativo all’obbligo di stipulare e produrre in gara un contratto scritto di avvalimento)”.
In definitiva, tutti i contratti di avvalimento, compresi quelli infragruppo, dovranno rispettare i canoni normativi previsti dall’art. 89, co. 1, del nuovo Codice Appalti.
ContinuaNEWSLETTER N. 1 – MAGGIO 2017 SERVIZI AMBIENTALI
Anche nel vigore del nuovo Codice va esclusa l’impresa che ometta di dichiarare l’applicazione di pregresse “penali” per importi considerevoli.
Secondo la recente sentenza del Tar Sicilia, Palermo, n. 1210 del 08/05/2017, anche nel vigore del nuovo Codice costituisce motivo di esclusione l’omessa dichiarazione circa l’avvenuta pregressa applicazione di penali per importi considerevoli subite da altra amministrazione aggiudicatrice in relazione alla stessa tipologia di appalti di servizi (raccolta e trasporto rifiuti). Infatti, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), d. lgs. n. 50/16, incombe sul partecipante ad una pubblica gara l’onere di dichiarare ogni fatto pregresso che possa incidere sull’affidabilità complessiva dello stesso e in particolare tutto ciò che può essere valutato dal seggio di gara alla stregua di un grave “errore professionale”. L’onere dichiarativo sussiste anche se le penali sono state contestate in giudizio e senza che il Giudice amministrativo debba preliminarmente accertare che tali episodi pregressi costituiscono certamente un grave errore professionale (altrimenti, si sostituirebbe all’amministrazione).
Il Tar ha anche precisato che la fonte di prova circa l’esistenza di un grave errore professionale è atipica. In particolare, “il riferimento, contenuto nel citato art. 80, all’accertamento dei gravi illeciti nell’esercizio dell’attività professionale “con adeguati mezzi”, non esclude l’obbligo, in capo alla concorrente, di dichiarare l’esistenza di significative carenze, come tipizzate dal più volte richiamato art. 80, co. 5, lett. c); dichiarazione, dalla quale scaturisce eventualmente l’avvio del contraddittorio (v., in tal senso, Consiglio di Stato, Sez. V, 22 ottobre 2015, n. 4870; la sentenza di questa Sezione, n. 2983/2016, riferita tuttavia alla disciplina precedente, confermata su tale punto, dal C.G.A. con ordinanza n. 220/2017; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 15 marzo 2017, n. 96). Va, peraltro, osservato che, poiché l’art. 86 del d. lgs. n. 50/2016 non indica, rispetto a tale causa di esclusione, alcuno specifico mezzo di prova, sussiste, in atto, la libertà di acquisizione della prova stessa circa la sussistenza della “significativa carenza”; sicché, in attesa che entri in vigore il decreto previsto dall’art. 81, co. 2, dello stesso Codice, le stazioni appaltanti di norma verificano la sussistenza delle cause di esclusione tramite l’accesso al casellario informatico, ma questo non esclude che possano venirne a conoscenza aliunde”.
Il fatto, poi, che la “penale” non sia espressamente contemplata dall’art. 80, co. 5, lett. c), cit., non vale ad escluderne la rilevanza, sotto il profilo dichiarativo e sostanziale. “il legislatore nazionale ha chiaramente indicato, tra le carenze “significative”, l’applicazione di altre sanzioni, tra le quali sia il Consiglio di Stato che l’ANAC hanno incluso le penali, sicché non si riscontra nel caso concreto il lamentato ampliamento degli obblighi dichiarativi, il cui assolvimento risulta, del resto, pregiudiziale rispetto alla possibilità, per il concorrente, di fornire la prova contraria dell’addebito eventualmente mosso; circostanza, quest’ultima, che conduce ad escludere anche la prospettata incompatibilità della disposizione con il par. 6 dello stesso art. 57”.
Naturalmente si tratterà di stabilire, caso per caso, quando il fatto pregresso rilevi ai fini dichiarativi, tenuto conto che la norma non offre dati significativi al riguardo. In particolare, l’operatore economico dovrà fare una ricognizione attenta dei fatti pregressi occorsigli, e valutare se taluno di essi, per la rilevanza o per il suo carattere ripetuto, sia tale da fare scattare l’onere dichiarativo in parola. Al riguardo, utile elementi di orientamento possono essere tratti dalle Linee guida ANAC n. 6 del 16 novembre 2016 e dal parere reso sul loro schema dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato).
La sentenza si segnala perché è tra le prime che si pronuncia sull’ambito di operativa dell’art. 80, co. 5, lett. c).
