Diritto penale del lavoro. Rspp: ridisegnato il ruolo dalla Suprema Corte. “Non può essere considerato un semplice consulente del datore di lavoro”.
La IV sezione della Suprema Corte di Cassazione ha ridefinito il ruolo del Responsabile del Servizio di Previdenza e Protezione. La Corte, mutando un precedente orientamento interpretativo, ha precisato che tale figura – ancorché non abbia un ruolo operativo – non può affatto essere considerato come un mero consulente del datore di lavoro.
Il sistema prevenzionistico, tradizionalmente fondato su diverse figure di garanti e su diversi livelli di responsabilità organizzative e gestionale, vede il datore di lavoro come primo garante della salute ed incolumità fisica e morale dei prestatori di lavoro. L’art. 17 del D.lgs n. 81/2008 impone, infatti, al datore di lavoro di effettuare la valutazione di ogni rischio che può verificarsi sul luogo di lavoro, il quale – per la redazione del documento di valutazione dei rischi (DVR) – può avvalersi della consulenza di un professionista.
Le caratteristiche – vocatamente consultive e prive di effettivi poteri decisionali – hanno reso il Responsabile del Servizio di Previdenza e Protezione una figura di non sempre facile collocazione all’interno del complesso di obblighi e responsabilità previsti dalla normativa antinfortunistica.
In ragione di ciò ed anche in considerazione del fatto che il D.lgs n. 81/2008 non prevede specifiche sanzioni a carico del RSPP, la giurisprudenza di legittimità in passato aveva affermato che il suddetto professionista non fosse il “titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica; lo stesso, piuttosto, opera quale consulente in tale materia del datore di lavoro, il quale è e rimane direttamente tenuto ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio” (Cfr.: Cass. pen., sez. IV, sentenza n. 11492/2013).
La sentenza in commento del 20 luglio 2018, n. 34311 della S.C., individua a carico del RSPP ambiti di responsabilità, riconoscendo direttamente in capo allo stesso una posizione di garanzia. La Corte ha, infatti, sottolineato che “il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all’interno della struttura aziendale un ruolo non operativo e gestionale ma di consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente all’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli”.
Conseguentemente, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere, oggi, chiamato a rispondere – in concorso con il datore di lavoro o anche a titolo esclusivo – del verificarsi di un infortunio sul lavoro ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare.
Alla luce, dunque, della più recente giurisprudenza – volta ad ampliare le ipotesi di responsabilità nell’ottica di una maggiore sensibilizzazione di tutto il sistema prevenzionistico – si rende assolutamente necessario un confronto costante ed imprescindibile tra datore di lavoro ed RSPP, al fine di gestire e prevenire al meglio ogni possibile rischio.
Dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaREATO AMBIENTALE: E’ SUFFICIENTE UN EVENTO DI DANNEGGIAMENTO DELL’AMBIENTE.
Nel 2015 è stato introdotto nel codice penale italiano l’art. 452 bis, rubricato Inquinamento ambientale. Il legislatore ha voluto tutelare l’ambiente da quelle condotte altamente lesive, diverse da quelle previste nel codice ambientale, introducendo una norma direttamente nel codice penale, con una prescrizione normativa ben più pregnante ed una pena decisamente pesante (da due a sei anni con eventuale aggravante). La Corte di Cassazione con la sentenza n. 50018 del 2018 ha esteso l’ambito di applicabilità della norma anche nei casi in cui è integrata l’ipotesi meno grave di inquinamento, relativa un ambito intermedio che in ogni caso per la S.C. merita tutela. La Corte nel rigettare il ricorso dell’imputato ha ribadito che nel caso in esame non è configurabile l’applicabilità dell’art. 240 del d.gls. 152 del 2006, in quanto quest’ultima norma riguarda le ipotesi di bonifica del sito inquinato ed il caso in cui vi sia la prova della contaminazione del sito stesso. La S.C. ha ribadito, infatti, che la matrice e il contesto di applicazione del decreto legislativo 152 del 2006 sono molto diversi rispetto alla volontà e agli obiettivi che hanno portato il legislatore a novellare nel 2006 il titolo VI bis del codice penale. Su questo punto la sentenza ha chiarito che: “con riguardo al