Diritto penale: possibile la revisione della sentenza di condanna per i soli effetti civili.
Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 6141 del 2019, hanno risolto il contrasto interpretativo in ordine all’ammissibilità dell’istanza di revisione proposta dall’imputato, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non doversi procedere perché il reato si è estinto per prescrizione, con conferma, tuttavia, della condanna al risarcimento dei danni in favore della sola parte civile costituita.
I Giudici della Suprema Corte, in particolare, hanno riportato i due orientamenti in contrasto secondo i quali:
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in siffatte ipotesi l’istituto della revisione non sarebbe ammissibile, poiché il codice di procedura penale configura tale istituto quale mezzo di impugnazione straordinario nei confronti di sentenze penali di condanna limitatamente ai soli effetti penali (cfr. ex plurimis Cass. sez. I, n. 1672/1992);
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mentre, secondo un orientamento minoritario, la revisione sarebbe ammissibile poiché dal dato letterale dell’art. 629 c.p.p. si evince che, l’istituto della revisione opera genericamente per le “sentenze di condanna” senza precisarne l’oggetto, ovvero se limitatamente ai soli effetti penali o civili (cfr. Cass., sez. V, n. 46707/2016).
La Suprema Corte, nel corposo excursus in ordine al contrasto giurisprudenziale sorto sul tema, non tralascia quanto affermato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 129/2008 secondo cui “… l’avvenuta dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione, non [n.d.r. costituisce] affatto sentenza penale di condanna suscettibile di essere impugnata con lo straordinario rimedio della revisione”.
Tuttavia, osserva la Suprema Corte che, accogliendo l’orientamento tradizionale, seppur suffragato dalla pronuncia del Giudice delle Leggi, si creerebbe un vulnus di tutela nei confronti dell’imputato prosciolto per estinzione del reato, ma condannato ai soli effetti civili.
Le Sezioni Unite, quindi, dopo aver sintetizzato i termini del contrasto giurisprudenziale, hanno posto al centro della disamina la questione relativa all’interpretazione della locuzione “condannato” ossia il soggetto esclusivamente legittimato a proporre richiesta di revisione.
Infatti, lo status di condannato, necessario per la richiesta di revisione, viene acquistato dal “soggetto che ha esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda” (cfr. Cass. SS.UU., n. 13199/2016).
Peraltro, la Suprema Corte, argomentando sulla ratio dell’istituto della revisione richiama la nozione attribuita alla stessa dalla tradizionale dottrina, secondo cui la revisione costituisce il rimedio contro “il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze della verità e della giustizia reale”.
Sulla scorta di una di un così nobile fondamento, l’istituto della revisione trova riconoscimento agli artt. 24 e 27 della Carta Costituzionale, all’art. 4, VII Protocollo alla Convezione EDU, nonché all’art 14, §6, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Pertanto, la Suprema Corte, rifacendosi all’orientamento minoritario, ha rilevato come la lettera dell’art. 629 c.p.p. indichi genericamente, tra i provvedimenti soggetti a revisione, le sentenze di condanna, nonché come il successivo art. 632 c.p.p. indichi quale soggetto legittimato a proporre istanza di revisione il “condannato”.
Orbene, non v’è dubbio alcuno che la sentenza che accoglie l’azione civile nel processo penale costituisca una pronuncia di condanna, atteso che la stessa presuppone indirettamente l’accertamento della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato contestato, seppur limitatamente agli effetti civili.
In conclusione, le Sezioni Unite, dirimendo il contrasto giurisprudenziale sorto sul tema, hanno affermato il seguente principio di diritto: “è ammissibile, sia agli effetti penali che agli effetti civili, la revisione, richiesta ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., della sentenza del giudice di appello che, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, in applicazione della disciplina dettata dall’art. 578 cod. proc. pen., abbia prosciolto l’imputato per l’intervenuta prescrizione del reato, e contestualmente confermato la sua condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile”.
ContinuaDiritto penale: Nessuna esimente per il pediatra attendista che omette di effettuare i dovuti esami clinici ed impedisce che vengano fornite tutte le cure vitali necessarie al paziente.
