AMPLIATO IL NOVERO DEI DELITTI PER I QUALI POSSONO ESSERE IMPIEGATE TECNICHE INVESTIGATIVE SPECIALI: L’AGENTE SOTTO COPERTURA MESSO A CONFRONTO CON L’AGENTE PROVOCATORE.
Con riferimento alle tecniche investigative speciali, il 18 Gennaio 2019 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge n. 3/2019 che amplia la disciplina giuridica del cosiddetto “agente sotto copertura”.
L’agente sotto copertura è quel soggetto che per ragioni di indagine partecipa alle altrui attività criminose al fine di farle fallire e farne arrestare gli autori e che, senza dare esecuzione al reato, ne controlla ed osserva l’attività illecita.
La legge “ad hoc” che ha istituito tale figura investigativa nel nostro ordinamento è la 146 del 2006, ma numerose sono anche le leggi speciali riguardanti determinate materie – ex multis pornografia, prostituzione, stupefacenti, terrorismo – che prevedono scriminanti specifiche per gli agenti sotto copertura. Sotto questo profilo, è applicabile la scriminante prevista dall’art. 51 del c. p. ai sensi del quale: “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità“.
Il d.d.l., convertito nella legge posta in esame, è stato denominato “spazzacorrotti” poiché ha voluto incidere, da subito, soprattutto sulla lotta contro la corruzione, ampliando il numero ed il tipo di reati per i quali è consentito ricorrere a tale tecnica investigativa. L’agente sotto copertura, utilizzato fino ad oggi nelle indagini per i reati di criminalità organizzata, potrà ora essere impiegato per tutti quegli illeciti penali in relazione ai quali sussiste un sospetto di corruzione. D’ora in avanti quindi, in relazione ai delitti come la concussione (317 c.p.), la corruzione per l’esercizio di funzioni (art. 318 c.p.), l’usura (art. 644 c.p.), il riciclaggio (648-bis c.p.) – e molti altri – elencati nelle nuova norma, gli agenti sotto copertura non saranno più punibili, quando e qualora, adottino determinate condotte durante particolari operazioni, finalizzate ad acquisire elementi di prova per sventare la commissione dei reati considerati, ammesso che non ve ne diano mai esecuzione.
Uno dei punti “nevralgici” di tale tecnica investigativa speciale è la sottile distinzione con un’altra figura investigativa, quella del cosiddetto “agente provocatore”, il cui dibattito sulle differenze trova i suoi albori già nella stesura della legge n. 146/2006. E’ da allora che si suole porre l’accento sul fatto che l’ “agente sotto copertura” si deve distinguere dall’ “agente provocatore”, il quale, con la propria attività, finisce proprio per “istigare” la commissione di uno o più reati, anziché solamente infiltrarsi in una organizzazione criminale o in una pubblica amministrazione, senza mai provocare in alcun modo la commissione di reati.
Secondo una consolidata giurisprudenza italiana, il ricorso all’“agente provocatore”, se non si accerta che il reato non sarebbe stato commesso senza la “provocazione”, è da considerarsi inammissibile. Per ciò stesso, non è consentito, se non per casi circoscritti, che un agente di polizia istighi, induca o promuova la commissione di un reato. Con la nuova legge, oggi invece, si dà alla polizia giudiziaria e a tutti quei Corpi di Polizia o di Carabinieri appartenenti a strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, la possibilità di utilizzare, anche per il contrasto alla corruzione, la figura dell’ “agente sotto copertura” (e non dell’agente “provocatore”).
Ebbene, le operazioni sotto copertura, già previste per reati relativi ad armi, stupefacenti, estorsione, sequestro di persona, immigrazione clandestina e altri, sono state estese anche a specifici reati contro la P. A. e si estende, d’altronde, la “non punibilità” penale dell’infiltrato in base all’idea che il suo concorso nei fatti sia stato posto in essere solo per fini investigativi.
Venendo ora ad alcune considerazioni critiche sul tema, può dirsi che tali previsioni di legge delineano un quadro non del tutto chiaro. Di fatti, un ufficiale di P.G. che dovesse svolgere operazioni investigative sotto copertura per contrastare alcuni reati contro la pubblica amministrazione, si troverebbe il più delle volte ad agire al di fuori di contesti criminali consolidati ed in condizioni che apparirebbero “mal definite”, che finirebbero per costituire vere e proprie “zone grigie”, con un elevato rischio di strumentalizzazioni e fraintendimenti in tutto il contesto in cui questi si verrebbe a trovare. Si correrebbe il rischio di rendere imputato un qualsiasi ufficiale di Polizia Giudiziaria, a scherno dei principi di tipicità, oggettività e materialità della fattispecie penale.
