Diritto Penale: Il datore di lavoro va esente da responsabilità penale nell’ipotesi di comportamento “eccentrico” del lavoratore.
La Suprema Corte, con la sentenza n. 54813/2018, torna a pronunciarsi sul tema della sicurezza sui luoghi di lavoro, ed in particolare relativamente al profilo del rilievo della c.d. condotta abnorme del lavoratore e della delega di funzioni inerenti alla sicurezza in cantiere quali eventi interruttivi del nesso causale tra condotta ed evento.
Il processo traeva origine da un incidente mortale avvenuto in cantiere, per il quale furono imputati il datore di lavoro, nonché i vari preposti addetti alla sicurezza.
Al datore di lavoro veniva, in particolare, contestato l’omessa formazione ed informazione dei lavoratori, in violazione dell’art. 37, comma 1 e 1bis del D.lgs. n. 624/1994 e ss.mm.ii..
Il datore di lavoro, condannato dai giudici di merito, ricorreva per Cassazione lamentando il vizio di motivazione della sentenza di appello consistente, nella omessa valutazione dei limiti dell’obbligo di garanzia in capo all’imputato rispetto a quelli gravanti sui vari soggetti garanti presenti all’interno del cantiere, nonché la disparità di trattamento con una coimputata per la quale era stata esclusa la responsabilità, in ragione della abnormità della condotta posta in essere dai lavoratori rispetto alla propria sfera di garanzia.
I giudici della Suprema Corte, investiti della questione, nel ribadire il principio in base al quale anche in caso di delega, il datore di lavoro non è del tutto sollevato dagli obblighi connessi alla sua posizione di garanzia, tra i quali rientrano anche quelli inerenti la formazione ed informazione dei lavoratori, ha tuttavia annullato la sentenza ribadendo il principio secondo il quale “è interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore, quando essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è interruttivo non perché eccezionale ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare”.
Nel caso in esame la S.C. nell’annullare la sentenza della Corte di Appello di Reggio Calabria, ha accolto le ragioni di cui al ricorso dell’imputato e ritenuto contraddittoria la motivazione. Ha conseguentemente rinviato gli atti ad altra sezione della Corte di appello per un nuovo giudizio.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaCIVILE: PER LA CADUTA SULLA SCALINATA D’ACCESSO AL DUOMO NON DEVE RISARCIRE IL COMUNE.
La sentenza n. 5841 del 28 febbraio del 2019 a distanza di 15 anni dal fatto rigetta definitivamente il ricorso presentato da un infortunato per il diritto al risarcimento del danno. La sentenza in esame trae origine dalla richiesta di risarcimento avanzata da una signora che rovinava sui gradini del duomo della città in cui risiedeva. L’attrice avanzava la richiesta di risarcimento del danno nei confronti del Comune, infatti sulla scalinata sussisteva un uso pubblico. Però, diverse sentenze della Corte di Cassazione, hanno affermato che la semplice imposizione di un vincolo di uso pubblico su strada vicinale, pur permettendo alla collettività di esercitarvi il diritto di servitù di passaggio con le modalità consentite dalla conformazione della strada stessa, non alterano il diritto di proprietà che rimane privata.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5841 del 2019, afferma il seguente principio di diritto: “la responsabilità da omessa custodia di un bene destinato all’attività di culto, anche se per consuetudine asservito a uso pubblico, grava sul proprietario del bene e non sull’ente territoriale su cui insiste il bene, a meno che non sia dimostrata una detenzione o un potere di fatto dell’ente territoriale sulla cosa”. Di conseguenza la parte attrice prima di rivolgersi al Tribunale doveva accertarsi se la responsabilità spettava alla diocesi o alla parrocchia sulla base dell’art. 15 della legge 27 maggio 1929 n. 848 (Patti Lateranensi).
Dott.ssa Roberta Mossuto
ContinuaPenale tributario: La compensazione di crediti inesistenti configura il reato di omesso versamento I.V.A. di cui all’art. 10 quater del D.lgs. 74/2000.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5934/2019, sebbene abbia annullato la sentenza impugnata per intervenuta prescrizione, ha statuito che, commette il reato d’indebita compensazione, di cui all’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000, colui il quale utilizzi un credito I.V.A. fittizio in detrazione e lo “trascini” nelle successive dichiarazioni.
La questione finita al vaglio della Suprema Corte riguardava, in particolare, un ingente credito I.V.A. ritenuto inesistente, ma inserito nella dichiarazione del 2002, e “trascinato” nei successivi esercizi. Tale credito I.V.A. veniva utilizzato dagli amministratori della società in detrazione dei debiti I.V.A. delle successive dichiarazioni.
