Penale Tributario (art. 3 Dlgs 74/00): può essere condannato a titolo di dichiarazione fraudolenta chi fa un uso improprio del regime del margine.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 42147 della III sez. penale, si è soffermata sul tema della qualificazione penale della condotta di chi, impropriamente, fa ricorso al meccanismo che permette di applicare l’IVA solamente sul margine di vendita, ovvero sulla differenza tra il corrispettivo percepito e il valore di acquisto del bene.
La vicenda, oggetto della sentenza, coinvolgeva l’amministratore di una serie di società che acquistava all’estero autovetture, esenti da IVA, che sarebbe dovuta essere poi caricata per l’intero valore del bene in occasione della prima operazione di rivendita in Italia; senonché le successive cessioni dei veicoli ai privati venivano effettuate mediante il ricorso al cd. Regime del margine, il quale implica l’applicazione dell’IVA solo sulla differenza tra il prezzo finale del bene e quello pagato precedentemente dal rivenditore, facendo figurare così gli acquirenti finali come diretti acquirenti delle auto all’estero, sulla base di false dichiarazioni sostitutive di atto notorio.
La S. C. ha rigettato il ricorso del difensore che contestava la stessa configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta mediante “altri artifizi” e l’inesistenza di un fenomeno di evasione dell’Iva, atteso che non si trattava di un’imposta riscossa e non versata, ma solo non applicata.
In particolare, la S. C., nel confermare il sequestro preventivo per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti a carico dell’amministratore legale delle società, ha sottolineato che nell’annotazione delle fatture, recante la dizione “operazioni in regime del margine ex Dl 41 del 1995”, rinviene proprio quel quid pluris rispetto alla falsa rappresentazione offerta nelle scritture contabili obbligatorie e, cioè, una condotta connotata da particolare insidiosità derivante dall’impiego di artifici idonei ad ostacolare l’accertamento della falsità contabile, necessario ai fini della configurabilità del reato ex art. 3 del D. lgs 74/00.
In questi casi, ha chiarito la Corte, le fatture recano un’annotazione che qualifica l’operazione economica in modo non corretto, prefigurando l’esistenza di presupposti in realtà insussistenti pur se annotate nei registri in considerazione del regime giuridico indebitamente applicato, così venendo confermata la presenza degli indicati presupposti atti a creare un artificioso apparato documentale.
La S.C., citando l’art. 1 dello stesso decreto legislativo ha chiarito, inoltre, che ai fini della configurabilità del fatto di “evasione di imposta”, non è necessario che il tributo sia stato riscosso e non versato, ma è sufficiente che l’importo stesso sia stato indicato in dichiarazione in misura diversa ed inferiore rispetto a quello dovuto.
Circostanza, quest’ultima, che era stata riscontrata nel caso di specie, in cui nella dichiarazione fiscale l’Iva era stata determinata con l’illegale applicazione del regime del margine, indicando quindi, una misura inferiore a quella effettivamente dovuta, perché calcolato non sull’intero valore del bene, così come giuridicamente necessario in applicazione dell’ordinaria disciplina delle operazioni intracomunitarie, bensì solo sulla differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di rivendita del bene.
Alla luce della richiamata pronuncia della Corte di Cassazione, dunque, si può ritenere che:
-la scorretta applicazione del cd. Regime del margine, in caso di insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge, integra uno dei “mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre l’amministrazione in errore”, quando è realizzata mediante l’apposizione sulle fatture della dicitura “operazione in regime del margine ex D.L. N.41 del 1995;
– l’indicazione in misura diversa ed inferiore del tributo rispetto a quello dovuto è sufficiente ai fini della configurabilità del reato di cui all’ art. 3 del D.lgs 74/00 per impiego illecito del regime del margine.
Dott.ssa Daniela Cappello
On. Avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaInfortuni sul lavoro: la Cassazione prosegue sulla linea di una interpretazione ragionevole e coerente con la vita reale di chi fa impresa.
La Cassazione con la sent. 32507/19 ha escluso la responsabilità del datore di lavoro quando il lavoratore agisce in maniera imprudente.
Due i temi esplorati dalla S.C.: 1) verifica della sussistenza dell’elemento oggettivo del reato sotto l’aspetto del nesso di causalità; 2) analisi dell’elemento soggettivo in termini di colpa in capo al datore di lavoro.
La novità della pronuncia consiste nel fatto che la condotta imprudente del lavoratore può interrompere il nesso causale, quindi non solo nel caso in cui sia abnorme ma anche imprudente e quindi rientrante nell’ambito delle sue attribuzioni lavorative.
