Decreto Ristori: in Gazzetta Ufficiale il testo convertito in legge #coronavirus #dlristori #attivitàadistanza
Il 24 dicembre 2020 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il testo del Decreto legge n. 137 del 2020 (cosiddetto “Decreto Ristori“) coordinato con la legge di conversione n. 176 del 2020, recante misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19.
Tra le numerose previsioni meritano particolare attenzione quelle inerenti il processo penale che, finalmente, consentono di affrontare con meno incertezze le difficoltà connesse alla pandemia, incentivando lo svolgimento delle attività da remoto. La legge di conversione, in particolare, interviene su due principali aspetti: le modalità di svolgimento delle attività giurisdizionali, e l’attività di deposito di atti, documenti e istanze.
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Gli articoli richiamati dettano regole differenziate per ciò che concerne la partecipazione dei soggetti e delle parti alle diverse fasi / gradi dei procedimenti, pur stabilendo come regola generale quella secondo cui le udienze possono essere svolte da remoto, purché vi sia il consenso delle parti, escluse – in ogni caso – le ipotesi di incidente probatorio, giudizio abbreviato, discussione finale e tutte quelle udienze nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti. |
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Procedimento d’appello |
Si svolgerà in camera di consiglio senza l’intervento del pubblico ministero e dei difensori, a meno che le parti private richiedano la discussione orale o l’imputato di voler comparire. Previsioni conformi per quanto riguarda il giudizio di appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari e quelli di cui agli articoli 10 e 27 del decreto legislativo n. 159 del 2011 in materia di misure di prevenzione. |
Procedimento |
Senza la richiesta di discussione orale di una delle parti private o del procuratore generale, il collegio deciderà in camera di consiglio senza alcun intervento delle parti. |
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Memorie, documenti, richieste e istanze di cui all’articolo 415 bis c.p.p. prodotte dalla difesa presso gli uffici della procura della Repubblica presso i tribunali, vengano depositati nel portale del processo penale telematico, secondo le modalità previste dal provvedimento del DGSIA del Ministero della Giustizia; |
Tutti gli altri atti, documenti e istanze, vengano depositati mediante l’invio dall’indirizzo di posta elettronica certificata (inserito nell’apposito registro di cui al Decreto Ministeriale n. 44 del 2011) agli indirizzi di posta elettronica certificata degli Uffici Giudiziari destinatari dell’atto. |
In sintesi, il legislatore sembra aver finalmente preso atto delle difficoltà connesse all’emergenza epidemiologica e della necessità di fornire a tutti gli operatori del diritto gli strumenti idonei a garantire il corretto funzionamento della giustizia: strumenti che, oggi più che mai, rendono necessario l’incremento delle attività giurisdizionali da remoto senza, tuttavia, perdere di vista le garanzie e i diritti dei cittadini.
Dott. Roberto Sciacchitano
ContinuaCOVID-19: NON SUSSISTE LA FALSITA’ DELL’AUTOCERTIFICAZIONE ATTESTANTE UNA INTENZIONE.
“Sebbene non vi siano dubbi circa il fatto che l’intenzione dichiarata dall’imputato nel modulo di autocertificazione non abbia trovato riscontro nei successivi accertamenti della Polizia giudiziaria va, tuttavia, escluso che tale falsità integri gli estremi del delitto di cui all’imputazione in quanto l’art. 483 c.p. incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
Il GIP del Tribunale di Milano, Dott. Crepaldi, così si è pronunciato con sentenza del 16.11.2020 sulla falsità in autocertificazione e divieti di spostamento causa COVID-19 delle attestazioni circa le proprie intenzioni di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una determinata attività; la sentenza in particolare critica la possibilità di far rientrare nell’ambito di operatività della fattispecie di falsità in autocertificazione ex art. 483 c.p. con specifico riferimento alle attestazioni circa le proprie “intenzioni” di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una determinata attività.
Nel caso concreto, all’imputato veniva contestata la fattispecie di cui all’art. 76 DPR 445/2000 in relazione all’art. 483 c.p. poiché, in sede di autodichiarazione consegnata ai alle Autorità, nell’ambito dei controlli sul rispetto delle misure di contenimento COVID-19, riferiva che si stava recando “presso un collega per ritirare dei pezzi di ricambio”, circostanza questa poi rivelatasi non vera a seguito delle indagini effettuate dalla stessa Autorità.
Oggetto di valutazione del Giudice meneghino riguardava, pertanto, la circostanza (che lo stesso si stava recando presso un collega per ritirare dei pezzi di ricambio) poi rivelatasi non vera a seguito di accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria.