Le Corti di merito, avevano ritenuto configurato nel caso di specie il reato di cui all’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000, atteso che, lo stesso copre non solo le operazioni di compensazione ex art. 17 del D.lgs. 241/97, effettuate mediante presentazione di delega bancaria, c.d. mod. F24, per estinguere debiti tributari, ma anche le operazioni di detrazione ex art. 19 del D.P.R. 633/72, effettuate in contabilità e poi trasposte nella dichiarazione, quindi sia nell’ipotesi di c.d. compensazione orizzontale che verticale.
Le difese, invero, ritenevano estranea la fattispecie prevista dall’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000 alla fattispecie in esame, atteso che l’imputato non aveva eseguito compensazione di I.V.A. con I.V.A. mediante modello F24, ma aveva consumato il proprio credito mediante detrazioni; ritenendo, peraltro, che, i crediti utilizzati fossero conformi alle dichiarazioni e come tali esistenti e spettanti.
Il Supremo Collegio, con la pronuncia in commento, disattendeva le tesi difensive poiché:
1. l’esistenza di un credito I.V.A. non può essere correlata alla sua esposizione in dichiarazione, pur derivando da un’operazione inesistente;
2. l’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000 non circoscrive la rilevanza penale ai soli casi di compensazione orizzontale, ma punisce tutte le condotte volte all’omesso versamento di imposte attraverso l’indebito utilizzo di crediti.
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte, ha affermato che, l’ipotesi di reato di cui all’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000 si configura non soltanto nel caso di compensazione orizzontale, ossia relativa a imposte diverse, o, come nel caso di specie mediante il “trascinamento” del credito inesistente nelle successive dichiarazioni; ma anche le detrazioni di imposta ex art. 19 del D.P.R. 633/72, qualora le stesse siano prive dei requisiti di validità.
La Suprema Corte, in conclusione, ha sancito che l’art. 10 quater, D.lgs. 74/2000 attribuisce rilevanza penale anche nell’ipotesi di un distorto utilizzo della compensazione tributaria, perché si risolve in sostanza in un omesso versamento di imposte.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaE’ LEGITTIMA LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’ENTE COMUNALE PER I REATI AMBIENTALI? LA CASSAZIONE DICE SI.
La commissione di reati ambientali nel territorio di competenza di un Comune legittima la Costituzione di parte civile dell’ente comunale.
È infatti di estremo interesse il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 2780/2019.
Con l’Ordinanza in commento è riconosciuto il diritto dell’ente comunale a costituirsi parte civile, e ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso di condotte illecite costituenti reati ambientali realizzate nel territorio di pertinenza del predetto ente.
Il caso oggetto della pronuncia riguardava numerose violazioni alla disciplina ambientale con sentenza di condanna poi confermata, ancorché con riduzione di pena, in secondo grado da parte della Corte di Appello di Lecce.
L’imputato, a seguito della pronuncia di condanna in secondo grado, ricorreva per Cassazione, deducendo, tra gli altri motivi, l’assenza di legittimazione processuale dell’ente territoriale ed il conseguente difetto di ogni diritto al risarcimento data la totale mancanza dei suoi presupposti.
Deduceva infatti il ricorrente, che la normativa consente la sola partecipazione al processo dello Stato attraverso il ministero competente quale titolare del diritto leso.
L’ordinanza della Suprema Corte, delinea i contorni del diritto a costituirsi parte civile in procedimenti penali come questo, con una sicura individuazione dei soggetti ai quali possa essere riconosciuto il risarcimento del danno, conseguente alle condotte illecite costituenti reato commesse nel territorio di sua competenza.
Gli ermellini hanno ritenuto comunque legittima quella parte della sentenza di secondo grado relativa alle statuizioni civili, che riconosce al Comune il diritto al risarcimento.
A tale conclusione, si è giunti prendendo le mosse dal riconoscimento in capo all’ente Comune di due diritti derivanti dalle sue prerogative.
Il Comune, infatti, è titolare di un diritto alla propria posizione funzionale in seno all’ ordinamento, e dispone di una competenza per la realizzazione dell’assetto urbanistico nel territorio di competenza.
Tali prerogative, vengono lese da condotte illecite costituenti reati ambientali.
È legittima, pertanto, la costituzione di parte civile del Comune nei procedimenti penali aventi ad oggetto reati ambientali commessi nel territorio di competenza comunale. Lo Stato, pertanto, non è più il solo ente competente a partecipare al procedimento penale in qualità di parte lesa.
