Amministrativo e Penale: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna l’Italia – nessuna confisca senza condanna penale.
A distanza di quasi tre anni dall’udienza innanzi la “Grande Chambre” è stata depositata la sentenza, con la quale è stata decisa la questione relativa ai ricorsi promossi in merito ai fatti di lottizzazione abusiva in diverse zone della penisola.
In particolare, la questione riguardava la confisca urbanistica di numerosi terreni, sui quali insistevano costruzioni abusive, disposta dal Giudice italiano, ai sensi dell’art. 44, co 2 del D.P.R. 380/2001, in assenza di una sentenza penale di condanna che accerti la commissione del reato.
I Giudici della Corte Europea, con una pronuncia degna di nota, hanno avallato le ragioni dei ricorrenti, i quali sostenevano che la confisca urbanistica non avesse una sufficiente base legale data l’assenza di una sentenza di condanna.
Ed infatti, secondo la Corte Europea, la confisca urbanistica prevista all’art. 44, co 2 del D.P.R. 380/2001 in assenza di una sentenza definitiva del giudice penale che accerti che vi sia stata, effettivamente, una lottizzazione abusiva, comporterebbe una violazione dell’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ovvero del principio di legalità, nonché violazione dell’art. 6, paragrafo 2 ed art. 1 del protocollo n. 1 della CEDU, che, rispettivamente prevedono il diritto alla presunzione di innocenza e del diritto alla protezione della proprietà.
Invero, si rileva che la Corte europea si era già pronunciata in tal senso, su una vicenda analoga con la sentenza Varvara del 29 ottobre 2013, che tuttavia rimaneva disattesa dai supremi organi giurisdizionali italiani sostenendo che non si trattava di un orientamento consolidato della Corte Europea.
Le conclusioni cui è giunta la Corte Europea, con la pronuncia in commento, hanno suscitato un notevole scalpore nel panorama giuridico italiano, infatti, i commenti sono stati orientati in maniera diacronica tra chi sostiene la correttezza della pronuncia dei giudici europei e chi, invece, sostiene la posizione dei giudici europei configura una negazione della tutela dell’ambiente.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaDiritto Amministrativo: T.A.R. Calabria sentenza n. 1063/2018 – È legittima l’esclusione dalla gara in caso di condanna con una sentenza patteggiata.
La Sezione Seconda del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria con la sentenza 17 maggio 2018, n. 1063 ha rigettato il ricorso promosso, da una società aggiudicataria di una gara, per l’annullamento di un decreto dirigenziale con il quale la Stazione Unica Appaltante aveva annullato l’aggiudicazione già disposta in suo favore e ne aveva disposto l’esclusione dalla gara.
In particolare, la stazione appaltante motivava il provvedimento di esclusione, ai sensi dell’art. 80, co 5 lett. f bis, del D.lgs. 50/2016, in quanto la società aggiudicataria aveva reso dichiarazioni non veritiere in ordine al requisito di partecipazione di cui all’art. 80, co. 5 lett. a, del D.lgs. 50/2016, con specifico riferimento alla mancata dichiarazione della sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p., che aveva ad oggetto la violazione di norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria, con la sentenza 17 maggio 2018 n. 1063, ha dichiarato il ricorso palesemente infondato poiché l’art. 445 c.p.p. stabilisce l’equiparazione della sentenza di patteggiamento, ex art. 444 c.p.p., alla sentenza di condanna, anche se non vi è stato un accertamento dei fatti in sede dibattimentale.
I Giudici del T.A.R. hanno argomentato sul punto come sia lo stesso art. 80 del codice degli appalti a recepire esplicitamente la suddetta equiparazione, nonostante sia riferita alla distinta ipotesi di cui al comma 1, la quale, però, non presenta sostanziali differenze rispetto al caso di specie.
Il T.A.R., quanto poi alla doglianza, proposta dalla ricorrente, in merito all’attuazione di apposite misure di self cleaning adottate, ha osservato che, queste non potevano essere apprezzate, a valle, dalla stazione appaltante in funzione “sanante”, stante la dichiarazione non veritiera resa, a monte, dalla ricorrente in ordine alla assenza di violazioni delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Sul punto inoltre, in riferimento alla presunta rilevanza del punto 7.5. delle Linee guida ANAC n. 6/2017, il TAR ha osservato che le stesse linee guida disciplinano un’ipotesi diversa da quella del caso di specie, e che comunque la corretta interpretazione del punto 7.5. è nel senso che la relativa disposizione, che prescrive un contraddittorio più rigoroso in ordine alla valutazione delle misure di self cleaning, si riferisce alla violazione del principio di leale collaborazione in precedenti procedure concorsuali e non alla dichiarazione non veritiera nella gara in corso.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaDiritto Penale: Omesse ritenute certificate, la crisi economica e i tentativi di rimedio per far fronte alla stessa costituiscono causa di esclusione della responsabilità penale.