reato di inquinamento ambientale, deve invece affermarsi il principio secondo cui il danno previsto dall’art. 452 bis c. p. ha come oggetto di tutela ambientale l’ambiente in quanto tale e postula l’accertamento di un concreto pregiudizio a questo arrecato, secondo i limiti di rilevanza determinati dalla nuova norma incriminatrice, che non richiedono la prova della contaminazione del sito indicato degli artt. 240 ss. d.lgs. 152 del 2006.” Di conseguenza il deterioramento o la compromissione a cui fa riferimento l’art. 452 bis c.p. consistono in una alterazione della originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema caratterizzata da una condizione di squilibrio funzionale dei processi naturali o in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuire in modo apprezzabile il valore o impedirne l’uso. La Corte, con questa ennesima pronuncia, ha voluto ribadire gli ambiti di tutela penale dell’ambiente indipendentemente dalla prova della contaminazione, estendendo l’ambito di tutela ai casi in cui ci si trovi innanzi casi di danneggiamento dell’ambiente. Tale orientamento se da un lato amplia la sfera di tutela dell’ambiente, dall’altro, essendo estremamente generico il termine “danneggiamento”, potrebbe porre non pochi problemi legati alla violazione dei principi cardine del nostro diritto penale quali la determinatezza e la tassatività delle leggi penali.
Avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaIn materia di responsabilità degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate la giurisdizione spetta al giudice ordinario.
Con l’ordinanza n. 22406/2018 le Sezioni Unite della Cassazione Civile mettono un punto fermo sui contrasti di giurisdizione in materia di società in “house providing” (cioè sulla disciplina delle società a partecipazione pubblica) che vengono dichiarate fallite.
La decisione della Suprema Corte, dopo un travagliato excursus giurisprudenziale, ha stabilito che sull’azione di responsabilità proposta nei confronti dei componenti degli organi di amministrazione e degli organi di controllo delle società partecipate dichiarate fallite, la giurisdizione spetta al giudice ordinario. Le S.U. fanno una distinzione precisando, in primo luogo, che per le condotte poste in essere dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate dichiarate fallite, la giurisdizione spetta al giudice ordinario. Le S.U. vanno oltre e precisano che laddove dalla condotta degli amministratori di una società “in house” e\o partecipata, sono prospettabili anche danni erariali, la giurisdizione sarà devoluta non solo al giudice ordinario ma anche alla Corte dei Conti senza che ciò comporti la violazione del principio del ne bis in idem.
Tale indirizzo giurisprudenziale costituisce una inversione di rotta rispetto ad un precedente indirizzo sancito con la sentenza, sempre della Cassazione Civile, n. 26283 del 2013, con la quale la Corte Suprema aveva espresso un indirizzo giurisprudenziale più restrittivo o forse più benevolo, secondo il quale soltanto la Corte dei Conti aveva giurisdizione sulla responsabilità degli organi sociali per danni al patrimonio di una società “in house”. Questa stessa pronuncia è stata successivamente modificata con la decisione n. 24591/2016 delle Sezioni Civili della Cassazione, che hanno determinato l’affermarsi del principio secondo il quale le società a partecipazione pubblica devono essere disciplinate dalle disposizioni del codice che regola le norme sulle società, quindi dal codice civile.
Si è trattata di un’inversione giurisprudenziale della Suprema Corte che trova ratio nel presupposto che il perseguimento dell’interesse pubblico deve in primo luogo avvenire per mezzo dello strumento privatistico, determinando l’applicazione degli istituti delle società capitali, onde scongiurare la violazione delle norme sulla concorrenza, sia nell’ambito dell’insolvenza che della responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo di una società “in house providing”. La Cassazione fugando ogni dubbio dunque ripartisce le competenze fra tribunali ordinari e Corte dei Conti, concludendo che la decisione in merito alla responsabilità di sindaci e amministratori di una società in house dichiarata fallita spetta in primis al giudice ordinario.
Dott.ssa Anna Maria Signorino Gelo
ContinuaINTERDITTIVA ANTIMAFIA – L’IMPORTANZA DELLE SENTENZE DI CONDANNA – FATTI RISALENTI NEL TEMPO.