Situazioni di questo genere provocherebbero senza dubbio un clima di sospetto nelle pubbliche amministrazioni e potrebbe portare a forme di paralisi e ad incespichi dell’attività pubblica ed istituzionale; ciò perché si potrebbe facilmente ravvisare un qualsiasi illecito o elemento critico, fonte di dubbi o perplessità. Tutto sarà rimesso all’attenzione ed alla oculatezza di cui la magistratura dovrà disporre nel momento in cui sarà chiamata a valutare l’utilizzo di tale tecnica investigativa speciale.
Per affievolire ogni perplessità ed ogni dubbio, potrebbe richiamarsi l’avvento dell’istituto dell’ “agente sotto copertura” nell’ambito giuridico straniero, come quello americano, che si “blasona” già da tempi più addietro di tali strumenti investigativi.
Da molti decenni, forme di attività investigativa come quella dell’ “agente sotto copertura” fanno parte del patrimonio investigativo americano ed è per questo che oggi può essere utile osservarne, con l’ausilio dell’esperienza e della sperimentazione, le possibili evoluzioni o gli scenari futuri nel contesto italiano.
Il governo federale americano vanta da sempre un elevato numero di operazioni sotto copertura con attività d’investigazione svolte da diversi agenti “travestiti” da gente comune o da uomini d’affari, o uomini politici – o qual si voglia figura- per indagare possibili pericoli per la sicurezza del popolo americano e della nazione. Si tratta di un’attività che per sua natura è certamente “invasiva” e alcune volte pericolosa, un tempo rimessa alla sola competenza dell’F.B.I. (Federal Bureau of investigation); ecco che “tali operazioni forniscono un potente strumento per mettere insieme prove contro i sospetti, ma l’allargamento delle operazioni in incognito sta facendo emergere anche preoccupazione per le possibili limitazioni ai diritti civili e agli abusi che ne conseguono” (da un recente articolo del giornale New York Times).
Si auspica che, nell’ordinamento italiano, questo stesso strumento possa portare, nel lungo periodo, a buoni risultati investigativi e possa sventare rischiose situazioni di pericolo per la sicurezza del Paese, nonché possa far fallire attività criminose e possa farne arrestare gli autori.
Le tecniche investigative speciali possono rivelarsi uno strumento esaustivo ed a voler utilizzare le parole di un agente dell’F.B.I. americano: “Se fatto nel modo giusto, il lavoro sotto copertura può essere uno strumento di indagine molto efficiente”, dice, “ma porta con se dei rischi seri e dev’essere intrapreso solo col giusto addestramento e con la adeguata supervisione, poiché si tratta di un “inganno” del governo, che partecipa alle attività criminali, e questo può essere giustificato solo quando può portare alla soluzione dei crimini più grandi”.
L’esperienza straniera (in questo caso quella americana) potrebbe consentirci di far luce su alcuni degli aspetti dell’ “agente sotto copertura” italiano, che oggi ci appaiono più oscuri e incerti. Dunque, per mezzo di una consolidata e maturata sperimentazione americana, potrebbero apprendersi (e prevedersi) gli aspetti positivi e negativi dell’ “agente sotto copertura” e potrebbe crearsene un “più felice” rifacimento italiano.
Dott.ssa Anna Maria Signorino Gelo
ContinuaPenale tributario: Solo la prova del concreto pagamento dei lavoratori rende esente da responsabilità il datore di lavoro.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2565/2019, torna a pronunciarsi sul tema dell’omesso versamento di contributi previdenziali ed assistenziali.
Questione molto dibattuta dalla cronaca politica e giudiziaria quella affrontata dai giudici della Suprema Corte, i quali hanno affermato il principio di diritto in base al quale solo il concreto pagamento delle retribuzioni ai lavoratori rende esente da responsabilità penale il datore di lavoro, imputato per il reato di cui all’art. 2, comma 1-bis, legge n. 638/1983.