Con riferimento all’elemento soggettivo, secondo la S.C., la causalità della colpa deve essere valutata in relazione alla violazione della norma cautelare, nei confronti della quale il datore di lavoro assume la posizione di garante.
La vicenda in esame riguarda un lavoratore del settore RSU deceduto a seguito di caduta da un camion durante le operazioni di raccolta.
La S.C. ha annullato senza rinvio la condanna nei confronti del datore di lavoro perché, il lavoratore imprudentemente e violando le indicazioni impostegli dal capo squadra e dal documento di valutazione dei rischi, si era “appeso” al mezzo in movimento nonostante la mancanza dell’apposita pedana. Non riconosciute come concausa la mancata formazione e informazione del lavoratore né l’omessa vigilanza sul comportamento del lavoratore.
La Corte ha sostenuto che la pericolosità della manovra era tale che anche se fosse stato formato l’incidente si sarebbe verificato lo stesso.
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaProcedura Penale: In caso di fatto risalente nel tempo esigenze cautelari giustificate con motivazione rafforzata
In tema di misure coercitive, l’attualità e la concretezza delle esigenze cautelari non deve essere concettualmente confusa con l’attualità e la concretezza delle condotte criminose, onde il pericolo di reiterazione di cui all‘articolo 274, comma 1, lettera c), del Cpppuò essere legittimamente desunto dalle modalità delle condotte contestate, anche nel caso in cui esse siano risalenti nel tempo, ove peraltro persistano atteggiamenti sintomaticamente proclivi al delitto e collegamenti con l’ambiente in cui il fatto illecito contestato è maturato, con conseguente obbligo del giudice di motivare puntualmente a riguardo, su impulso di parte o d’ufficio. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 26 luglio n. 34109.
In tema di misure cautelari, il riferimento in ordine al «tempo trascorso dalla commissione del reato» di cui all‘articolo 292, comma 2, lettera c), del codice di procedura penale, impone al giudice di motivare sotto il profilo della valutazione della pericolosità del soggetto in proporzione diretta al tempo intercorrente tra tale momento e la decisione sulla misura cautelare, giacché a una maggiore distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari (si veda la sentenza delle sezioni Unite della Cassazione, 24 settembre 2009, Lattanzi).
Ai fini dell’apprezzamento del rischio di recidiva – Per l’effetto, ai fini dell’apprezzamento del rischio di recidiva, è necessario indicare gli elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l’indagato/imputato, verificandosene l’occasione, potrà commettere reati della stessa specie, mentre non assolve a tale obbligo la motivazione che valorizzasse il tempo trascorso esclusivamente per scegliere una misura cautelare meno afflittiva (si veda sezione III, 19 maggio 2015, Sancimino, nonché, sezione IV, 28 marzo 2013, Cerreto). Ergo, ne deriva che la necessità di uno specifico apprezzamento in punto di “attualità” impone una “motivazione rafforzata”, per giustificare positivamente l’esigenza di cautela, in caso di fatto risalente nel tempo. Ciò perché, esemplificando, nella normalità dei casi l’attualità del rischio di recidiva, pur in presenza di un pregiudicato e di un fatto grave, sarebbe difficilmente ipotizzabile nel caso di condotta risalente nel tempo (si veda sezione VI, 13 ottobre 2010, Brunella: in tema di esigenze cautelari, ai fini dell’apprezzamento del rischio di recidiva, quanto più ci si distacca dal momento di consumazione del reato e dal contesto che lo ha caratterizzato, tanto più è stringente l’esigenza di una motivazione relativa alla permanenza di una concreta ed effettiva attualità del pericolo di reiterazione, idoneo a giustificare la misura cautelare, che consideri anche aspetti differenti e ulteriori rispetto a quelli propri del fatto in sé considerato e tenga conto, in particolare, delle condotte, dei comportamenti e degli eventi successivi).
Il novum normativo della legge 16 aprile 2015 n. 47 – È in questa ottica che va letto il novum normativo introdotto dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, laddove, quanto all’esigenza cautelare del pericolo di fuga e a quella del pericolo di recidiva è stata prevista l'”attualità”, oltre che la concretezza del pericolo, non dissimilmente a quanto già previsto per l’esigenza cautelare correlata al pericolo di inquinamento probatorio. Infatti, se la concretezza significa esistenza di elementi “concreti” (cioè non meramente congetturali) sulla cui base possa argomentarsi il rischio cautelare, il requisito dell’attualità impone un ulteriore sforzo motivazionale, risultando necessario che il rischio cautelare si basi su riconosciute «occasioni prossime favorevoli», accreditanti o il rischio della fuga o quello della reiterazione del reato.