Brevemente, le norme richiamate sono:
1) l’art. 483 c.p. (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico) che punisce “chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni”;
2) l’art. 76 DPR 445/2000 (Norme penali) che punisce: “1. chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia; 2. l’esibizione di un atto contenente dati non più rispondenti a verità equivale ad uso di atto falso; 3. le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 e le dichiarazioni rese per conto delle persone indicate nell’articolo 4, comma 2, sono considerate come fatte a pubblico ufficiale; 4. se i reati indicati nei commi 1, 2 e 3 sono commessi per ottenere la nomina ad un pubblico ufficio o l’autorizzazione all’esercizio di una professione o arte, il giudice, nei casi più gravi, può applicare l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione e arte”.
Il Giudice richiamava, facendolo proprio, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “sono estranei all’ambito di applicazione dell’art. 483 c.p. le dichiarazioni che non riguardino “fatti” di cui può essere attestata la verità hic et nunc ma che si rivelino mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi”; lo stesso Giudice osservava come tale orientamento veniva confermato nel caso di specie:
1) in relazione al dato testuale, “giacché la nozione di “fatto” non può che essere riferita a qualcosa che già è accaduto ed è perciò, già in quel preciso istante, suscettibile di un accertamento, a differenza della intenzione, la cui corrispondenza con la realtà è verificabile solo ex post”;
2) in ordine al profilo teleologico, “giacché la norma è finalizzata ad incriminare la dichiarazione falsa del privato al pubblico ufficiale in relazione alla sua attitudine probatoria, attitudine che evidentemente non può essere riferita ad un evento non ancora accaduto”;
3) ancora, in un’ottica sistematica, “dalla stessa normativa in tema di autocertificazioni, all’interno della quale i “fatti” sono indicati, quale oggetto di possibile dichiarazione probante del privato, insieme agli stati e alle qualità personali, vale a dire a caratteristiche del soggetto già presenti al momento della dichiarazione”.
Continua ancora la sentenza, “come recentemente osservato da autorevole dottrina il nostro ordinamento non incrimina qualunque dichiarazione falsa resa ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio ma costruisce i reati di falso secondo una sistematica casistica: ne consegue che il rilievo della falsa dichiarazione è legato all’individuazione di una specifica norma che dia rilevanza al contesto e alla singola dichiarazione, la dichiarazione di una mera intenzione nell’ambito di un modulo di autocertificazione non può rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 483 c.p., limitato ai soli “fatti” già occorsi”.
Alla luce di quanto espresso, conclude il provvedimento, “mentre l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de quo, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certa attività non può essere ricompresa nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
In conclusione, il reato previsto ex art. 483 c.p. non sussiste e non può operare qualora l’autocertificazione rilasciata all’Autorità, in particolare in occasione dei controlli relativi alle misure di contenimento del COVID-19, esprima una intenzione o una mera volontà del soggetto dichiarante poiché l’ordinamento punisce (con la norma richiamata) il soggetto che rilasci dichiarazioni (false o mendaci) attestanti un fatto, quale può essere la sussistenza di un requisito o di una situazione fattuale già occorsa, in un atto che è destinato a provare la veridicità del fatto stesso.
Dott. Biagio Cimò
ContinuaInammissibilità dell’impugnazione via PEC, all’indomani del Decreto Ristori. #cassazione #impugnazioni #dlristori
Con la sentenza n. 32566/2020 la Suprema Corte ha confermato l’orientamento secondo cui la proposizione dei mezzi di gravame tramite posta elettronica certificata è da ritenersi inammissibile.
Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato l’inammissibilità della proposizione di nuovi motivi inviati dal Pubblico Ministero tramite PEC alla cancelleria della Cassazione e precisato che le previsioni introdotte dall’art. 24 del d.l. n. 137/2020 (c.d. Decreto Ristori) non permettono comunque di derogare alle modalità di presentazione delle impugnazioni previste dagli artt. 582 e ss. c.p.p.
In tale pronuncia, la Corte illustra i motivi che non consentono di riconoscere al Decreto Ristori una portata innovativa.
In primo luogo, ponendo in risalto la rilevanza della riconducibilità dell’atto impugnato all’identità del soggetto che lo ha sottoscritto e la conseguente funzione che assume la procedura di deposito quale strumento per verificare la legittimazione di colui che propone l’impugnazione. Tale riconducibilità infatti – non comprovabile tramite la posta elettronica certificata – sarebbe attribuibile dalla firma digitale che, tuttavia, non può ancora essere utilizzata stante la mancata adozione del decreto dirigenziale previsto dall’art. 35 del D.M. 21 febbraio 2011 n. 44.