La S.C. giunge a tale conclusione richiamando anche la giurisprudenza civile secondo cui le buste paga sebbene sottoscritte dal lavoratore costituiscono prova solo della loro avvenuta consegna ma non dell’effettivo pagamento, necessario ad escludere il dolo, com’è noto integrato dalla forma generica, per il reato di omesso versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Con la pronuncia in commento, i giudici della terza sezione della Cassazione hanno rilevato come il rilascio del prospetto paga non abbia il valore di quietanza ai sensi dell’art. 1199 c.c..
In conclusione, il datore di lavoro (in funzione di sostituto d’imposta ai sensi dell’art. 19, l. 218/1952), che vuol escludere la propria responsabilità penale in ordine al reato di omesso versamento di contributi previdenziali, ha l’onere di provare il concreto pagamento delle retribuzioni ai lavoratori; nell’ipotesi in cui non abbia provveduto a versare i contributi previdenziali, ai fini dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 45 c.p. (forza maggiore), deve provare che la crisi di liquidità dell’impresa derivi da fattori esterni alla gestione aziendale dovendo essere determinata da fattori imprevedibili, e che esulano del tutto dalla condotta dell’agente, in modo da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaPenale: Commette il reato di truffa aggravata il pubblico dipendente che si allontana, anche per breve tempo, dal proprio ufficio.
La seconda sezione penale della Corte di Cassazione, investita per l’ennesima volta della ben nota questione relativa ai “furbetti del cartellino” ossia relativa a coloro i quali timbrano l’orario di lavoro senza essere presenti, ha statuito che integra che commette il reato di truffa aggravata il pubblico dipendente che si allontana dal proprio ufficio (senza far risultare l’assenza negli appositi registri), sebbene l’assenza perduri per un esiguo arco di tempo.
I giudici della S.C., infatti, con la sentenza n. 3262/19 hanno osservato che ai fini della configurabilità del reato di truffa aggravata nei confronti dell’ente pubblico non è sufficiente una valutazione quantitativa del pregiudizio subìto dallo stesso, ma va anche valutata l’incidenza delle assenze (seppur di brevissima durata) sull’organizzazione dell’ufficio, che ben potrebbero condurre ad una lesione del rapporto fiduciario tra il dipendente e l’ente pubblico.
Precisa la seconda sezione, infatti, che la dislocazione dei dipendenti in singoli uffici dai dirigenti, nonché dall’ordinamento dei singoli enti, si pone come fine quello di assicurare la proficuità della macchina amministrativa rispettando i generali principi di efficienza, efficacia ed economicità, che certamente potrebbero essere a repentaglio da condotte delittuose dei dipendenti.
Tutt’al più, precisa la sentenza in commento che, la speciale tenuità del danno arrecato alla P.A. potrebbe far sussistere la circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4 c.p..
I giudici di Piazza Cavour, infine, annullando con rinvio il provvedimento del Tribunale con il quale era stata revocata la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di pp.uu., hanno affermato il seguente principio di diritto: “La falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, che rilevano di per sé – anche a prescindere dal danno economico cagionato all’ente truffato fornendo una prestazione nel complesso inferiore a quella dovuta – in quanto incidono sull’organizzazione dell’ente stesso, modificando arbitrariamente gli orari prestabiliti di presenza n ufficio, e ledono gravemente il rapporto fiduciario che deve legare il singolo impiegato all’ente; di tali ultimi elementi è necessario tenere conto anche ai fini della valutazione della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4 c.p.”.
In conclusione, la sentenza 3262/2019 conferma la policy sanzionatoria nei confronti dei dipendenti pubblici che si esimono illegittimamente dal dovere loro attribuito.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaBancarotta: nessun inversione dell’onere della prova nel caso di omesso pagamento Iva. La distrazione della somma va accertata in concreto.
La S.C. con la sentenza n. 3518 del 24 gennaio 2019 ha statuito che l’omesso pagamento IVA da parte dell’imprenditore fallito va provata in concreto e non può essere desunta da mere deduzioni contabili, soprattutto quando esse non sono tenute correttamente.