L’interdittiva prefettizia antimafia è disciplinata dal decreto legislativo del 6 settembre 2011 n. 159 il c.d. “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione”. Il legislatore ha voluto allontanarsi dal modello della repressione penale e utilizzare una misura preventiva volta ad impedire rapporti contrattuali tra la Pubblica amministrazione e società che sono formalmente estranee, ma direttamente o indirettamente collegate con la criminalità organizzata. Lo scopo della interdittiva antimafia è quello di evitare che soggetti che sono coinvolti, collusi o condizionati dalla delinquenza organizzata possano avere rapporti con la Pubblica Amministrazione.
Per l’applicazione della misura la Prefettura valuta e verifica se gli elementi raccolti siano sufficienti a far ritenere probabile e o ragionevole il rischio di infiltrazioni mafiose. Sul punto, la sentenza del Consiglio di del 9 ottobre 2018, n. 5784 ha fatto chiarezza sulle modalità e i parametri da seguire per l’applicazione della misura.
In primo luogo, non bisogna avere la prova del condizionamento di un determinato atto, bastano solo degli indizi gravi, precisi e concordanti. Inoltre non occorre provare che ci sia l’infiltrazione mafiosa, ma la sussistenza di elementi sintomatici – presuntivi dai quali sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata.
In secondo luogo, costituiscono elementi per l’applicazione della misura condanne o informative degli organi di Polizia o del Gruppo Ispettivo Antimafia. Gli elementi appena elencati, secondo la Sentenza, possono anche non essere attuali. Infatti l’interdittiva antimafia può legittimamente fondarsi anche su fatti risalenti nel tempo, “purchè dall’analisi del complesso delle vicende esaminate emerga, comunque, un quadro indiziario idoneo a giustificare il necessario giudizio di attualità e di concretezza del pericolo di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’attività di impresa”.
In terzo luogo, le sentenze di condanna per un delitto “spia” devono essere prese in considerazione dal Prefetto ai fini del rilascio dell’informativa anche se sono risalenti nel tempo.
In definitiva, per il rilascio dell’iterdittiva prefettizia antimafia, devono essere valutati tutti quei elementi che presuppongono un implicito coinvolgimento con le criminalità organizzate, indipendentemente dal tempo in cui tale coinvolgimento è avvenuto.
Questo indirizzo giurisprudenziale estremamente restrittivo non si condivide anche perché riporta indietro nel tempo le importanti aperture giurisprudenziali che si erano registrate nei vari giudizi innanzi ai TAR. Il presupposto “dell’attualità” spesso è stato il discrimine per ritenere efficace o meno la misura interdittiva, anche perché spesso si sono trovati a subirla aziende i cui legali rappresentanti erano due o tre generazioni avanti rispetto ai soggetti per i quali si emetteva l’interdittiva.
Dott.ssa Roberta Mossuto
ContinuaIl bacio assassino secondo la S.C.: – il semplice bacio sulle labbra configura il reato di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p.
Ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p. va qualificato come «atto sessuale» anche il bacio sulla bocca che sia limitato al semplice contatto delle labbra.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 43553 del 02.10.2018.
Nel caso di specie la Suprema Corte ha ravvisato la tentata violenza sessuale nella condotta dell’imputato che ha dimostrato in modo non equivoco la volontà di baciare la vittima contro la sua volontà, intento non perseguito grazie alla reazione della stessa.
Secondo il ragionamento della Cassazione, per «atti sessuali» vanno intesi tutti quegli atti che coinvolgono zone del corpo che, in base alla scienza medica, psicologica e antropologica, sono considerate erogene, ovvero tali da dimostrare l’istinto sessuale.
Pertanto, anche il bacio sulla bocca rientra in tale nozione, costituendo una delle principali manifestazioni dell’istinto sessuale, a nulla rilevando che, per le particolari condizioni in cui sia dato o scambiato, si riveli inidoneo a eccitare l’istinto sessuale.
La decisione aderisce a quell’orientamento interpretativo, ampiamente consolidato, in forza del quale rientrano nella nozione di «atto sessuale» tutti gli atti, anche diversi dalla congiunzione carnale, che coinvolgono comunque la «corporeità sessuale» del soggetto passivo, nella convinzione che la lesione della libertà sessuale ha una gravità intrinseca che prescinde dal grado di intrusione corporale subito dalla vittima.