(Cass. Pen. Sez. III n. 20725/2018)
In relazione al reato di omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali, così come nei reati tributari in genere, la Suprema Corte di Cassazione ha posto delle limitazioni specifiche all’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 45 c.p., ovvero la non punibilità del soggetto che ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore.
L’improvvisa crisi di liquidità non imputabile al datore di lavoro o all’imprenditore non è da sola sufficiente a far attivare l’esimente di cui all’art. 45 c.p..
Come specificato ormai da costante giurisprudenza, da ultimo Cass. Sez. III n.20728/2018, il soggetto su cui ricade l’onere di adempiere all’obbligazione tributaria, che si trova a fronteggiare una situazione di crisi economica e di liquidità non dallo stesso provocata, deve provare in giudizio che ha posto in essere tutti i rimedi, le azioni e le misure dirette al recupero, anche sfavorevoli al proprio patrimonio personale, delle somme necessarie ad assolvere il debito erariale.
Durante la fase dibattimentale sarà onere dell’imputato provare, attraverso i documenti e testimonianze relative alle azioni e ai tentativi di rimedio posti in essere per far fronte alla crisi di liquidità, prove che in concreto possono essere anche rappresentate dalle richieste di accesso al credito bancario (mutui, fideiussioni e ipoteche come nel caso in esame).
Le azioni poste in essere dal soggetto costituiscono la prova che non è stato inerme e che non è stato altrimenti possibile trovare risorse necessarie per un puntuale rispetto degli obblighi fiscali.
In definitiva, la crisi economica sopravvenuta e la conseguente attivazione nel recupero di liquidità per far fronte ai debiti (che siano erariali o di altra natura) costituiscono la prova dell’insussistenza della volontà del contribuente di sottrarsi al pagamento del debito erariale, non adempiuto per contingenze non imputabili allo stesso, e l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 45 c.p.
Con la sentenza n. 20728/2018 la Corte di Cassazione, oltre a reiterare e confermare il proprio orientamento in materia, coglie l’occasione per sottolineare come i Giudici di merito devono valutare tutte le prove gli atti e documenti, relativi ai rimedi posti in essere per far fronte alla crisi economica, fornite in giudizio dal contribuente.
Dott. Biagio Cimò
ContinuaDiritto Amministrativo: La P.A., nell’ambito dei procedimenti ad evidenza pubblica, non è esente dal regime della responsabilità precontrattuale per violazione dei doveri di correttezza e buona fede.
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 4 maggio 2018, n. 5, ha affermato che anche la Pubblica Amministrazione, nello svolgimento dell’attività autoritativa nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica, è soggetta, non solo al rispetto delle norme di diritto pubblico ma anche, alle norme civilistiche della responsabilità precontrattuale che impongono di agire con lealtà e correttezza nell’ambito di tutte le fasi della procedura.
Il Consiglio di Stato con tale pronuncia ha posto un argine all’ondivago orientamento giurisprudenziale, che talvolta sosteneva la tesi in base alla quale la responsabilità precontrattuale fosse configurabile anche nella fase anteriore la scelta del contraente ed a prescindere dall’aggiudicazione (ex plurimis Cons. di Stato, sez V, 15 luglio 2013, n. 3831), talaltra, invece, sosteneva la tesi contraria in base alla quale la responsabilità precontrattuale non sarebbe configurabile anteriormente alla scelta del contraente poiché essa sarebbe connessa alla violazione delle regole di condotta tipiche della formazione del contratto (ex plurimis Cons. di Stato, sez. V, 8 novembre 2017, n. 5146).
Peraltro, l’ordinanza di remissione della questione all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha mostrato di aderire a tale ultimo orientamento, ponendo a supporto di ciò argomentazioni di carattere squisitamente civilistico in base al quale il bando di gara andrebbe qualificato alla stregua di un’offerta al pubblico ex art. 1336 c.c. o di una proposta di contratto in incertam personam.
Per effetto di tale assunto il Collegio rimettente, ritenendo la fase prodromica all’individuazione dei contraenti assorbita nella fase pubblicistica della competizione, sostiene che in questa fase non sarebbe configurabile la disciplina civilistica della responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c..