Nella vicenda in commento i giudici di merito avevano ritenuto documentata, e quindi sottratta, la somma da parte di un imprenditore dichiarato fallito sulla base di una annotazione sul libro giornale anche se non risultante dai mastrini.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso dell’imprenditore fallito, ha rilevato che le risultanze processuali deponevano per l’inesistenza nei conti della società, della somma che si assumeva essere stata distratta. La Corte, pur riaffermando il consolidato principio che la distrazione e\o l’occultamento possono essere desunti dalla mancata prova data dall’imprenditore della diversa destinazione della somma oggetto di contestazione, rileva che i giudici di merito avrebbero preliminarmente dovuto verificare la reale esistenza del bene e\o del denaro nelle casse della società. In altri termini lo scrutinio dei giudici di merito avrebbe dovuto essere indirizzato a verificare se, indipendentemente dall’annotazione sul libro giornale, le somme riscosse della società fossero o meno transitate sui conti correnti della stessa e solo dopo la verifica della loro “diversa” destinazione dichiararne la eventuale distrazione.
Nella vicenda in esame nel corso del dibattimento, infatti, era emerso che la irregolare tenuta della contabilità (annotazione sul libro giornale pagamento IVA\ma omessa indicazione nei mastrini) avrebbe dovuto indurre il tribunale e la Corte territoriale ad approfondire la preminente circostanza della reale esistenza delle somme incassate dalla società. Il fallito, infatti, aveva negato l’addebito asserendo che il denaro presuntamente distratto non esisteva, circostanza confermata nel coso del dibattimento anche dal curatore fallimentare, il quale faceva rilevare i saldi passivi dei rapporti bancari della società.
In altri termini il mancato pagamento all’erario dell’IVA da solo non è sufficiente per dimostrare la distrazione.
Avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaDiritto Penale: Reato di oltraggio a pubblico ufficiale e riparazione del danno secondo una recente sentenza giudiziaria.
La I Sezione Penale del Tribunale di Agrigento ha emesso sentenza di “non doversi procedere”, per intervenuta riparazione del danno, nei confronti dell’imputato che veniva accusato del reato di “oltraggio a pubblico ufficiale”.
L’art. 341 bis del c.p. prevede che “chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni è punito con la reclusione fino a tre anni.”
Nel caso in esame, ripercorrendo i fatti, l’imputato veniva accusato del reato ex art. 341 bis del codice penale perché in luogo pubblico e in presenza di più persone offendeva l’onore e il prestigio di un Brigadiere e di un Appuntato dei Carabinieri, entrambi pubblici ufficiali in servizio presso la sede dei C.C di Agrigento, mentre compivano un atto del loro ufficio.
Dopo essere stato tratto in giudizio innanzi al Tribunale di Agrigento con decreto di giudizio immediato e dopo l’apertura del dibattimento, l’imputato, per mezzo del proprio difensore, effettuava una offerta reale (ex art. 1209 c.c.) a titolo simbolico di risarcimento del danno arrecato ai due Carabinieri in conseguenza del reato di oltraggio a pubblico ufficiale. La somma pagata era stata parametrata alle condizioni di indigenza economica in cui versava il nucleo familiare dell’imputato ed accompagnata da formali scuse.
In punto di diritto, occorre rilevare che l’art. 341 bis c.p. prevede al comma 3, che “ove l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa, sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima, il reato è estinto.” Il legislatore ha previsto, dunque, l’automatica estinzione del reato in presenza della integrale riparazione del danno, senza che debbano essere sentite le parti e la persona offesa e senza che si lasci analogo spazio valutativo al giudice.
Nella sentenza n. 1648/2018 del giudice monocratico di Agrigento, viene scritto che “la configurazione dell’integrale riparazione del danno quale causa di estinzione del reato di oltraggio a pubblico ufficiale (di cui al comma 3 dell’art. 341 bis c.p.) ha, evidentemente lo scopo di evitare la celebrazione del processo ove l’evento dannoso sia stato integralmente ristorato dall’imputato, con il conseguente venir meno dell’interesse alla punizione della condotta oltraggiosa.”
Nel caso in specie, il danno è stato risarcito, ancorché simbolicamente, quando il processo era già stato incardinato; a tal proposito, potrebbe ritenersi che lo strumento estintivo del reato, previsto dal codice penale ed a cui si è fatto cenno, possa operare soltanto ove non si sia mai tenuta alcuna udienza.