Tuttavia, detta connotazione non va attribuita al bacio sulle labbra qualora vi sia la presenza di particolari contesti sociali, culturali o familiari nei quali l’atto risulti privo di valenza erotica, come, ad esempio, nel caso del bacio sulla bocca scambiato nella tradizione russa come segno di saluto (Cass. Sez. III del 13.02.2007).
La lettura della news potrebbe destare diffusa preoccupazione e l’insorgere di una sostanziale fobia da bacio ma in realtà così non è perché, dalla lettura integrale della sentenza emerge un contesto ben diverso, da quello che superficialmente appare, giustificando la rigorosa decisione della S.C..
I fatti che sottendono la pronuncia del giudice di legittimità riguardano un “…imputato che aveva atteso la persona offesa all’uscita del luogo di lavoro, aggredendola e tentando di baciarla, come affermato non solo dalla donna, ma anche dell’agente di p.g., intervenuto sul posto, il quale noto’ il (OMISSIS) che tratteneva per il collo e per il braccio la (OMISSIS), la quale cercava di divincolarsi dalla presa e di spingerlo e di allontanarlo da se’ .“ (cfr. sentenza citata).
Quindi nessuna paura… baciate pure se reciprocamente voluto!
Dott. Biagio Cimò
ContinuaAmministrativo/Penale: pugno duro sull’impugnazione delle interdittive antimafia con la sentenza n. 54010/2018 del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 5410 del 14.09.2018 ha respinto il ricorso di una società, cui era giunta un’interdittiva antimafia, la quale impediva alla stessa di intrattenere rapporti contrattuali con la P.A.. L’interdittiva antimafia, com’è noto, trova la sua ratio nella salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione. Pertanto, è precipuo potere del Prefetto interdire un imprenditore dall’intrattenere rapporti contrattuali con la Pubblica Amministrazione qualora questi risulti essere “in odor di mafia”. Nel caso di specie, il provvedimento interdittivo veniva giustificato per il fatto che, nella compagine societaria figuravano alcuni esponenti vicini alle cosche mafiose campane, nonché per la presenza, nella pianta organica aziendale, di alcuni dipendenti condannati per associazione di tipo mafioso. A nulla era valso per i vertici aziendali, aver licenziato i dipendenti ritenuti solidali alla locale associazione criminale. Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in commento, definisce, per un verso i limiti del giudizio prognostico, di competenza del Prefetto, al fine dell’emissione di un’interdittiva antimafia, per altro verso i limiti alla sindacabilità del provvedimento prefettizio in sede giurisdizionale. Il Collegio giudicante ha affermato che il giudizio del Prefetto, in merito al rischio di inquinamento mafioso, debba essere fondato sul criterio del “più probabile che non”, che può essere integrato da dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è anche quello mafioso. Pertanto, viene riconosciuto al Prefetto un ampio potere discrezionale, che prescinde dagli eventuali elementi probatori ritenuti non sussistenti in sede penale, al fine di valutare l’opportunità o meno di emettere un provvedimento interdittivo, peraltro supportato “dall’utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca, che esclude la possibilità per il giudice amministrativo di sostituirvi la propria”. Ne consegue, sostengono i Giudici del Consiglio di Stato, che la valutazione giurisdizionale, in merito al provvedimento prefettizio d’interdittiva, debba essere circoscritta alla sola manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti del provvedimento.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaCassazione n. 39077/2018: l’assoluzione determinata dalla scarsa credibilità di una dichiarazione, in caso di appello del Pubblico Ministero, comporta che il giudice del gravame è tenuto a rinnovare l’istruttoria dibattimentale.
La seconda sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte di Appello di Firenze, con la quale la stessa aveva fatto diniego alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in relazione all’escussione della persona offesa, le cui dichiarazioni erano state ritenute inattendibili dalla Corte territoriale e pertanto decisive per l’assoluzione dell’imputato. Sul punto la Corte distrettuale ha argomentato sostenendo che le dichiarazioni di altro testimone in un diverso procedimento, che avrebbero dovuto riscontrare quelle della persona offesa, non costituirebbero nuova prova ai sensi dell’art. 603, comma secondo, del codice di rito, bensì ritrattazione delle dichiarazioni rese nel procedimento de quo.