Avv. Danilo Conti
ContinuaDiritto penale: possibile la revisione della sentenza di condanna per i soli effetti civili.
Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 6141 del 2019, hanno risolto il contrasto interpretativo in ordine all’ammissibilità dell’istanza di revisione proposta dall’imputato, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non doversi procedere perché il reato si è estinto per prescrizione, con conferma, tuttavia, della condanna al risarcimento dei danni in favore della sola parte civile costituita.
I Giudici della Suprema Corte, in particolare, hanno riportato i due orientamenti in contrasto secondo i quali:
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in siffatte ipotesi l’istituto della revisione non sarebbe ammissibile, poiché il codice di procedura penale configura tale istituto quale mezzo di impugnazione straordinario nei confronti di sentenze penali di condanna limitatamente ai soli effetti penali (cfr. ex plurimis Cass. sez. I, n. 1672/1992);
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mentre, secondo un orientamento minoritario, la revisione sarebbe ammissibile poiché dal dato letterale dell’art. 629 c.p.p. si evince che, l’istituto della revisione opera genericamente per le “sentenze di condanna” senza precisarne l’oggetto, ovvero se limitatamente ai soli effetti penali o civili (cfr. Cass., sez. V, n. 46707/2016).
La Suprema Corte, nel corposo excursus in ordine al contrasto giurisprudenziale sorto sul tema, non tralascia quanto affermato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 129/2008 secondo cui “… l’avvenuta dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione, non [n.d.r. costituisce] affatto sentenza penale di condanna suscettibile di essere impugnata con lo straordinario rimedio della revisione”.
Tuttavia, osserva la Suprema Corte che, accogliendo l’orientamento tradizionale, seppur suffragato dalla pronuncia del Giudice delle Leggi, si creerebbe un vulnus di tutela nei confronti dell’imputato prosciolto per estinzione del reato, ma condannato ai soli effetti civili.
Le Sezioni Unite, quindi, dopo aver sintetizzato i termini del contrasto giurisprudenziale, hanno posto al centro della disamina la questione relativa all’interpretazione della locuzione “condannato” ossia il soggetto esclusivamente legittimato a proporre richiesta di revisione.
Infatti, lo status di condannato, necessario per la richiesta di revisione, viene acquistato dal “soggetto che ha esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda” (cfr. Cass. SS.UU., n. 13199/2016).
Peraltro, la Suprema Corte, argomentando sulla ratio dell’istituto della revisione richiama la nozione attribuita alla stessa dalla tradizionale dottrina, secondo cui la revisione costituisce il rimedio contro “il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze della verità e della giustizia reale”.
Sulla scorta di una di un così nobile fondamento, l’istituto della revisione trova riconoscimento agli artt. 24 e 27 della Carta Costituzionale, all’art. 4, VII Protocollo alla Convezione EDU, nonché all’art 14, §6, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Pertanto, la Suprema Corte, rifacendosi all’orientamento minoritario, ha rilevato come la lettera dell’art. 629 c.p.p. indichi genericamente, tra i provvedimenti soggetti a revisione, le sentenze di condanna, nonché come il successivo art. 632 c.p.p. indichi quale soggetto legittimato a proporre istanza di revisione il “condannato”.
Orbene, non v’è dubbio alcuno che la sentenza che accoglie l’azione civile nel processo penale costituisca una pronuncia di condanna, atteso che la stessa presuppone indirettamente l’accertamento della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato contestato, seppur limitatamente agli effetti civili.
In conclusione, le Sezioni Unite, dirimendo il contrasto giurisprudenziale sorto sul tema, hanno affermato il seguente principio di diritto: “è ammissibile, sia agli effetti penali che agli effetti civili, la revisione, richiesta ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., della sentenza del giudice di appello che, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, in applicazione della disciplina dettata dall’art. 578 cod. proc. pen., abbia prosciolto l’imputato per l’intervenuta prescrizione del reato, e contestualmente confermato la sua condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile”.
ContinuaDiritto penale: Nessuna esimente per il pediatra attendista che omette di effettuare i dovuti esami clinici ed impedisce che vengano fornite tutte le cure vitali necessarie al paziente.
La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di condanna per il reato di omicidio colposo emessa dalla Corte di Appello di Milano nei confronti di una pediatra che si è mostrata indecisa ed “attendista” allorquando, prima, ha rinviato la visita domiciliare di un bambino che verteva in serie e difficili condizioni di salute e sottovalutando, dopo, i sintomi dello stesso, rivelatisi assai gravi, tali da far presagire un severo quadro clinico di polmonite in atto.