È chiaro che tale sforzo di motivazione deve essere particolarmente stringente proprio rispetto a vicende risalenti nel tempo; e argomento importante a supporto può rinvenirsi proprio negli elementi qui valorizzati dalla sentenza massimata: acclarata persistenza di atteggiamenti sintomaticamente proclivi al delitto e/o dimostrata esistenza di collegamenti con l’ambiente in cui il fatto illecito contestato è maturato (si veda anche sezione VI, 29 novembre 2017, Desiderato e altri).
Avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaInsidertrading. Straordinaria sentenza della Cassazione. In determinati casi si può disapplicare la sanzione penale.
La Corte di Cassazione con una coraggiosa sentenza la n. 39999/19 della Quinta sezione penale, pronuncia che farà discutere, ha aperto alla possibilità della disapplicazione della sanzione penale nel caso di condanna con pena estremamente afflittiva, successiva all’applicazione di una pesante sanzione amministrativa, per il reato di abuso di informazione privilegiata.
Si tratta della vicenda che vede coinvolto un dirigente di una societa di revisione, al quale la Consob aveva applicato, al termine della procedura amministrativa, pesantissime sanzioni di natura economica e professionale (interdizione dai pubblici uffici). Parallelamente alla procedura amministrativa lo stesso dirigente era stato tratto a giudizio dalla giustizia penale, che lo aveva condannato ad altrettanti pesanti sanzioni di natura penale, interdittiva e risarcitoria (due anni di reclusione, 50 mila € di multa, ed una miriade di sanzioni accessorie personali, risarcimenti alla CONSOB ed alla società di revisione tradita).
Il ricorso censurava l’estrema afflittività della sanzione penale, considerati gli effetti devastanti della condanna amministrativa che di fatto si sovrapponeva a quella penale.
La Corte ha accolto il ricorso affermando alcuni principi:
1) va garantito il ne bis in idem sostanziale, che comporta l’eventuale rideterminazione della sanzione penale (minor peso) in caso di precedente pesante sanzione amministrativa;
2) va affermato il principio del riequilibrio previsto dall’art. 187 terdecies del Tuf, ossia la pena pecuniaria va riscossa per la parte eccedente quella già irrogata in sede amministrativa;
3) relativamente alla pena della reclusione essa può essere rideterminata nel senso della minore afflittivitá nei limiti dell’art 23 del c.p., ossia nel minimo dei 15 giorni;
4) la confisca, afferma la Corte va mantenuta nei limiti di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale ossia al profitto e non anche ai mezzi ed al prodotto;
5) non contenta la Cassazione apre anche alla cancellazione totale della sanzione penale quando essa “doppi quella amministrativa “, ritenendo non ostare a tale affermazione nè l’obbligatorietà dell’azione penale nè il criterio di legalità.
Si tratta di una sentenza che rivoluziona alcuni principi del diritto penale!
Avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaEQUIPE MEDICA: RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE. LA CASSAZIONE CIRCOSCRIVE IL PERIMETRO DELL’ERRORE ALTRUI. VALORIZZA IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DEL CARATTERE PERSONALE DELLA RESPONSABILITA’ PENALE.
La IV sezione Penale della Cassazione con la sentenza n. 30626-19 ha posto ulteriori paletti per l’individuazione della responsabilità medico-professionale nei casi di interventi in équipe.
Nella sentenza in commento la S.C. precisa che la responsabilità per l’eventuale errore altrui non è illimitata, ma va accertata sul piano oggettivo, verificando le attività poste in essere dal singolo medico, concausale, verificando la rilevanza della condotta attiva o omissiva rispetto all’evento, ed infine soggettivo, nei termini della rimproverabilità al medico secondo i canoni della colpa (negligenza-imperizia-imprudenza).