In secondo luogo, la Corte chiarisce che quanto previsto dal comma 1 dell’art. 24 riguarda esclusivamente il valore legale del deposito degli atti relativi alla fase di cui all’art. 415 bis c.p.p. effettuato tramite il portale del processo penale telematico, individuato con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Tuttavia, neanche il citato provvedimento dirigenziale potrebbe comunque derogare – in ossequio al principio di gerarchia delle fonti – a quelle disposizioni di rango primario che regolano il deposito di significativi atti del procedimento penale, come le impugnazioni.
Sulla base di tali considerazioni, pertanto, la disciplina introdotta dal Decreto Ristori non appare idonea a rendere ammissibile la proposizione dei mezzi di gravame tramite posta elettronica certificata, essendo tassativa la modalità di presentazione delle impugnazioni e, quindi, inderogabile dal comma 4 dell’art. 24 del d.l. n. 137/2020.
Dott. Roberto Sciacchitano
Continua#Covid-19 #genitoriseparati #rapporticonifigli #dirittocivile
L’emergenza epidemiologica da Covid-19 e la connessa legislazione d’urgenza emessa per arginarla ha inciso su diversi aspetti della vita sociale ed economica del Paese riportando alla luce, inoltre, importanti questioni giuridiche, tra cui quella sul delicato tema dei genitori separati.
Le misure di contenimento varate dal Governo, infatti, suscitano, tra genitori separati, nuovamente dubbi, confusione e contrasti sia in merito alle “nuove modalità” di gestione del rapporto con i figli non conviventi, sia sulla “strumentalizzazione” del diritto alla salute dei figli minori ovvero delle problematiche di natura economica, enfatizzate volutamente con l’unico scopo di acuire risentimenti e per voglia di prevaricazione.
I suddetti contrasti genitoriali hanno dato luogo a contenziosi giudiziari in cui i giudici hanno ribadito che il diritto dei figli a frequentare entrambi i genitori è prevalente rispetto alle misure contenitive in quanto “nessuna chiusura di ambiti regionali può giustificare violazioni di provvedimenti di separazione o divorzio vigenti” (Cfr. Tribunale di Milano 11 marzo 2020).
Invero, già a seguito dei provvedimenti nazionali emessi in data 10 marzo 2020, con riferimento espresso al diritto di visita del genitore non collocatario della prole, anche il Governo, sul proprio sito istituzionale – governo.it – aveva definitivamente chiarito che “gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore o comunque presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio”(Cfr. DPCM dell’11 marzo 2020).
Di contro, però, altri Tribunali, come quello di Busto Arstizio e di Bari, in data 24 marzo 2020 e 26 marzo 2020, hanno statuito che, in alcuni casi, proprio per il precipuo interesse della salute dei minori e di quella collettiva, appare consigliabile sospendere i prescritti incontri e sostituirli con contatti da remoto.
Pertanto, anche se in linea generale gli incontri tra genitori e figli non conviventi sono possibili, pur nelle ristrettezze della normativa di emergenza, non significa che siano sempre consentiti: le visite dovranno essere bilanciate con le esigenze di tutela della salute del minore e delle persone che abitualmente convivono con lui, in caso di contagio e/o quarantena il diritto alla frequentazione dei genitori e figli non conviventi verrà compresso.
Dott.ssa Daniela Cappello
Continua
Riforma dell’abuso d’ufficio: ridotta l’area del penalmente rilevante, con effetti retroattivi #cassazione #delitticontrolapa #abusodufficio
Con la sentenza n. 32174/2020, la Corte di Cassazione ha statuito che, per effetto della riscrittura dell’articolo 323 c.p. operata dal d.l. n. 76/2020, l’abuso d’ufficio può essere ora integrato solo dalla violazione di fonti primarie, così determinando significativi effetti di riduzione dell’area del penalmente rilevante e, quindi, l’applicazione retroattiva di misure di maggiore favore ai sensi dell’articolo 2 c.p.
Nella vicenda al vaglio della Corte, il sindaco di un Comune, dopo aver assunto la presidenza del Consiglio Comunale, aveva sospeso e poi sciolto la seduta che aveva all’ordine del giorno la mozione presentata dai consiglieri di minoranza per la costituzione di parte civile in un procedimento contro lo stesso sindaco, anziché astenersi in considerazione del proprio interesse.