A giudizio dell’organo decidente, tuttavia, la riparazione del danno, di cui all’art. 341 bis, co. 3, c.p., fa riferimento ad un effetto estintivo nella sua portata meramente oggettiva, senza che si tenga conto, in particolare, di alcun profilo psicologico-attitudinale (quale quello, nel caso in specie, delle formali scuse che l’imputato ha accompagnato alla offerta reale effettuata a titolo di risarcimento del danno). La riparazione estintiva di cui nella disposizione in esame, non deve necessariamente avvenire prima dell’inizio del dibattimento e tale condotta riparatoria non deve escludersi sol perché la norma sembra privilegiare unicamente una mera condotta integralmente riparatoria da parte dell’imputato e reputando, invece, irrilevante ogni profilo di “spontaneo pentimento”.
Il giudice, secondo tale ottica, ha ritenuto che le esigenze strutturali e di economia processuale a cui è ispirata la disposizione (art. 341 bis co. 3 c.p.) sono da considerarsi realizzate anche quando, nel caso di specie, la proposizione del risarcimento estintivo avvenga nel corso del procedimento, purché, se non altro, “l’azione diretta ad attenuare le conseguenze dannose o pericolose sia spontanea (oltreché) efficace, cioè determinata da motivi interni all’agente e non influenzata in alcun modo da fattori esterni che operino come pressione sulla spinta psicologica” (Cass. Pen. Sez. I, n. 40993 del 07/10/2010).
La sistematica prospettiva che viene offerta dalla sentenza n. 1648/2018 del Tribunale agrigentino, inoltre, appare senza dubbio in armonia con la ratio deflattiva insita nella disposizione penale in esame, che è volta, cioè ad evitare che il processo debba comunque procedere oltre con un accertamento istruttorio che si rivelerebbe sostanzialmente inutile.
Infine, considerare possibile che la disposizione esaminata si applichi alle sole ipotesi di riparazione patrimoniale necessariamente integrale (e non simbolica), finirebbe per discriminare inevitabilmente gli imputati, consentendo di accedere alla causa di estinzione del reato “soltanto a coloro i quali abbiano la disponibilità economica per rifondere il danno, in evidente collisione, tra gli altri, con il fondamentale principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.)”.
Il giudice, che in ultima istanza è chiamato a valutare e a decidere sull’interezza del ristoro, può dunque positivamente considerare, ai fini dell’estinzione del reato, una condotta riparativa siffatta, come quella nel caso in esame, tenendo in debita considerazione la situazione di indigenza economica in cui versa l’imputato.
Dott.ssa Anna Maria Signorino Gelo
ContinuaProcedura Penale: una sentenza attesa da lungo tempo. Indagini difensive. La Cassazione limita le ipotesi di nullità del verbale.
La III sez. Penale della Cassazione con la sentenza 2049 ha statuito che l’atto scritto dal legale, nell’ambito delle indagini difensive, è equiparabile al verbale redatto dal Pubblico ministero. La nullità si ha solo nei casi in cui non si ha certezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione dell’avvocato. Irrilevante l’omessa sottoscrizione foglio per foglio del dichiarante.
È una sentenza attesa dai penalisti perché spesso si sono registrate ipotesi di incriminazione ad operi di zelanti uffici dei pubblici ministeri che da sempre hanno mal digerito il fatto che anche i difensori possano procedere ad “interrogare” persone informate sui fatti, nel corso delle indagini preliminari a carico dei propri assistiti.
La Corte di Cassazione con la sentenza 2049, dopo avere ancora una volta chiarito gli ambiti di applicabilità della legge 397/2000 sulle indagini difensive, ha ribadito la assoluta utilizzabilità delle dichiarazioni di persone presenti sui luoghi al momento dei fatti oggetto di contestazione. La decisione in commento è in controtendenza rispetto ai precedenti della stessa Corte.
On. avv. Giuseppe Scozzari
Continua“Non è reato filmare la doccia della vicina di casa” (Cass. Sez. Pen. n. 372 del 08.01.2019)
Non è configurabile il reato ex art. 615 bis c.p. (interferenza illecita nella vita privata) qualora l’azione o l’immagine ritratta possa essere osservata da estranei senza particolari accorgimenti e, pertanto, non viene leso il diritto alla riservatezza personale (privacy).
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha escluso la configurabilità del reato ex art. 615 bis c.p. e ha assolto l’imputato (condannato tuttavia per altri gravi reati) che aveva filmato, dalla propria abitazione, la vicina di casa intenda a farsi la doccia.