La S.C. precisa ancora una volta che sarebbe errato configurare una responsabilità di gruppo nei casi di cooperazione multidisciplinare ed indica alcuni principi che devono guidare da un lato i medici, nella loro attività di équipe, dall’altro i giudici nel momento in cui devono giudicare, in sintesi:
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ogni sanitario ha l’obbligo di vigilare sull’attività svolta dai medici dell’équipe che lo hanno preceduto od a cui si è aggiunto in virtù dell’obbligo di garanzia nei confronti del paziente;
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il principio di affidamento, che presuppone la correttezza dell’operato del collega, trova il limite nella verifica di idoneità dell’attività svolta da quest’ultimo;
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l’obbligo di garanzia non può essere illimitato ed infatti la S.C. precisa che gli eventuali errori medico-sanitari devono essere evidenti e non settoriali. In questi casi bisogna far ricorso al concetto della “comune conoscenza scientifica del professionista medio”. In altri termini l’anestesista non può essere imputato per un errore del cardiochirurgo e viceversa;
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va verificata in concreto la condotta dei singoli medici per evitare forme occulte di responsabilità penale oggettiva;
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va effettuata una scrupolosa verifica della condotta dei sanitari in relazione all’applicazione\disapplicazione delle linee guida al caso oggetto di intervento.
In conclusione la Cassazione, innovando rispetto ad un precedente indirizzo meno garantista, mette dei punti fermi per la concreta applicazione dell’art. 27 della Costituzione laddove ribadisce che la responsabilità penale non può che essere personale anche nel caso di attività medico-sanitaria in équipe.
Palermo lì 9 settembre ’19
Avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaReati tributari: omessa dichiarazione (art. 5 dlgs 74/00) il prestanome non concorre nel reato se non è provato il dolo. Sorprendente ed inedita sentenza della S.C.
Anche la S.C. a volte ci sorprende con una sentenza che muta radicalmente un indirizzo consolidato che vedeva anche il prestanome responsabile dei reati commessi dall’amministratore di fatto.
La S.C. con la sentenza n. 36474/19 ha sancito che il prestanome è punibile solo se nel corso del processo viene provato il dolo specifico di evasione di imposta attraverso l’omessa presentazione della dichiarazione. Il caso esaminato riguardava l’omessa presentazione della dichiarazione IVA.
La S.C. censura ancora una volta una giurisprudenza espressa sia dal Tribunale di Bergamo che della Corte di Appello di Brescia (che conferma il 99% delle sentenze emesse dai tribunali del circondario) estremamente rigorosa, per molti versi non aderente né allo spirito né al dato letterale della legge, soprattutto in materia di reati tributari.
Il Trib. di Bergamo e la Corte di Appello di Brescia avevano dato per presunto il dolo di evasione in capo al prestanome, pur se amministratore formale di una società. La S.C. in sintesi ha ritenuto: a) nei reati omissivi societari l’amministratore di fatto è il vero dominus della società; b) il prestanome di diritto non ha spesso alcun potere di ingerenza nelle scelte del vero amministratore; c) nel delitto di omessa evasione oltre al dolo generico, necessità la presenza del dolo di evasione che deve essere ben presente nel prestanome; d) non è sufficiente l’astratta consapevolezza dell’omessa presentazione per integrare il reato di evasione, anche perché il prestanome potrebbe non conoscere le scadenze fiscali.
Finalmente una sentenza che applica integralmente il principio costituzionale secondo il quale la responsabilità penale è personale.
ContinuaSPAZZACORROTTI: Irragionevole ritenere il peculato tra i reati che denotano pericolosità sociale. Atti alla Consulta.
La Suprema Corte con una condivisibile e attesa ordinanza, la n. 31853 del 18.0719, ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione relativa alla presunzione legale di pericolosità, nell’ipotesi di soggetto condannato di peculato. La S.C. ha ribadito che il reato di peculato è ontologicamente ben diverso dai reati di associazione a delinquere, terrorismo, estorsione ed altri reati connotati da violenza, perché chi commette peculato mira ad un arricchimento personale e quindi pone in essere una condotta di approfittamento.
La Cassazione nel rimettere gli atti precisa che trattandosi di scelta legislativa connotata di un “bisogno di pena”, essa può essere oggetto di censura solo se trasmodi nella “irragionevolezza o nell’arbitrio”. La Cassazione diffida dalla politica legislativa che amplia in modo eccessivo in ambito penale, le “presunzioni legali di pericolosità” perchè esse sfuggono a quella che dovrebbe essere la finalità rieducativa della pena, che richiede valutazioni individualizzate e circoscritte al caso concreto.
Sarà la Consulta a decidere se anche per questo rilevantissimo aspetto ci si trovi innanzi una palese lesione dell’art. 3 della Cost..
ContinuaReati Tributari (art. 10 quater Dlgs 74/00): La confisca per equivalente, anche in caso di patteggiamento, va disposta obbligatoriamente.