La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di condanna per il reato di omicidio colposo emessa dalla Corte di Appello di Milano nei confronti di una pediatra che si è mostrata indecisa ed “attendista” allorquando, prima, ha rinviato la visita domiciliare di un bambino che verteva in serie e difficili condizioni di salute e sottovalutando, dopo, i sintomi dello stesso, rivelatisi assai gravi, tali da far presagire un severo quadro clinico di polmonite in atto.
La IV Sezione della Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dal difensore escludendo che la sentenza impugnata fosse intrisa da vizi giuridici, men che meno logico-giuridici, oltretutto ritenendo che sussistesse “colpa grave” nella condotta della pediatra medesima.
La difesa ha posto in rilievo il fatto che la dottoressa non assunse alcuna decisione sul piano terapeutico e, di conseguenza, si è limitata a dare solo qualche precauzionale prescrizione medica al bambino, in attesa dell’evolversi delle condizioni di salute del piccolo paziente. In particolare, il difensore della pediatra ha dedotto la contraddittorietà del percorso logico motivazionale dei giudici di Appello, poiché non hanno dato rilievo alle conclusioni difensive e non hanno debitamente spiegato il nesso causale fra le omissioni contestate e l’evento finale (la morte del bambino).
In punto di diritto, dal legale della ricorrente è stato invocato, l’art. 3 della legge n. 189 del 2012 (decreto di riforma dell’allora legge Balduzzi) che concerne l’applicazione di generali linee-guida da parte della comunità medico-scientifica e che prevede: “l’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”; la difesa ha insistito, dunque, su tali disposizioni sostenendo che il comportamento della pediatra, condannata in entrambi i gradi di giudizio, avrebbe dovuto ritenersi “scusabile”, proprio perché avrebbe agito con “colpa lieve” nel rispetto delle linee guida medico-scientifiche.
Tuttavia, è stato appurato dalla Corte che appare corretto addebitare alla pediatra una condotta rivelatasi (e qualificabile come) “ingiustificatamente attendista e di generale sottovalutazione del quadro clinico del paziente”, nonostante i sintomi manifestati avrebbero dovuto indurla ad adottare un approccio medico-diagnostico ben differente, in primis, effettuando la visita domiciliare del bambino (a seguito della telefonata ricevuta dai genitori del piccolo) ed in secundis, in vista del peggioramento delle condizioni di salute, orientando i genitori del paziente stesso a recarsi al più presto in ospedale.
Per i giudici della Corte dunque non è apllicabile nessuna esimente a favore della pediatra, condannata nei gradi di giudizio precedenti dal Tribunale e dalla Corte di Appello di Milano, poiché è inescusabile che non siano state fornite dalla stessa le cure vitali necessarie per la sopravvivenza (o quantomeno per il miglioramento dello stato di salute) del paziente. D’altra parte, in punto di giudizio, non può nemmeno prescindersi dalla evidente negligenza e dall’imperizia di cui, nel caso in specie, si è connotata la condotta della pediatra.
Pare facile intuire che la Corte di ultima istanza, rigettando il ricorso, è giunta a concludere che “le condotte omissive contestate alla ricorrente abbiano determinato le condizioni dell’evento fatale con alto ed elevato grado di probabilità logica e credibilità razionale”, considerato che, d’altronde, i complessivi sintomi del piccolo paziente, erano stati (prima) descritti telefonicamente dai genitori e (successivamente) le stesse condizioni di salute del bambino, sottoposto a visita, risultarono abbastanza “eloquenti”, tali da dover far presagire un situazione clinica tormentata e complicata.
Un medico, dunque, che omette di effettuare una visita accurata dei parametri vitali di un paziente, che con negligenza e imperizia non formula una corretta diagnosi nonostante il riscontro evidente di gravi sintomi della malattia in atto, è da ritenersi, fuori da ogni ragionevole dubbio, colpevole di omicidio colposo (ai sensi dell’art 589 c.p.). Nel caso in esame, la Corte ha rimarcato “la sussistenza di un consistente allontanamento del comportamento della pediatra da una appropriata condotta medica, certamente qualificabile in termini di colpa grave” ed ha condannando la stessa al pagamento delle spese processuali.