L’adunanza plenaria ha ritenuto di doversi discostare da tale assunto, ed ha affermato che “il dovere di correttezza e di buona fede oggettiva (e la conseguente responsabilità precontrattuale derivante dalla loro violazione) sia configurabile in capo all’Amministrazione anche prima e a prescindere dall’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva” ed inoltre che “tale responsabilità sia configurabile senza che possa riconoscersi rilevanza alla circostanza che la scorrettezza maturi anteriormente alla pubblicazione del bando oppure intervenga nel corso della procedura di gara”.
Il Consiglio di Stato, a sostegno di quanto sopra, richiama l’art. 2 della Carta Costituzionale cui viene ricondotto il fondamento del dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede in quanto rappresentazione di una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale.
Ed in particolare, un soggetto pubblico, sottoposto ai principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost., non può esimersi da un comportamento di correttezza e buona fede nei confronti del cittadino, in quanto pur mancando eventualmente una trattativa in senso tecnico-giuridico, essa è comunque idonea ad ingenerare ragionevoli affidamenti e fondate aspettative.
Infatti, l’Adunanza Plenaria afferma che ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare è “la libertà di autodeterminazione negoziale”.
Compendiando il percorso argomentativo seguito dal Consiglio di Stato con la pronuncia in commento nel quale viene affermato che nell’ambito delle procedure di evidenza o pubblica e più in generale del procedimento amministrativo le regole pubblicistiche e le regole privatistiche operano in maniera contemporanea e sinergica, dal momento che le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento amministrativo inteso quale esercizio diretto ed immediato del potere autoritativo, e le regole di diritto privato che hanno ad oggetto il comportamento complessivamente tenuto dalla staziona appaltante nel corso della gara.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, precisato che al fine di configurare una responsabilità in capo alla Pubblica Amministrazione è necessario che concorrano i seguenti presupposti: a) che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva; b) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, nel suo complesso, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e lealtà; c) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo; d) che il privato provi sia il danno – evento, sia il danno – conseguenza ed anche i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione.
In conclusione, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in applicazione del principio del legittimo affidamento, ha esplicitamente affermato che, la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione possa configurarsi anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare anche da comportamenti anteriori al bando, in modo da tutelare così le ragioni dei privati cittadini che si rapportano con le Pubbliche Amministrazioni.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaDiritto Civile: Il risarcimento del danno anche alle coppie di fatto che non coabitano. (Cass. Civ. Sez. III n. 9178/2018)
Con l’espressione “famiglia di fatto” si identifica quella relazione sorta dalla semplice convivenza personale tra un uomo e una donna, in assenza di un vincolo matrimoniale.
Forma di aggregazione sociale che ha progressivamente assunto dimensioni davvero consistenti, inducendo da un lato il legislatore ad introdurre un’apposita regolamentazione dell’istituto e, parimenti, dall’altro lato un’intensa elaborazione giurisprudenziale, corroborata dai contributi della più moderna dottrina.
Pur non essendo invocabile l’art. 29 Cost. che fa espresso riferimento alla “famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, la famiglia di fatto ha ricevuto tutela costituzionale quale “formazione sociale” nella quale si estrinseca la personalità dell’individuo (ai sensi dell’art. 2 Cost.).
Con la legge n. 76 del 2016 (cosiddetta “Legge Cirinnà”) vengono per la prima vota introdotte e disciplinate nell’ordinamento italiano le convivenze di fatto (commi 36 e ss.).
In particolare per “conviventi di fatto” si intendono due persone maggiorenni unite stabilmente (anche senza registrazione della coppia all’anagrafe del Comune di residenza) da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, tra le quali non intercorrono rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile (comma 36 l. n. 76/2016).
Analizzando il caso del decesso del convivente, derivante da fatto illecito di un terzo, si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite (comma 49 l. n. 76/2016).
In tal modo il legislatore ha posto fine al dibattito sviluppatosi in passato sul punto.
Dibattito in cui anche la giurisprudenza, solo di recente, ha ammesso la risarcibilità del danno non patrimoniale (ex art. 2059 c.c.) sulla base della considerazione che anche la perdita del convivente more uxorio determina nell’altro soggetto una sofferenza analoga a quella che si ingenera nell’ambito della famiglia (matrimoniale), purché si dia prova della tendenziale stabilità e della consistente durata del rapporto.
Su tali basi normative e giurisprudenziali la Corte di Cassazione, tenendo conto anche dei tempi moderni e delle difficoltà economiche, ha recentemente riconosciuto la risarcibilità del convivente superstite anche in mancanza di una prova certa della convivenza, ponendo l’attenzione sullo “stabile rapporto affettivo fra i conviventi” corroborato da indizi che devono essere valutati in maniera unitaria e non frazionata (Cass. Civ. Sez. III n. 9178/2018).