I Giudici di legittimità hanno censurato tale assunto poiché, ad avviso del Supremo Collegio, le dichiarazioni rese dal teste in altro procedimento non sono qualificabili come una mera ritrattazione bensì si tratterebbe di vere e proprie nuove prove. Conseguentemente, risultava illegittimo il diniego, della Corte di Appello, alla nuova escussione della persona offesa nonché del teste escusso nel connesso procedimento penale, che aveva suffragato le dichiarazioni rese dalla persona offesa.
La Corte di Cassazione richiama i principi espressi in un precedente arresto giurisprudenziale delle Sezioni Unite (sent. n. 27620/2016) secondo il quale il giudice di appello non può riformare la sentenza assolutoria impugnata dal P.M. senza aver preventivamente rinnovato l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei testi che abbiano reso dichiarazioni decisive sui fatti del processo, e pertanto determinanti ai fini del giudizio di assoluzione, in ossequio al disposto di cui all’art. 6, par. 3, lett. d, della CEDU.
La Suprema Corte afferma che, i suddetti principi trovano, specularmente, applicazione nel diritto della parte pubblica ad ottenere il riesame dei testi e la valutazione degli elementi di prova sopravvenuti, dopo la sentenza di primo grado, che possano condurre ad un diverso apprezzamento della prova dichiarativa svalutata nella sentenza di primo grado.
Peraltro, tale assunto ha, di recente, trovato consacrazione nell’art. 603, comma 3 bis c.p.p., introdotto dalla legge 103/2017.
Per concludere, il supremo consesso ha anche precisato che, al fine di introdurre le dichiarazioni potenzialmente rilevanti di un teste di un procedimento connesso nel giudizio, non può prescindersi dalla diretta assunzione del dichiarante nel successivo giudizio di appello, onde consentire l’accertamento dell’attendibilità dello stesso in ragione del principio del libero convincimento del giudice.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaDiritto Penale: Abnormità del provvedimento emesso dal GUP
In data 20.12.2017 il Gup del Tribunale di Napoli emetteva un’ordinanza con la quale, al termine dell’udienza preliminare, preso atto del rifiuto del Pubblico Ministero a modificare l’imputazione, restituiva gli atti al PM e applicava per analogia l’art. 521 del c.p.p.
L’ordinanza in questione veniva impugnata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli perché aveva le caratteristiche di un provvedimento abnorme.
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 29334 del 2018 ha dichiarato fondato il ricorso. La Corte precisa che un provvedimento è affetto da abnormità quando risulti “avulso dall’intero ordinamento processuale”.
Secondo il ragionamento della Cassazione, l’art. 33 sexies del codice di procedura penale consente al GUP con ordinanza di trasmettere gli atti al PM per emettere il decreto di citazione diretta. In questi casi il Giudice non può modificare il capo di imputazione. Nel caso di specie, invece, è avvenuto che il Giudice ha disposto la restituzione degli atti al PM e ha modificato il capo di imputazione, fattispecie non consentita dal codice di procedura penale.
L’abnormità dell’ordinanza impugnata deriva dalla stasi che essa potrebbe produrre al processo, perché “il pubblico ministero, che dovrebbe attenersi alla indicazione del GUP, non potrebbe più elevare la imputazione ritenuta più corretta in base ai dati fattuali a disposizione”.
Dott.ssa Roberta Mossuto
ContinuaDiritto Penale Ambientale: La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 29652/2018 torna a pronunciarsi sulle procedure di “end of waste” dei materiali di dragaggio.
La Corte di Cassazione annulla con rinvio l’ordinanza con la quale il Tribunale di Gorizia aveva confermato il provvedimento di diniego del GIP, con il quale veniva rigettata la richiesta di sequestro preventivo dell’impianto di recupero dei fanghi di dragaggio, nell’ambito di un procedimento penale in merito al reato di “attività di gestione di rifiuti non autorizzata” di cui all’art. 256 del D.lgs. 152/2006.