Per le gare d’appalto di lavori e servizi relativi alle categorie dell’Albo nazionale Gestori Ambientali è richiesta l’iscrizione all’Albo ai fini della partecipazione ed anche se la legge di gara non lo prevede espressamente
Con sentenza n. 1825 del 19/04/17, la V sezione del Consiglio di Stato ha stabilito che, anche nella vigenza del vecchio codice de 2006, il requisito dell’iscrizione all’Albo nazionale per la categoria e classe idonea ai lavori di bonifica ambientale oggetto di gara costituisce requisito di ammissione (e non di esecuzione), anche se la legge di gara nulla preveda esplicitamente al riguardo. In particolare, “si tratta di un requisito speciale di idoneità professionale, in ipotesi da vagliare ai sensi dell’art. 39 d.lgs. n. 163 del 2006; e che, comunque, va posseduto già alla scadenza del termine di presentazione delle offerte, non già al mero momento di assumere il servizio, allora ottenuto – e sempre che poi possa essere ottenuto – dopo aver partecipato con sperato successo alla competizione pur senza aver ancora questa certificata professionalità. Merita dunque conferma l’assunto per cui i bandi di gara aventi ad oggetto lavori di bonifica ambientale implicano l’esistenza dell’iscrizione all’Albo dei gestori ambientali per adeguata categoria e classe quale requisito di partecipazione”.
Del resto, la disciplina sull’avvalimento (art. 49, co. 1 bis, d. lgs. n. 163/06 e art. 89, co. 10, d. lgs. n. 50/16) esclude la possibilità di ricorrere ad un’impresa ausiliaria per la dimostrazione del possesso del requisito di iscrizione all’Albo Nazionale. Con ciò confermando che si tratta non già di un requisito di esecuzione (che, quindi, deve essere posseduto solo al momento di sottoscrizione del contratto), ma senz’altro di ammissione. In passato, il Consiglio di Stato (sez. V, 06/11/2015, n. 5070) aveva ritenuto che il divieto di ricorrere all’avvalimento per la prova del requisito di iscrizione all’Albo valesse anche per le gare celebratesi prima dell’entrate in vigore dell’art. 49, co. 1 bis, d. lgs. n. 163/06 (avvenuta nel 2014) che ha espressamente introdotto tale divieto.
Il fatto, poi, che l’art. 212, co. 5, del codice dell’ambiente (d. lgs. n. 152/06) subordini all’iscrizione all’Albo “lo svolgimento delle attività…”, non autorizza a derubricare il requisito in parola a mero requisito di esecuzione. Come già rilevato da Tar Lazio n. 1889/10, “Tuttavia questa tesi, da un lato, appare illogica dato che nessun senso ha la partecipazione alla gara di chi non è in grado di eseguire i lavori e la cui possibilità di eseguirli dipende da una mera eventualità (che riesca cioè a ottenere l’iscrizione e per di più in tempo utile rispetto alla stipulazione); nello stesso tempo proprio in questa fattispecie la tesi che si critica dimostra la sua debolezza, dato che attendere l’iscrizione sarebbe incompatibile con l’esigenza di immediato avvio dei lavori (che si riferiscono a messa in sicurezza di emergenza di un sito contaminato e hanno, per così dire naturalmente, carattere di urgenza, come del resto dimostra l’articolo 18 del capitolato speciale di appalto che prevede la “consegna dei lavori… in successione immediata alla data di notifica della formale approvazione da parte dell’ente”); non appare del resto casuale che i lavori, definitivamente aggiudicati il 2 dicembre 2009, siano stati consegnati il 10 dicembre e che il contratto sia stato stipulato in pari data”.
L’Anac, invece, ha sempre ritenuto il contrario. Si veda ad esempio, parere precontenzioso n. 152 del 9 settembre 2015: “l’Autorità ha ripetutamente espresso l’avviso che l’iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali costituisce un requisito di esecuzione e non di partecipazione alle gare per l’affidamento di lavori pubblici, dovendo i bandi prevedere una specifica clausola in base alla quale non si procederà alla stipulazione del contratto in caso di mancato possesso della relativa iscrizione (cfr., per tutte: AVCP, parere 23 aprile 2009 n. AG 7-09)» e il Parere di precontenzioso n. 89 del 29 aprile 2010”.