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di una signora alla quale l’assicurazione aveva negato il diritto al risarcimento per la morte del compagno. In particolare il Giudice di merito adito aveva riconosciuto la relazione e la frequentazione regolare tra la coppia, tuttavia mancava la prova della convivenza, anzi risultava che il compagno aveva la residenza in un altro Comune.
La Corte di Cassazione, nel decidere sulla questione, ha fondato la propria decisione tenendo conto della situazione attuale con particolare riferimento alla crisi economica del Paese, che obbliga una coppia a vivere in case e Comuni diversi e distanti, senza però alterare il rapporto affettivo fra la coppia.
In aggiunta a tale ragionamento, nel caso erano presenti degli “indizi” sulla convivenza della coppia quali: un conto in comune, la scelta dello stesso medico di base, la presenza delle agende del compagno in casa della signora; tuttavia, alla luce di tali indizi il Giudice di merito, errando, non ha considerato l’unitarietà di queste circostanze, che comprovavano un rapporto affettivo stabile e ben consolidato tra la coppia.
Dott. Biagio Cimò
ContinuaDiritto Penale: L’istituto della messa alla prova dei minori posto all’attenzione dei giudici della Corte costituzionale. Se l’esito non è positivo nessuna riduzione di pena prevista.
E’ finito sotto la lente giurisprudenziale della Consulta una vicenda che vede un minore imputato del reato di concorso in ricettazione sottoposto all’affidamento in prova ai servizi sociali.
La Corte costituzionale è stata chiamata a decidere sull’applicazione estensiva dell’articolo 657- bis del codice di procedura penale (computo del periodo di messa alla prova dell’imputato in caso di revoca) nei confronti del minore.
L’articolo suddetto prevede che il pubblico ministero, in caso di revoca o di esito negativo della messa alla prova, nel determinare la pena da eseguire, possa detrarre un periodo corrispondente a quello della prova eseguita (3 giorni di messa alla prova corrispondono ad un giorno di detenzione). Nel caso in esame tale computo è stato negato e per questo motivo il difensore del minore ha invocato l’applicazione estensiva dell’articolo 657- bis del codice di procedura penale chiedendo di detrarre il periodo di “messa alla prova” dalla pena.
Il Procuratore del Tribunale per i minorenni ha rigettato la richiesta sostenendo l’impossibilità di estendere nei confronti di un minore l’applicazione di una norma prevista soltanto per gli imputati non minori, a sostegno di tale tesi ha invocato la diversità degli istituti di “messa alla prova” e di detenzione, uno rieducativo e l’altro prettamente afflittivo. La Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente fondata la questione di legittimità costituzionale e con l’ordinanza del 12 aprile n. 16358, ha rimesso la questione alla Corte costituzionale, evidenziando che l’articolo 657 del codice di procedura penale in primis e l’articolo 29 del d.p.r. 448/1988 in secundis, escludono per i minori sottoposti alla “messa alla prova” la riduzione della pena in virtù del tempo trascorso sotto il regime della misura alternativa medesima. La Cassazione ha sottolineato di dover considerare la “messa alla prova” nei confronti dei minori come una pena afflittiva, poiché l’obbligo a restare all’interno di una struttura implica una limitazione della libertà di movimento. La mancata applicazione estensiva dell’articolo 657- bis del c.p.p. costituirebbe una evidente violazione del principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’articolo 3 della Costituzione che prevede si riconosca, in tali situazioni giuridiche, un trattamento eguale per tutti i soggetti soprattutto se minori. Il nostro ordinamento penale inoltre, coerentemente coi principi della Costituzione, pretende che il trattamento di tutti gli individui sia in melius e non in peius da un punto di vista sia sostanziale che processuale. La Corte costituzionale dovrà decidere se tale differenziato trattamento possa considerarsi fedele ai principi dettati dalla Carta costituzionale.
Dott.ssa Anna Maria Signorino Gelo
ContinuaDiritto Penale: Corrompere un arbitro non è reato: lo ha chiarito il decreto di archiviazione n. 28512/17 emesso dalla sezione Gip del Tribunale di Milano.
Il Gip del Tribunale di Milano, prendendo le mosse dal disposto di cui al secondo comma dell’art. 813 c.p.c., il quale prevede che «agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio», ha chiarito che all’arbitro non possono essere contestati i reati di corruzione e di corruzione in atti giudiziari di cui agli artt. 318 e ss. c.p..