Alla condanna per un reato tributario (indebita compensazione di crediti non spettanti) segue la confisca per equivalente, anche se nella sentenza di patteggiamento il giudice non individua i beni da confiscare ed anche se non vi sia stato precedentemente un sequestro dei beni del condannato.
A deciderlo è la Corte di Cassazione, sez.3 penale con la sentenza nr. 29533 dell’8.07.2019, nella quale, peraltro, vengono chiaramente indicati i compiti del giudice e del Pm. Solo quest’ultimo, infatti, ha il potere di procedere all’individuazione dei beni da sottoporre a sequestro, con l’unica limitazione che deve trattarsi di beni già nella disponibilità del condannato e non di beni futuri.
Nella vicenda in esame il Tribunale a seguito di sentenza ex art. 444 cpp (patteggiamento) decideva di disporre la confisca dei beni dell’imputato, fino all’ammontare dell’imposta evasa.
La difesa non concordava con tale sanzione accessoria ed impugnava la sentenza di patteggiamento, deducendone la illegittimità per mancanza di un precedente sequestro, nonché per mancanza dell’accertamento di disponibilità dei beni in capo all’imputato.
La S.C. rigettava il ricorso affermando che in ogni caso la confisca avrebbe dovuto vertere su beni attualmente in possesso del condannato e non su beni futuri ossia successivi alla condanna.
La Corte ribadiva che la confisca va disposta sempre anche se non era prevista nell’accordo tra le parti e che spetta al PM individuare i beni da confiscare, fino al raggiungimento del valore dell’imposta evasa.
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaLe S.U. mettono un punto fermo. Il falso aggravato (ART. 476 co. 2 c.p.) deve essere contestato nel Capo di imputazione. Mai sentenza fu più attesa.
Così le sezioni Unite con la sentenza 4 giugno 2019 n. 24906. Finalmente una pronuncia tanto attesa, anche perché spesso ci si è ritrovati con condanne pesanti in sentenza senza che il capo di imputazione avesse mai contestato il falso aggravato.
Di straordinaria lucidità e chiarezza il ragionamento svolto dalle S.U., in sintesi la condotta aggravata deve essere chiaramente contestata altrimenti si avrà una palese lesione del diritto di difesa.
Contestare una generica falsa attestazione indicando semplicemente e genericamente l’art. 476 c.p. non è sufficiente a fondare una condanna per l’ipotesi ben più grave, dalla quale peraltro discende quasi il raddoppio dei termini prescrizionali.
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaResponsabilità medica: Medico sospeso se effettua una visita ginecologica invasiva.
La Cassazione ha ritenuto legittima la sospensione nei confronti del medico di guardia (12 mesi tempo massimo), per avere questi svolto una visita ginecologica senza il consenso della paziente.
L’assunto della Corte (sentenza n. 24653 del 3.06.19) muove dal presupposto che il medico è andato ben oltre quelle che sono le linee di condotta che lo stesso avrebbe dovuto porre in essere, in relazione alla sintomatologia denunciata dalla paziente.
Nel caso in esame il medico dopo avere svolto l’esame anamnestico dal quale emergeva un generico dolore alle gambe della paziente, ha oltre modo insistito e forzato la stessa per effettuare una visita ginecologica inopportuna, secondo il Tribunale di Napoli, tesi confermata dalla Corte, perché fuori dai canoni previsti dalle linee di condotta da tenere in ipotesi simili. Il medico, infatti, è stato indagato per l’ipotesi di violenza sessuale ai danni della paziente. Durissime le motivazioni della S.C.: «dirimente dell’assenza del consenso manifestato dalla vittima allo svolgimento della visita ginecologica». «Chiaro, infatti, che la persona offesa, già scettica rispetto alla necessità di prestarsi alla visita, che poco aveva a che fare con il dolore da lei lamentato, aveva fatto affidamento sul corretto esercizio della professione da parte del medico». E «solo quando aveva compreso le reali intenzioni del sanitario si era ribellata, girando bruscamente la gamba e manifestando, in tal modo, il proprio chiaro dissenso». Irrilevanti secondo la S.C. le tesi della difesa del medico che si basavano: 1) sulla mancanza del dissenso prima della visita (la paziente colta l’intenzione si era bruscamente divincolata); 2) sulla impossibilità di reiterare la condotta perché il medico non essendo specialista in ginecologia non avrebbe avuto altre occasioni per commettere la stessa condotta.
on. avv. Giuseppe Scozzari
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