La Corte di Cassazione ha fondato la propria decisione su una circostanza cruciale ed ignorata negli altri gradi di giudizio, ovvero Il bagno della donna era sprovvisto di tende. È emerso, osservando le abitazioni fronti stanti della persona offesa e dell’imputato, che mancavano le tende, o qualsiasi tipo di ostacolo, alle finestre della vicina quindi l’imputato non ha utilizzato alcun accorgimento o espediente particolare per filmare e fotografare la donna; per questi motivi deve escludersi la configurabilità del reato di interferenza illecita nella vita privata, non essendo stati ripresi comportamenti della vita privata sottratti alla normale osservazione dall’esterno, posto che la tutela del domicilio è limitata a ciò che si compie nei luoghi di privata dimora in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile a terzi. L’art. 615 bis c.p. punisce “chiunque mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614 c.p.”; alla luce del dettato normativo, per integrare il reato in questione non è sufficiente che la condotta posta in essere abbia ad oggetto immagini che riguardino atti che si svolgano in uno dei luoghi indicati dall’art. 614 c.p. ma è anche necessario che tale condotta sia posta in essere indebitamente. Pertanto, se l’azione, compiuta all’interno di una privata dimora, può essere liberamente e normalmente osservata da estranei senza particolari accorgimenti (ad esempio affacciandosi semplicemente dalla propria finestra) non si configura una lesione al diritto alla riservatezza (privacy) e pertanto non sussiste, in capo all’osservatore – guardone il reato in esame.
Dott. Biagio Cimò
ContinuaSe fra colleghi vi è scambio di file protetti, si configura il reato di “accesso abusivo in un sistema informatico” di cui all’art. 615-ter del codice penale.
La V Sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 565/2019, ha rigettato il ricorso proposto, per tramite del proprio difensore, da un impiegato di banca che aveva chiesto a un collega di lavoro l’invio di dati a cui, per policy aziendale, non aveva accesso ed ha condannato il ricorrente medesimo al pagamento delle spese processuali. Questi, condannato dalla Corte di Appello di Milano per il reato di “accesso abusivo in un sistema informatico” (art. 615-ter c.p.), aveva impugnato la decisione della Corte milanese sostenendo che il semplice invio di una mail tra colleghi non può integrare il profilo oggettivo del reato contestato (“accesso abusivo al sistema”).
Con la sentenza n. 565/2019, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte di Appello di Milano che, in riforma della sentenza di primo grado, ha prosciolto l’imputato dal reato di cui all’ art. 615-ter del c.p, perché estinto per prescrizione, confermando le sole sanzioni civili in favore della persona offesa per i fatti di cui il soggetto imputato si è reso responsabile.
La responsabilità del condannato deriva dall’avere concorso con un altro collega, nel trattenersi abusivamente all’interno del sistema informatico protetto dalla banca.
Il punto nevralgico della decisione della Corte Suprema concerne la riconducibilità del fatto in contestazione all’alveo dell’art. 615-ter del c.p., il quale sancisce che “chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni.”
La Cassazione ha pronunciato la sentenza in esame nel solco di due importanti precedenti delle S. U. (sentenza Casani, 4694/12; sentenza Savarese, 41210/17), ed ha precisato che “colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risulanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamete motivato l’ingresso nel sistema” integra il delitto previsto dall’art. 615-ter c.p..
Pertanto, la V Sezione ha considerato il ricorso infondato ed ha confermato quanto i giudici di merito avevano ricostruito, ovvero la “responsabilità concorsuale in termini di partecipazione psichica a mezzo istigazione” del ricorrente. Il riscontro oggettivo di tale forma di responsabilità è ravvisabile nel contenuto della mail inviata al collega di lavoro, con la quale, il ricorrente aveva chiesto a quest’ultimo “di ritrasmettergli la mail sul proprio indirizzo di posta privata”, il che conferma inoltre la richiesta e l’invio di mail precedenti.
Nella specie, la condotta in rassegna è consistita nel fatto che il collega “si fosse trattenuto (nel sistema informatico bancario) per compiere un’attività vietata, ossia la trasmissione della lista a soggetto non autorizzato (il ricorrente) a prenderne cognizione, in ciò violando i limiti di autorizzazione che egli aveva ad accedere e a permanere in quel sistema informatico protetto”.