La Suprema Corte – pur riconoscendo la responsabilità penale dell’imputato in virtù della rilevanza della violazione dell’articolo 78 comma 2 del TUEL che impone agli amministratori (presidente del consiglio comunale e sindaco compresi) di astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere su interesse propri o di prossimi congiunti – chiarisce che, a seguito della riforma, l’abuso d’ufficio nell’opzione che disciplina la sola “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” non può più essere esteso ai regolamenti attuativi e a quelli che abbiano un contenuto vincolante precettivo da cui non residua alcuna discrezionalità amministrativa.
Tale interpretazione del nuovo articolo 323 c.p., pertanto, oltre che restringere l’ambito di applicazione della norma consentirà, per l’effetto dell’articolo 2 c.p., l’applicazione retroattiva di trattamenti di maggior favore per il reo.
Dott. Roberto Sciacchitano
ContinuaOmesso versamento IVA. #Art.10ter #dlgs74/00 #omessoversamento #Iva
La Cassazione con la sentenza n. 28488/2020 conferma un orientamento restrittivo ed estremamente punitivo nei confronti delle imprese in crisi.
In pillole: 1) secondo la S.C. il debito tributario va sempre pagato; 2) la causa di forza maggiore (art. 43 c.p.) può essere invocata quando costituisce l’unica causa che ha dato corso all’impossibilità oggettiva di pagare i debiti con l’Erario; 3) la mancanza di liquidità non costituisce causa di forza maggiore, considerato che il reato si consuma se non viene rispettata la scadenza annuale con il fisco, quindi l’imprenditore avrebbe un anno di tempo (termine per la dichiarazione annuale) per programmare e pagare; 4) la scelta di pagare i dipendenti e non il fisco integrerebbe pienamente il dolo perché l’imprenditore deliberatamente sceglie chi pagare.
L’orientamento non può essere condiviso anche alla luce della pandemia in atto che ha costretto le imprese ad un nuovo assetto organizzativo, a seguito della riforma dell’art. 2086 c.c., che impone assetti organizzativi adeguati alle dimensioni a natura dell’impresa.
Lo scenario Covid imporrebbe il riequilibrio del quadro normativo complessivo, soprattutto fiscale, nella contingenza degli effetti della crisi pandemica. Che il legislatore ascolti e spero provveda, solo così si può evitare il default del sistema economico italiano.
on. avv. Giuseppe Scozzari
Continua#Covid-19 # Deposititelematici #dirittodidifesa
Il Governo, per fronteggiare l’emergenza nazionale legata al contagio da Coronavirus e, allo stesso tempo, evitare un nuovo blocco dell’attività giudiziaria, ha cercato di digitalizzare quanto possibile introducendo il divieto di deposito cartaceo in luogo del telematico e rimettendo ai Presidenti dei vari uffici giudiziari la regolamentazione di tutti gli altri aspetti.
La conseguenza? Termini, modalità e regole diverse da un ufficio giudiziario ad un altro, senza un raccordo comune e senza prevedere una sospensione dei termini in caso di disservizi o tilt informatici.
Primo caso: Il foro del Riesame di Milano, considera inammissibili le impugnazioni trasmesse a mezzo pec (secondo il Consiglio direttivo della Camera penale) per una errata interpretazione di una decisione della Cassazione del 3 novembre scorso che sancisce, appunto, l’inammissibilità delle impugnazioni (cfr. sent. n. 2840/2020).
Una sentenza superata, però, dal decreto Ristori secondo il quale per tutti gli atti, documenti e istanze, diversi da quelli indicati nell’avviso di conclusione delle indagini, è prevista la possibilità di deposito con valore legale mediante posta elettronica certificata; nonché dal D.M. del 9 novembre 2020, nel quale vengono indicate le Pec e le modalità di formazione degli atti digitali.
La posizione del Tribunale del Riesame di Milano, al momento, è un unicuum e quindi si confida che tutto rientri. La preoccupazione però, per gli avvocati della Camera penale, è che al Riesame è in gioco la libertà delle persone e, come afferma il Presidente dell’ordine degli avvocati di Milano, V. Nardo: “Se un giudice ti preannuncia che l’impugnazione via pec verrà dichiarata inammissibile, è chiaro che un avvocato, per cautela, si recherà in tribunale a depositare personalmente, vanificando la ratio della norma e tutte le battaglie per la sicurezza fatte in questi mesi”.
Secondo caso: Il vicepresidente della Corte d’Appello di Napoli, in tema di disservizi che impediscono il deposito telematico degli atti, si è appellato alla “benevolenza” dei magistrati per la concessione della rimessione in termini. Sul punto si è espresso il Presidente delle Camere civili di Napoli, A. de Notaristefani che, seppur riconoscendo le buone intenzioni del suddetto invito, ha ritenuto assurdo e inaccettabile che il diritto di difesa sia rimesso alla “benevolenza di un giudice” che decide a suo piacimento se concedere o meno la rimessione in termini ex art. 153 comma 2 c.p.c.