La revisione prezzi spetta anche per i periodi di “proroga” del servizio. Con sentenza 8 maggio 2017, n. 1234, il Tar Sicilia, Palermo, ha ribadito che la revisione dei prezzi di un appalto di servizi, nel vigore del vecchio Codice (art. 115 d. lgs. n. 163/06) costituisce un diritto soggettivo (si prescrive in 5 anni), che si impone persino sulle pattuizioni difformi delle parti ed integra perciò il contratto di appalto. Il diritto alla revisione, precisa il Tar, va riconosciuto anche per i periodi di “proroga” contrattuale, mentre non spetta nel caso di rinnovo. Sull’importo liquidato a titolo di revisione prezzi, spettano gli interessi, da liquidarsi ai sensi del d. lgs. n. 231/02. Per giurisprudenza pacifica, l’indice da utilizzare ai fini della determinazione dell’importo revisionale è quello FOI dell’Istat, anche se una parte della giurisprudenza ha riconosciuto la possibilità di derogare in melius (per l’imprenditore) a tale indice nel caso, per la particolare tipologia del servizio oggetto di appalto, l’aumento del costo dei fattori della produzione sia stato considerevolmente maggiore di quello FOI. Ad esempio, CGARS, n. 137/10 ha dichiarato nulla una clausola che ancorava la revisione all’indice FOI, nel caso in cui il costo del servizio oggetto di gara – trasporto di linea di persone su traghetti e aliscafi – avesse subito un considerevole aumento nel suo complesso a causa dell’aumento spropositato e inatteso del costo del carburante.
Il nuovo Codice non sembra prevedere più come obbligatoria l’inserzione della clausola di revisione prezzi (cfr. art. 106, co. 1, d. lg. n. 50/16), e questo deve suggerire all’operatore economico un’attenta lettura degli atti di gara (specie il capitolato speciale), al fine di verificare se e in che termini la stazione appaltante si sia fatta carico di tale previsione.
La clausola sociale “rigida” è illegittima
Con sentenza del 13 febbraio 2017, n. 231, il Tar Toscana ha ribadito il carattere flessibile e derogabile della c.d. clausola sociale inserita nei contratti di appalto di servizi c.d. labour intesive (tipicamente: l’appalto di raccolta e trasporto rifiuti). Secondo il Tar, infatti, “Lo stato della interpretazione giurisprudenziale, peraltro pacificamente ricostruito dalle parti in causa, può essere sintetizzato, richiamando la sentenza della Terza Sezione del Consiglio di Stato n. 1255 del 2016, nel modo che segue: a) la “clausola sociale” deve conformarsi ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando, altrimenti, essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d’impresa, riconosciuta e garantita dall’art. 41 della Costituzione; b) conseguentemente, l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante; c) la clausola non comporta invece alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria (cfr. Cons. Stato, III, n. 1896/2013). Alla luce di tale interpretazione la clausola di cui alla presente controversia, congiuntamente letta dalle parti come tale da imporre in termini rigidi la conservazione del personale di cui al precedente appalto, risulta illegittima, dovendo invece essa essere formulata in termini di previsione della priorità del personale uscente nella riassunzione presso il nuovo gestore, in conformità alle esigenze occupazionali risultanti per la gestione del servizio, in modo da armonizzare l’obbligo di assunzione con l’organizzazione d’impresa prescelta dal gestore subentrante (in termini la sentenza della Sezione n. 1426 del 2016 nonché la sentenza della Prima Sezione di questo TAR n. 261 del 2016)” . Pertanto, si è pure ritenuto che in sede di giustificazioni relative alla sospetta anomalia dell’offerta il concorrente può esibire un costo del lavoro che non tiene conto delle retribuzioni di tutte le unità di personale impegnate dall’impresa uscente, nel caso in cui indichi le ragioni di tale riduzione e tali ragioni appaiano congruenti (cfr. CGARS, 11/01/17, n. 13, in relazione ad un appalto di servizio di ristorazione, nel caso in cui i pasti da servizi risultavano prevedibilmente inferiori a quelli preparati nel precedente appalto, con conseguente riduzione della forza lavoro rispetto al vecchio operatore).
GIUDIZIALECONSULENZA LA BANCAROTTA FRAUDOLENTA E IL CONCORSO DELL’EXTRANEUS.
La V sezione della Corte di Cassazione, con sentenza n. 42572, lo scorso 7 ottobre si è pronunciata in merito al reato di bancarotta fraudolenta affermando che il cessionario della societá fallita, unitamente al consulente che sovraintende alla conclusione dei relativi contratti, risponde di concorso esterno in bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, laddove sia provato il contributo apportato all’operazione fittizia.
Alla luce dei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimitá, che disciplinano il concorso del c.d. extraneus nei reati fallimentari propri commessi dall’amministratore di fatto o di diritto della societá fallita, si può affermare che é configurabile il concorso nel reato di bancarotta fraudolenta da parte di persona estranea al fallimento, quando la condotta di quest’ultimo sia stata efficiente per la produzione dell’evento e il terzo concorrente abbia operato con la consapevolezza e la volontá di aiutare l’imprenditore in dissesto a pregiudicare gli adempimenti predisposti dalla legge a tutela dei creditori.