Tutto ciò considerato, con la Sentenza n. 565/19, la Suprema Corte ha deciso che i rispettivi ruoli svolti dai due bancari, senza ragionevole dubbio, configurano il reato di “accesso abusivo in un sistema informatico” ex art. 615-ter del codice penale.
La decisione in esame, inoltre, richiama alcune delle previsioni del titolo XII (delitti contro la persona), capo II (delitti contro la libertà individuale), sezione IV (delitti contro la inviolabilità del domicilio) del codice penale; deve infatti ravvisarsi che i sistemi informatici o telematici costituiscono un’espansione ideale di alcuni dei diritti fondamentali dell’individuo, quale la riservatezza o la segretezza della corrispondenza ed altri diritti concernenti la personalità dell’individuo, garantiti dalla Costituzione e tutelati penalmente nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali.
Dott.ssa Anna Maria Signorino Gelo
ContinuaSANZIONE AMMINISTRATIVA E SANZIONE PENALE, UN ALTRO COLPO AL SISTEMA DEL DOPPIO BINARIO? LA S.C. FA ULTERIORE CHIAREZZA RIDUCENDO L’AMBITO DI APPLICABILITÀ.
Con riferimento al reato contravvenzionale p.p. dall’art. 650 c.p., si segnala all’attenzione del lettore, la recente sentenza n. 44957/2018 con cui la Suprema Corte si è pronunciata sul carattere sussidiario della norma penale ivi contenuta.
Quanto ai fatti, basti al lettore sapere che il Comune di Chiari emetteva tre ordinanze intimando ad omissis di allontanare alcuni animali da un’area, la cui presenza veniva ritenuta causa di una rilevante degradazione delle condizioni di salubrità dell’ambiente.
Omissis dopo esser stato rinviato a giudizio per aver violato l’art. 650 c.p., veniva condannato dal Tribunale di Brescia e la sentenza di condanna veniva confermata anche in grado di appello. Soltanto nel giudizio di legittimità, la sentenza in argomento, veniva annullata senza rinvio.
L’art. 650 c.p. rubricato “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità” prevede che “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro”.
La contravvenzione sopra riportata rappresenta uno dei molteplici punti di contatto tra il diritto penale ed il diritto amministrativo.
Con un lessico più narrativo che giuridico, l’art. 650 c.p. può ritenersi una veste penale del provvedimento amministrativo, se invece si indossano le vesti del tecnico del diritto, nell’art. 650 c.p. si scorge una norma penale in bianco dal carattere sussidiario.
Le norme penali in bianco altro non sono che disposizioni il cui comando è genericamente formulato ed è contenuto in un’altra norma. Si ha, quindi, una norma che punisce “penalmente” la violazione di una diversa norma “non penale”.
L’art. 650 c.p. è norma a carattere sussidiario in quanto è destinata a trovare applicazione solo se il fatto non costituisca più grave reato ed allorchè, il provvedimento rimasto inosservato, non sia munito di un autonomo meccanismo di tutela.
Perché si possa ritenere violato l’art. 650 c.p., pertanto, occorrono tre requisiti:
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l’inosservanza deve riguardare un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato;
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il provvedimento inosservato deve essere adottato in relazione a situazioni non prefigurate da alcuna previsione normativa che comporti una specifica sanzione;
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il provvedimento deve essere emesso per ragioni di giustizia, sicurezza, ordine pubblico nell’esclusivo interesse della collettività e non di privati individui.
La sentenza in commento è di particolare interesse in quanto contribuisce a delineare la natura sussidiaria del reato di cui all’art. 650 c.p..
In merito, la sentenza n. 44957/2017 afferma che “atteso il prinicpio di sussidiarietà sancito dall’art. 650 c.p., il reato non è configurabile, quando l’inosservanza riguardi ordinanze applicative di leggi e regolamenti comunali assoggettati ad uno specifico meccanismo di tutela amministrativa, che si pone in rapporto di specialità rispetto a quella assicurata dall’art. 650 c.p.”.
Il richiamato principio di sussidiarietà comporta l’applicabilità della tutela penale solo quando, all’idem factum non siano preposte altre sanzioni, anche non penali.