La Corte, in particolare, ha statuito che il conseguimento dell’autorizzazione di cui all’art. 208 del Testo Unico Ambientale (Autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti) rappresenta il presupposto affinché possa essere svolta l’attività di gestione dei rifiuti. Tuttavia per le operazioni volte a far cessare la qualifica di rifiuto occorre un quid pluris, ovvero: a) l’effettuazione di un trattamento di recupero, consistente anche solo in un’attività di cernita dei diversi materiali; b) l’effettuazione delle analisi, volte ad escludere i rischi correlati alla reimmissione degli stessi nell’ambiente; c) solo all’esito positivo delle analisi svolte, in ossequio ai requisiti ed alle condizioni di cui all’art. 184 quater del D.lgs. 152/2006, i materiali dragati cessano di essere qualificati come rifiuti. Pertanto, solo all’esito di tale iter i materiali dragati potranno essere reimmessi sul mercato come merci e come tali trasportati fuori dallo stabilimento con il documento di trasporto (D.D.T.).
Ed infatti, secondo i Giudici della terza sezione penale, la disciplina relativa alle operazioni di cessazione della qualifica di rifiuti dei materiali, nella specie provenienti da dragaggio, non può esulare dall’osservanza delle specifiche procedure previste all’art. 184 quater del T.U.A., in relazione alla tipologia di rifiuti.
Peraltro, afferma la Suprema Corte che, la norma di cui all’art. 184 quater del D.lgs. 152/2006 si pone in rapporto di specialità rispetto all’art. 184-ter, che disciplina in generale le operazioni di cessazione della qualifica di rifiuto, atteso che la suddetta norma si riferisce esclusivamente all’utilizzo dei materiali di dragaggio.
Precisamente, l’art. 184 quater del T.U.A. prevede una serie di requisiti affinché i materiali dragati cessino di essere qualificati come rifiuti, all’esito delle operazioni di recupero, quali: 1) il non superamento dei valori delle C.S.C. di cui alla tabella 1 A e B (in base alla destinazione d’uso del luogo ove i materiali verranno riutilizzati), dell’allegato 5 al titolo V della parte quarta del testo unico ambientale; 2) che sia certo il sito di destinazione di tali materie, senza rischi per le matrici ambientali.
Pertanto, i Giudici della Suprema Corte sostengono che, solo all’esito della procedura e nel rispetto dei requisiti di cui all’art. 184 ter del D.lgs. 152/2006, i materiali di dragaggio potranno essere movimentati dall’impianto con il c.d. documento di trasporto (DDT), in assenza del formulario di identificazione rifiuti (FIR).
Per concludere, non si può non rilevare che, sul tema delle procedure di “end of waste”, il 18 giugno 2018 è stato pubblicato in gazzetta ufficiale il regolamento recante la disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di conglomerato bituminoso ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, con il quale il Ministero dell’Ambiente ha stabilito i criteri in presenza dei quali il c.d. fresato di asfalto cessa di essere qualificato come rifiuto.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaDiritto Penale Ambientale: Il titolare ed il responsabile dell’impresa o dell’ente rispondono anche per culpa in vigilando e per violazione
La Corte di Cassazione ha affermato che, il reato di abbandono incontrollato di rifiuti di cui al comma secondo dell’art. 256 del D.lgs. 152/2006 si configura ponendo in essere, non solo una condotta attiva, ma anche omissiva.
Infatti, la Suprema Corte con la sentenza n. 28492 del 20 giugno 2018, riaffermando il principio già espresso con le sentenza n. 40530 del 1 ottobre 2014 e n. 24736 del 22 giugno 2007, ha statuito che il titolare e il responsabile dell’impresa o dell’ente rispondono anche per culpa in vigilando, segnatamente per omessa vigilanza sull’operato dei dipendenti che abbiano commesso il reato di abbandono di rifiuti.
Nell’ambito delle attività di gestione di rifiuti non autorizzata, viene ravvisato dai Giudici di legittimità un ulteriore profilo di responsabilità penale a titolo omissivo, in capo ai dirigenti dell’azienda, allorquando vengano violati quei doveri di diligenza volti ad evitare la commissione di illeciti nella gestione di rifiuti.
In particolare, con la sentenza n. 47432 del 11 dicembre 2003, la Suprema Corte ha dichiarato la penale responsabilità dei titolari dell’impresa per aver omesso di adottare tutte quelle misure necessarie volte ad evitare la commissione di illeciti nell’attività di gestione dei rifiuti.
Dott. Gaspare Tesè
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