Alla luce di tale situazione, sono diversi i nodi da sciogliere che investono sia questioni di principio normativo-costituzionali sia di carattere organizzativo (difficoltà di collegamento e supporti tecnici). Dubbi, contrasti e incertezze in un delicato momento storico per il Paese che dopo mesi spesi tra lockdown e coprifuoco spera in una, seppur graduale e lenta ripresa. Si auspica, dunque, un celere intervento del Governo che riveda e preveda norme chiare e uguali in tutti i Tribunali italiani.
Dott.ssa Daniela Cappello
Continua
Riciclaggio: per la Cassazione non sussiste se non vi è prova del reato presupposto. #Riciclaggio #Cassazione #sentenzagarantista
Con la sentenza n. 32112/20, la Cassazione interviene in relazione ad un sequestro penale di somme di denaro detenute senza alcuna giustificazione.
Secondo la Corte regolatrice la disponibilità di denaro ad opera di un nullatenente, anche con precedenti, non prefigura il reato di riciclaggio se il pubblico ministero non fornisce indizi relativi al reato presupposto.
Si tratta di una sentenza garantista che muove da un principio assolutamente corretto e soprattutto in ossequio al principio dell’onere della prova che non può essere a carico dell’imputato come spesso accade.
Per la S.C., che ha annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame, nelle ipotesi di reato di riciclaggio va individuata la condotta del reato presupposto indicando in caso di sequestro l’origine del bene da sottoporre a sequestro.
Nel caso in esame i Carabinieri procedevano al sequestro di € 65.870 ad un soggetto nullatenente con precedenti penali, ma secondo la Corte non veniva fornito alcun indizio in merito al reato presupposto, ritenendo non sufficiente la mera supposizione della sussistenza di operazioni sospette.
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaDichiarazioni infedeli: la sussistenza del reato va verificata quantificando l’imposta evasa da ciascun socio. #cassazione #reatitributari #dichiarazioneinfedele
Con la sentenza n. 31195/2020, la Corte di Cassazione, sezione III penale, ha statuito che nel caso di reato di dichiarazione infedele (articolo 4 del D.lgs. n. 74/2000) commesso da società personali, la sussistenza del reato va verificata quantificando l’imposta evasa da ciascun socio.
Nel caso al vaglio della III sezione penale della Corte, il tribunale del riesame confermava il sequestro preventivo ai fini di confisca per il suddetto reato ascritto ai soci/amministratori di una Sas. Gli stessi, nel ricorso per cassazione, lamentavano invece la mancata analisi dei redditi e la conseguente asserita violazione in capo ai singoli soci.
La Suprema Corte – pur respingendo il ricorso – ha offerto una corretta e coerente interpretazione della norma, stabilendo che il reato di dichiarazione infedele può essere integrato anche mediante la presentazione della dichiarazione in nome della Sas ma che, in tal caso, l’imposta sui redditi evasa deve essere calcolata avendo riguardo al reddito dei singoli soci.
Tale decisione, rivoluzionaria anche rispetto al precedente contrario indirizzo espresso nella sentenza n. 19228/2019, fornisce un condivisibile orientamento, favorevole ai contribuenti: invero, riferendosi alle singole dichiarazioni dei soci, per configurarsi il reato, ciascuna di esse dovrà sottrarre a tassazione almeno € 100.000 di Irpef.
Dr. Roberto Sciacchitano
Continua#Trojanhorse #captazionicolloqui #colloquiriservati
Per la Cassazione (sent. 31604/2020) il sistema di captazione attraverso il “trojan” oltre ad essere legittimo non è subdolo.
Cos’è il trojan? In realtà è un sistema di captazione di conversazioni molto subdolo. Perchè è subdolo? Perchè a volte viene istigata l’auto-installazione di un’app con costi a carico del soggetto spiato.
La S.C. con la citata sentenza ne ha sancito la assoluta legittimità, con un distinguo: solo se la captazione tra presenti è vietata (ad esempio tra un avvocato ed il proprio assistito), questa ma solo questa è inutilizzabile.
La Corte regolatrice ne statuisce la tipicità del captatore informatico, asserendo che esso era utilizzato prima della riforma Bonafede. Da tale assunto ne consegue, sempre secondo la S.C., che il trojan possa essere inquadrato tra gli strumenti di pressione sulla libertà fisica e morale.
on. avv. Giuseppe Scozzari
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