Infatti, si parla di sussidiarietà nel diritto penale per esprimere l’idea dello strumento penale come extrema ratio. Il ricorso alla pena si giustifica solo quando risulta assolutamente necessario. Nella sentenza in commento, la Suprema Corte, pare fare riferimento proprio alla concezione ristretta del principio della sussidiarietà.
Secondo questa accezione, che corrisponde ad una visione più moderna e laica dei compiti del diritto penale, il ricorso allo sanzione penale appare ingiustificato tutte le volte in cui la salvaguardia del bene in questione è ottenibile mediante sanzioni di natura extrapenale.
La pronuncia n. 44957/2017 pare quindi confacente alle rinnovate esigenze del diritto penale che, inquadrando la vicenda nell’ambito di un illecito amministrativo e rilevando l’esistenza di una sanzione amministrativa per la condotta contestata, ha annullato la gravata sentenza con la formula “il fatto non costituisce reato”.
Dott. Danilo Conti
ContinuaABUSO D’UFFICIO E PROVA DEL DOLO INTENZIONALE. LA CASSAZIONE DETTA LE REGOLE.
E’ nota la linea interpretativa tracciata – ormai da tempo – dalla Suprema Corte di Cassazione, secondo la quale la prova del dolo intenzionale che qualifica l’elemento psicologico del reato di abuso d’ufficio non richiede l’accertamento di un accordo collusivo con la persona che si intende favorire. L’intenzionalità del vantaggio ingiusto, infatti, può ben prescindere dalla volontà di favorire specificatamente il privato interessato alla singola vicenda amministrativa ed essere, invece, desunta anche da ulteriori elementi, quali “ad esempio la macroscopica illegittimità dell’atto compiuto o da un’erronea interpretazione di una norma amministrativa, il cui risultato si discosti in termini del tutto irragionevoli dal senso giuridico comune, tanto da apparire frutto di una decisione arbitraria”. Ciò è stato recentemente ribadito dalla VI sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 43287/2018. Già in passato l’esigenza di evitare il dilagare di incriminazioni per abuso d’ufficio – a causa della genericità della formulazione della normativa – aveva portato il legislatore alla riscrittura di tale fattispecie di reato ad opera della legge 234/1997. Fra gli elementi di maggior rilievo per la configurabilità del reato di cui all’art. 323 c.p. previsti dalla riforma si ravvisano, oggi, la violazione di norme di legge o di regolamento, la previsione della nuova figura di abuso d’ufficio per la violazione dell’obbligo di astensione (in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o in altri casi prescritti) e la punibilità a titolo di dolo intenzionale generico. Infatti, l’ingiusto vantaggio o il danno ingiusto, anche non patrimoniale, non costituiscono più il fine perseguito dal reo, ma l’evento del reato. Pertanto, per la sussistenza dell’elemento psicologico del reato non è sufficiente che il soggetto attivo agisca con dolo diretto (cioè che si rappresenti l’evento come verificabile con elevato grado di probabilità), né che agisca con dolo eventuale (cioè che accetti il rischio del suo verificarsi). E’, invece, necessario che l’evento di danno o quello di vantaggio sia voluto o realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta e non risulti semplicemente realizzato come risultato accessorio di questa. Ricostruita in tal senso la configurabilità dell’elemento soggettivo, va pertanto, evidenziato che – secondo un ormai diffuso orientamento della giurisprudenza di legittimità – il dolo intenzionale del reato di abuso di ufficio deve escludersi quando l’agente, pur nella consapevolezza dell’illegittimità del proprio agire e del relativo ingiusto vantaggio patrimoniale di natura privata così realizzato, abbia inteso – in ogni caso – soddisfare un concomitante interesse pubblico di preminente rilievo. L’intenzionalità del dolo esige, quindi, la prova della certezza che la volontà dell’agente sia diretta a procurare – a sé o ad altri – un danno ingiusto o un ingiusto vantaggio patrimoniale; certezza che – ad ogni buon conto – non può unicamente essere desunta dal comportamento non iure tenuto dallo stesso, ma che deve trovare, piuttosto, conferma anche in altri elementi sintomatici, che mettano in evidenza l’effettiva ratio ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza professionale dall’agente, l’apparato motivazionale del provvedimento adottato, il contesto e la portata dei rapporti personali tra l’agente ed il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono un vantaggio patrimoniale o subiscono un danno (Cfr. Cass. n. 21192/2013).
Dott.ssa Mariagrazia Broccia
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