In particolare, sotto il profilo oggettivo, il soggetto esterno alla societá può concorrere nel reato proprio tramite una condotta agevolativa di quella dell’intraneus, purchè consapevole della sua funzione di supporto alla “distrazione”, intesa quest’ultima come sottrazione e depauperamento del patrimonio sociale, in caso di fallimento, ai danni dei creditori.
Sotto il profilo soggettivo, invece, il dolo dell’extraneus concorrente nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, non richiede la prova del previo accordo con l’intraneus. Infatti, è sufficiente la volontá della condotta di apporto dell’extraneus a quella dell’intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, non richiedendosi dunque la specifica conoscenza del dissesto della societá.
Inoltre, la giurisprudenza precisa che il dolo può desumersi, anche implicitamente, dall’esame delle circostanze concrete o dal mero contegno omissivo serbato dal fallito in violazione agli obblighi di verità sanciti dall’art. 87 della legge fallimentare.
In tale sentenza, la Corte Suprema, ha valorizzato la vicinanza temporale delle operazioni di cessione, i vincoli di conoscenza con il fallito, il mancato pagamento di un prezzo congruo e la distrazione di rilevanti commesse trasferite a una costituita newco, rilevando l’attuazione di un’operazione sostanzialmente fittizia.
Dunque, la Corte di Cassazione con tale pronuncia, ha ribadito che “integra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale la cessione di un ramo d’azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale, specificatione del consolidato principio per cui costituisce attività distrattiva anche l’operazione con la quale si estrometta un bene dal patrimonio dell’impresa senza che l’equivalente entri nel patrimonio acquisito al fallimento”. In tal caso infatti si realizza uno svuotamento del patrimonio della societá fallita.
Peraltro, la censura mossa viene estesa anche “al contratto di locazione connotato da un canone sensibilmente inferiore a quelli di mercato” stipulato “al fine di mantenere la disponibilità materiale dell’immobile locato alla famiglia del titolare della societá fallenda”.
Sulla stessa linea interpretativa si collocano, inoltre, le decisioni della Suprema Corte in tema di bancarotta fraudolenta documentale, rispetto alla quale per il riconoscimento del concorso dell’extraneus non é richiesta la specifica conoscenza del dissesto della societá, in quanto il dolo risulta integrato dalla volontà della propria condotta di sostegno a quella dell’intraneus purchè abbia consapevolezza dell’incidenza della sua condotta (sul versante della regolaritá e correttezza della rappresentazione documentale della societá poi fallita) tale da rendere o poter rendere impossibile o difficile la ricostruzione delle vicende del patrimonio del fallito.
dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaPECULATO: RISPONDE ANCHE IL LEGALE RAPPRESENTANTE DI UNA SOCIETÀ CONCESSIONARIA DEL SERVIZIO DI RISCOSSIONE TRIBUTI PER CONTO DEL COMUNE.
La Sesta sezione penale della Corte Suprema di Cassazione il 21 settembre 2016, con sentenza n. 46235, si è pronunciata in materia di Peculato nei confronti del legale rappresentante di una società concessionaria del servizio di riscossione tributi per conto di un Comune.
La Cassazione precisa che tale soggetto, il quale gestisce il servizio di riscossione dei tributi locali, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio a prescindere dalla natura privata della società. Infatti, lo stesso codice di procedura penale all’art. 358, privilegiando un criterio oggettivo-funzionale, fornisce una definizione piuttosto ampia dell’incaricato di pubblico servizio in quanto tale soggetto è colui che, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico a prescindere da qualsiasi rapporto d’impiego con lo Stato o con qualsiasi altro ente pubblico.
Pertanto, ciò che si richiede ai fini della configurazione del reato di peculato è che l’attività svolta realizzi finalità pubbliche.
Dunque la Cassazione ha ritenuto integrare il delitto di peculato per appropriazione la condotta del soggetto che, autorizzato alla riscossione dei tributi, ometta di versare le somme di denaro ricevute nell’adempimento della funzione pubblica poiché quel denaro entra nella disponibilità della P.A. nel momento stesso della consegna all’incaricato.
Dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaMISURE CAUTELARI PERSONALI LA SUPREMA CORTE: NON SI PUÒ PRETENDERE L’ESPROPRIO DELLA PROPRIETÀ DELL’IMPRENDITORE ARRESTATO.