La IV Sezione della Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dal difensore escludendo che la sentenza impugnata fosse intrisa da vizi giuridici, men che meno logico-giuridici, oltretutto ritenendo che sussistesse “colpa grave” nella condotta della pediatra medesima.
La difesa ha posto in rilievo il fatto che la dottoressa non assunse alcuna decisione sul piano terapeutico e, di conseguenza, si è limitata a dare solo qualche precauzionale prescrizione medica al bambino, in attesa dell’evolversi delle condizioni di salute del piccolo paziente. In particolare, il difensore della pediatra ha dedotto la contraddittorietà del percorso logico motivazionale dei giudici di Appello, poiché non hanno dato rilievo alle conclusioni difensive e non hanno debitamente spiegato il nesso causale fra le omissioni contestate e l’evento finale (la morte del bambino).
In punto di diritto, dal legale della ricorrente è stato invocato, l’art. 3 della legge n. 189 del 2012 (decreto di riforma dell’allora legge Balduzzi) che concerne l’applicazione di generali linee-guida da parte della comunità medico-scientifica e che prevede: “l’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”; la difesa ha insistito, dunque, su tali disposizioni sostenendo che il comportamento della pediatra, condannata in entrambi i gradi di giudizio, avrebbe dovuto ritenersi “scusabile”, proprio perché avrebbe agito con “colpa lieve” nel rispetto delle linee guida medico-scientifiche.
Tuttavia, è stato appurato dalla Corte che appare corretto addebitare alla pediatra una condotta rivelatasi (e qualificabile come) “ingiustificatamente attendista e di generale sottovalutazione del quadro clinico del paziente”, nonostante i sintomi manifestati avrebbero dovuto indurla ad adottare un approccio medico-diagnostico ben differente, in primis, effettuando la visita domiciliare del bambino (a seguito della telefonata ricevuta dai genitori del piccolo) ed in secundis, in vista del peggioramento delle condizioni di salute, orientando i genitori del paziente stesso a recarsi al più presto in ospedale.
Per i giudici della Corte dunque non è apllicabile nessuna esimente a favore della pediatra, condannata nei gradi di giudizio precedenti dal Tribunale e dalla Corte di Appello di Milano, poiché è inescusabile che non siano state fornite dalla stessa le cure vitali necessarie per la sopravvivenza (o quantomeno per il miglioramento dello stato di salute) del paziente. D’altra parte, in punto di giudizio, non può nemmeno prescindersi dalla evidente negligenza e dall’imperizia di cui, nel caso in specie, si è connotata la condotta della pediatra.
Pare facile intuire che la Corte di ultima istanza, rigettando il ricorso, è giunta a concludere che “le condotte omissive contestate alla ricorrente abbiano determinato le condizioni dell’evento fatale con alto ed elevato grado di probabilità logica e credibilità razionale”, considerato che, d’altronde, i complessivi sintomi del piccolo paziente, erano stati (prima) descritti telefonicamente dai genitori e (successivamente) le stesse condizioni di salute del bambino, sottoposto a visita, risultarono abbastanza “eloquenti”, tali da dover far presagire un situazione clinica tormentata e complicata.
Un medico, dunque, che omette di effettuare una visita accurata dei parametri vitali di un paziente, che con negligenza e imperizia non formula una corretta diagnosi nonostante il riscontro evidente di gravi sintomi della malattia in atto, è da ritenersi, fuori da ogni ragionevole dubbio, colpevole di omicidio colposo (ai sensi dell’art 589 c.p.). Nel caso in esame, la Corte ha rimarcato “la sussistenza di un consistente allontanamento del comportamento della pediatra da una appropriata condotta medica, certamente qualificabile in termini di colpa grave” ed ha condannando la stessa al pagamento delle spese processuali.
Dott.ssa Anna Maria Signorino Gelo
ContinuaDiritto Penale – E’ ILLEGITTIMO REVOCARE LA PATENTE DI GUIDA NEI CASI DI OMICIDIO STRADALE EX ART. 589 BIS C.P. SALVO CHE NON SUSSISTANO LE AGGRAVANTI DELLA GUIDA SOTTO EFFETTO DI ALCOL O STUPEFACENTI.
La legge n. 41 del 2016, che ha introdotto nell’ordinamento il reato di omicidio stradale (art. 589 bis c.p.), in questi giorni, dopo ben 3 anni dalla sua entrata in vigore, è stata posta sotto la lente di ingrandimento da parte della Corte Costituzionale in seguito ad una serie di questioni di legittimità costituzionale sollevate da più uffici giudiziari che avevano messo in evidenza alcune criticità.