Ed infatti, il percorso argomentativo seguito dal Gip milanese, con il decreto di archiviazione n. 28512/2017, ha preso atto della tesi espressa dalla Corte di Cassazione Civile, con la sentenza n. 6734/2014, la quale affermato la natura privatistica del rapporto che lega l’arbitro con le parti private riconducendola, in particolare, all’istituto del mandato.
Il Gip milanese ha, peraltro, sottolineato la progressiva equiparazione degli effetti del lodo arbitrale con quelli della sentenza, testimoniata anche dalle riforme del codice del rito civile del 2014 volte allo smaltimento del contenzioso arretrato, le quali hanno previsto la possibilità di devolvere ai collegi arbitrali le controversie giacenti.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaPUBBLICATO IN GAZZETTA IL GLOSSARIO DEGLI INTERVENTI EDILIZI PER I QUALI NON È NECESSARIO ALCUN TITOLO ABILITATIVO.
Il 7 aprile 2018 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti n. 81 del 2 marzo 2018 al quale è stato allegato il glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività ad edilizia libera, ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222, ovvero quelle attività per le quali non è necessario un titolo abilitativo.
Il decreto che entrerà in vigore il 22 aprile c.a., è volto ad uniformare a livello nazionale la disciplina in materia di edilizia alla quale veniva data un’interpretazione differenziata da parte dei Comuni e delle Regioni ed inoltre ad aiutare il cittadino e gli operatori a fare chiarezza in merito agli interventi che richiedano o meno un provvedimento amministrativo autorizzativo.
La lista delle 58 opere contenute nel glossario saranno soggette al regime di edilizia libera e come tali potranno essere realizzate senza alcun titolo abilitativo: Cil, Cila, Scia o permesso di costruire. Pur tuttavia, è necessario che tali opere siano realizzate sempre nel rispetto delle prescrizioni e degli strumenti urbanistici comunali e di tutte le normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia con particolare riferimento alle norme antisismiche, di tutela del rischio idrogeologico, di quelle relative all’efficienza energetica ecc..
In concreto, la tabella riporta un elenco di 12 categorie di interventi quali quelli di manutenzione ordinaria, eliminazione di barriere architettoniche, movimenti di terra, pannelli fotovoltaici a servizio degli edifici, manufatti leggeri in strutture ricettive, aree ludiche ed elementi di arredo delle aree di arredo delle pertinenze e così via.
In particolare, all’interno del glossario per ciascuna categoria di intervento sono elencate le principali opere ed elementi che saranno sicuramente annoverati tra gli interventi ad edilizia libera.
Tra gli interventi di edilizia libera vengono annoverati alcune categorie di interventi, per i quali in passato erano sorti, di frequente, numerose contestazioni, come ad esempio i berbecue in muratura, muretti, fontane, ricoveri per animali domestici e da cortile e così via che vengono ricomprese nella categoria delle “aree ludiche ed elementi di arredo delle aree di pertinenza”.
In conclusione, il glossario sarà un utilissimo strumento per il cittadino e tutti gli operatori per fare chiarezza e dare certezza alla materia edilizia che molto spesso è caratterizzata da una normazione astrusa, incompleta e frastagliata.
Dott. Gaspare Tesè
Continua
NORME IN MATERIA DI PREVENZIONE INFORTUNI LAVORO. LA PROVA DELLA DELEGA DEVE ESSERE DATA DAL DATORE DI LAVORO. NON NECESSARIO ALCUN FORMALISMO
CASSAZIONE PENALE, SEZ. 3, 28 MARZO 2018, N. 14352
La Corte di Cassazione, sez. III, con la sentenza numero 14352 del 28 marzo 2018, ha ribadito che l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e dell’igiene del lavoro devono fondarsi, non sulla qualifica rivestita dal soggetto, bensì sulle funzioni concretamente svolte. Inoltre, la Corte ha affermato che gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere trasferiti. Ma, come asserito da costante giurisprudenza, la delega che trasferisce le funzioni dal datore di lavoro ad altri soggetti deve avvenire attraverso un atto traslativo, che sia contraddistinto dai requisiti della chiarezza e della certezza. La sentenza afferma che tali requisiti “possono sussistere a prescindere dalla forma impiegata, non essendo richiesta per la sua validità la forma scritta né ad substantiam né ad probationem”. Nell’ambito del processo penale, quindi, la prova dell’esistenza della delega grava su chi la invoca, indipendentemente dall’esistenza dell’atto formale di delega.
Dott.ssa Roberta Mossuto