La Corte Suprema di Cassazione, il 19 maggio 2016 con sentenza n. 23258, si è pronunciata su un ricorso avverso l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di un imprenditore accusato di corruzione e turbativa d’asta.
Il controllo di legittimità operato dalla Corte si è incentrato (non avendo la Corte alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende oggetto d’indagine) sulla sola esposizione delle ragioni giuridicamente significative che hanno determinato l’applicazione della misura cautelare e sull’assenza nel testo di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.
La Corte Suprema ha annullato l’ordinanza del Tribunale del riesame di Roma ritenendo, così, fondati i motivi di ricorso fatti valere dalla difesa dell’indagato. Tra i motivi avevano trovato posto la contestazione riguardante la conservazione delle esigenze cautelari, malgrado il pericolo di inquinamento delle prove dovesse essere escluso dalla natura delle fonti di prova raccolte (documenti e intercettazioni) e malgrado, quanto al pericolo di reiterazione del reato, non ci fossero precedenti penali e l’interessato non ricoprisse più la carica di amministratore della società nel cui ambito si sarebbero realizzate le condotte illecite. Infatti, il pubblico funzionario era stato licenziato dall’ANAS.
La Corte in questa sentenza sostiene che ai fini delle ipotizzate condotte corruttive non è dato cogliere una logica e adeguata spiegazione, al di là di un generico riferimento all’eccezionale gravità delle vicende in contestazione e alle modalità di commissione dei reati, delle ragioni che dovrebbero fondare la indispensabile presenza dei requisiti di attualità e concretezza del pericolo di reiterazione.
Proprio in relazione a quanto finora esposto è necessario ribadire l’orientamento precedentemente espresso ed affermato dalla Suprema Corte (Sez. 6, n. 3043 del 27 Novembre 2015, dep. 2016, Esposito, Rv. 265618), secondo cui il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, così come introdotto nell’art. 274, lett. c), cod. proc. pen. dalla legge 16 Aprile 2015, n. 47, non va equiparato all’imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, ma sta ad indicare la c.d. continuità del “periculum libertatis” nella sua dimensione temporale, da apprezzare sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a realizzare.
Peraltro, la Corte va al di là di ciò ed afferma che «non può ritenersi sufficiente la prospettata correlazione del pericolo di recidiva al mantenimento, da parte dell’imprenditore indagato, di un potere decisionale nelle scelte dell’azienda di cui egli, nonostante la dismissione dalla carica ricoperta, continua a possedere la maggioranza azionaria, non potendosi certo pretendere che l’emissione di una misura cautelare determini, al fine qui considerato, la necessità di rinunziare al diritto di proprietà».
ContinuaAUTOVELOX NON TARATO, MULTA NULLA – CASSAZIONE
La Suprema Corte di Cassazione, il 6 Aprile scorso, si è pronunciata in merito alla mancata taratura degli autovelox ed ha statuito che in questi casi la sanzione amministrativa comminata, per violazione dell’art. 142, comma 9, del codice della strada (eccesso di velocità), è nulla.
È necessario, infatti, che l’apparecchiatura utilizzata per l’accertamento dell’infrazione stradale sia stata sottoposta alla verifica annuale di funzionalità e taratura.
La Suprema Corte, con questa sentenza, si è così conformata a quanto sancito dalla Corte Costituzionale (sent. Corte Cost., n. 113 del 2015). Quest’ultima, infatti, aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 45, comma 6, del D.lgs. 30 Aprile 1992, n. 285 (codice della strada), nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura.
Dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaTIROCINIO: IL PRATICANTE AVVOCATO POTRÀ PER 12 MESI FARE PRATICA PRESSO UN UFFICIO DEL GIUDICE
TIROCINIO AVVOCATI | 03 Maggio 2016
Una auspicata ed invocata opportunità per quanti, giovani laureati in giurisprudenza, attendevano questo provvedimenti che consentirà loro di svolgere il tirocinio anche in Tribunale accanto ad un giudice. Come fare la domanda ed i requisiti necessari e l’attività, si trovano pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 101 del 3 maggio scorso il decreto n. 58 del 17 marzo 2016 (pubblicata anche nel nostro sito), concernente il regolamento recante disciplina dell’attività di praticantato del praticante avvocato presso gli uffici giudiziari.
La pratica potrà durare 12 mesi e non oltre, non esclude la pratica parallela presso uno studio legale, con gli ovvi obblighi legati al riserbo professionale ed al dovere di correttezza e segretezza connessi con entrambe le professioni.
Bisognerà essere iscritti presso il registro dei praticanti nel distretto in cui si esercita e si chiede di fare pratica, essere degno ed onorabile.
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