L’intervento della Consulta, anticipato tramite comunicato, ha riguardato due aspetti della suddetta riforma, in particolare:
1) da un lato è stato dichiarato costituzionalmente legittimo l’art. 590 quater c.p. ovvero il divieto, per il Giudice di bilanciamento della circostanza attenuante prevista dal comma 7 art. 589 bis c.p. (diminuzione fino alla metà della pena qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione od omissione) rispetto alle aggravanti previste per il reato di omicidio stradale;
2) dall’altro lato è stato dichiarato parzialmente incostituzionale l’automatismo dell’applicazione della pena accessoria della revoca obbligatoria della patente, ai sensi dell’art. 222 C.d.S., qualora un soggetto venga condannato sic et simpliciter per il reato di omicidio stradale.
Con riferimento a quest’ultima questione, il Giudice delle Leggi ha specificato che l’automatismo della revoca scatta soltanto quando la condotta dell’agente è aggravata dalla guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti, mentre in tutti gli altri casi l’applicazione o meno della pena accessoria della revoca della patente dovrà essere valutata dal Giudice in relazione alla gravità della condotta e deve privilegiarsi, eventualmente, l’applicazione della meno afflittiva sanzione accessoria della sospensione della patente di guida.
Pertanto il Giudice non può automaticamente, a seguito della condanna per il reato di omicidio stradale semplice e senza la sussistenza di aggravanti, revocare la patente al reo ma dovrà effettuare una valutazione della condotta in concreto posta in essere e, qualora sia necessario, applicare la più lieve sanzione della sospensione.
Dott. Biagio Cimò
ContinuaUSURA CONTRATTUALE L’INELUDIBILE RICERCA DI UN CRITERIO DI MISURAZIONE UNIVOCO ED OGGETTIVO.
Su gentile concessione dell’avv. Agatino Di Stallo dello studio Di Stallo & Partners e dell’Ing. Francesco Rundo.
ContinuaTARIFFE PROFESSIONALI: NEL PENALE MEGLIO UN PREVENTIVO CHE PREVEDA UN MINIMO UN MASSIMO E LA SUCCESS FEE!
Le tariffe da sempre costituiscono una sorta di rompicapo per i professionisti e per gli avvocati in particolare.
Purtroppo la nostra professione è divenuta una professione residuale, molti si iscrivono perché non hanno un lavoro alternativo. Questa paradossale situazione ha determinato l’iscrizione negli albi di numerosissimi colleghi, circostanza che ha determinato uno scadimento della professione ed un imbarbarimento nel campo delle tariffe. A volte si assiste ad un mercato a cui ci si sottrae per dignità e decoro.
Nell’ambito dell’area del penale si ritiene che presentare al cliente un preventivo che preveda un minimo, un massimo e la clausola c.d. Success Fee (se vinco mi paghi x% in più) sia gratificante e stimolante sia per il cliente che per l’avvocato.
La speranza è che tutti facciano i preventivi e non ci si affidi all’improvvisazione che crea disorientamento nel cliente e perdita di credibilità del professionista.
Interessante il quadro delineato dal Sole24Ore di oggi.
Avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaREATI TRIBUTARI E VERIFICA FISCALE: IL CONCETTO DI IMPOSTA EFFETTIVAMENTE DOVUTA. INTERVIENE IL COMANDO GENERALE DELLA GDF.
Finalmente interviene il Comando Generale della Guardia di Finanza nel corso del Telefisco 2019, a precisare cosa si intende per imposta «effettivamente» dovuta. Si tratta della riaffermazione di un principio di diritto di estrema importanza che, ove rispettato, potrebbe evitare migliaia di processi inutili.
Il Comando Generale della Guardia di Finanza non fa altro che accogliere un consolidato orientamento di legittimità secondo il quale “il giudice penale procedendo all’accertamento dell’imposta «effettivamente» dovuta deve considerare anche i costi e le spese effettivamente sostenuti, anche se non dichiarati”.
È un principio di grande civiltà che se correttamente applicato eviterebbe il superamento delle soglie di punibilità e quindi la celebrazione del processo penale. In altri termini concorrono a determinare il reddito non solo i ricavi ma anche le spese e i costi ammessi in deduzione anche se non indicati nelle scritture contabili, purché risultino da elementi certi precisi.
In conclusione si dovrà tenere conto anche degli elementi negativi, in un’ottica diversa che sia più attenta al dato concreto e reale rispetto al dato formale.
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