Dott.ssa Anna Maria Signorino Gelo
ContinuaDiritto Penale – E’ ILLEGITTIMO REVOCARE LA PATENTE DI GUIDA NEI CASI DI OMICIDIO STRADALE EX ART. 589 BIS C.P. SALVO CHE NON SUSSISTANO LE AGGRAVANTI DELLA GUIDA SOTTO EFFETTO DI ALCOL O STUPEFACENTI.
La legge n. 41 del 2016, che ha introdotto nell’ordinamento il reato di omicidio stradale (art. 589 bis c.p.), in questi giorni, dopo ben 3 anni dalla sua entrata in vigore, è stata posta sotto la lente di ingrandimento da parte della Corte Costituzionale in seguito ad una serie di questioni di legittimità costituzionale sollevate da più uffici giudiziari che avevano messo in evidenza alcune criticità.
L’intervento della Consulta, anticipato tramite comunicato, ha riguardato due aspetti della suddetta riforma, in particolare:
1) da un lato è stato dichiarato costituzionalmente legittimo l’art. 590 quater c.p. ovvero il divieto, per il Giudice di bilanciamento della circostanza attenuante prevista dal comma 7 art. 589 bis c.p. (diminuzione fino alla metà della pena qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione od omissione) rispetto alle aggravanti previste per il reato di omicidio stradale;
2) dall’altro lato è stato dichiarato parzialmente incostituzionale l’automatismo dell’applicazione della pena accessoria della revoca obbligatoria della patente, ai sensi dell’art. 222 C.d.S., qualora un soggetto venga condannato sic et simpliciter per il reato di omicidio stradale.
Con riferimento a quest’ultima questione, il Giudice delle Leggi ha specificato che l’automatismo della revoca scatta soltanto quando la condotta dell’agente è aggravata dalla guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti, mentre in tutti gli altri casi l’applicazione o meno della pena accessoria della revoca della patente dovrà essere valutata dal Giudice in relazione alla gravità della condotta e deve privilegiarsi, eventualmente, l’applicazione della meno afflittiva sanzione accessoria della sospensione della patente di guida.
Pertanto il Giudice non può automaticamente, a seguito della condanna per il reato di omicidio stradale semplice e senza la sussistenza di aggravanti, revocare la patente al reo ma dovrà effettuare una valutazione della condotta in concreto posta in essere e, qualora sia necessario, applicare la più lieve sanzione della sospensione.
Dott. Biagio Cimò
ContinuaUSURA CONTRATTUALE L’INELUDIBILE RICERCA DI UN CRITERIO DI MISURAZIONE UNIVOCO ED OGGETTIVO.
Su gentile concessione dell’avv. Agatino Di Stallo dello studio Di Stallo & Partners e dell’Ing. Francesco Rundo.
ContinuaTARIFFE PROFESSIONALI: NEL PENALE MEGLIO UN PREVENTIVO CHE PREVEDA UN MINIMO UN MASSIMO E LA SUCCESS FEE!
Le tariffe da sempre costituiscono una sorta di rompicapo per i professionisti e per gli avvocati in particolare.
Purtroppo la nostra professione è divenuta una professione residuale, molti si iscrivono perché non hanno un lavoro alternativo. Questa paradossale situazione ha determinato l’iscrizione negli albi di numerosissimi colleghi, circostanza che ha determinato uno scadimento della professione ed un imbarbarimento nel campo delle tariffe. A volte si assiste ad un mercato a cui ci si sottrae per dignità e decoro.
Nell’ambito dell’area del penale si ritiene che presentare al cliente un preventivo che preveda un minimo, un massimo e la clausola c.d. Success Fee (se vinco mi paghi x% in più) sia gratificante e stimolante sia per il cliente che per l’avvocato.
La speranza è che tutti facciano i preventivi e non ci si affidi all’improvvisazione che crea disorientamento nel cliente e perdita di credibilità del professionista.
Interessante il quadro delineato dal Sole24Ore di oggi.
Avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaREATI TRIBUTARI E VERIFICA FISCALE: IL CONCETTO DI IMPOSTA EFFETTIVAMENTE DOVUTA. INTERVIENE IL COMANDO GENERALE DELLA GDF.
Finalmente interviene il Comando Generale della Guardia di Finanza nel corso del Telefisco 2019, a precisare cosa si intende per imposta «effettivamente» dovuta. Si tratta della riaffermazione di un principio di diritto di estrema importanza che, ove rispettato, potrebbe evitare migliaia di processi inutili.
Il Comando Generale della Guardia di Finanza non fa altro che accogliere un consolidato orientamento di legittimità secondo il quale “il giudice penale procedendo all’accertamento dell’imposta «effettivamente» dovuta deve considerare anche i costi e le spese effettivamente sostenuti, anche se non dichiarati”.
È un principio di grande civiltà che se correttamente applicato eviterebbe il superamento delle soglie di punibilità e quindi la celebrazione del processo penale. In altri termini concorrono a determinare il reddito non solo i ricavi ma anche le spese e i costi ammessi in deduzione anche se non indicati nelle scritture contabili, purché risultino da elementi certi precisi.
In conclusione si dovrà tenere conto anche degli elementi negativi, in un’ottica diversa che sia più attenta al dato concreto e reale rispetto al dato formale.
ContinuaAMPLIATO IL NOVERO DEI DELITTI PER I QUALI POSSONO ESSERE IMPIEGATE TECNICHE INVESTIGATIVE SPECIALI: L’AGENTE SOTTO COPERTURA MESSO A CONFRONTO CON L’AGENTE PROVOCATORE.
Con riferimento alle tecniche investigative speciali, il 18 Gennaio 2019 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge n. 3/2019 che amplia la disciplina giuridica del cosiddetto “agente sotto copertura”.
L’agente sotto copertura è quel soggetto che per ragioni di indagine partecipa alle altrui attività criminose al fine di farle fallire e farne arrestare gli autori e che, senza dare esecuzione al reato, ne controlla ed osserva l’attività illecita.
La legge “ad hoc” che ha istituito tale figura investigativa nel nostro ordinamento è la 146 del 2006, ma numerose sono anche le leggi speciali riguardanti determinate materie – ex multis pornografia, prostituzione, stupefacenti, terrorismo – che prevedono scriminanti specifiche per gli agenti sotto copertura. Sotto questo profilo, è applicabile la scriminante prevista dall’art. 51 del c. p. ai sensi del quale: “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità“.
Il d.d.l., convertito nella legge posta in esame, è stato denominato “spazzacorrotti” poiché ha voluto incidere, da subito, soprattutto sulla lotta contro la corruzione, ampliando il numero ed il tipo di reati per i quali è consentito ricorrere a tale tecnica investigativa. L’agente sotto copertura, utilizzato fino ad oggi nelle indagini per i reati di criminalità organizzata, potrà ora essere impiegato per tutti quegli illeciti penali in relazione ai quali sussiste un sospetto di corruzione. D’ora in avanti quindi, in relazione ai delitti come la concussione (317 c.p.), la corruzione per l’esercizio di funzioni (art. 318 c.p.), l’usura (art. 644 c.p.), il riciclaggio (648-bis c.p.) – e molti altri – elencati nelle nuova norma, gli agenti sotto copertura non saranno più punibili, quando e qualora, adottino determinate condotte durante particolari operazioni, finalizzate ad acquisire elementi di prova per sventare la commissione dei reati considerati, ammesso che non ve ne diano mai esecuzione.
Uno dei punti “nevralgici” di tale tecnica investigativa speciale è la sottile distinzione con un’altra figura investigativa, quella del cosiddetto “agente provocatore”, il cui dibattito sulle differenze trova i suoi albori già nella stesura della legge n. 146/2006. E’ da allora che si suole porre l’accento sul fatto che l’ “agente sotto copertura” si deve distinguere dall’ “agente provocatore”, il quale, con la propria attività, finisce proprio per “istigare” la commissione di uno o più reati, anziché solamente infiltrarsi in una organizzazione criminale o in una pubblica amministrazione, senza mai provocare in alcun modo la commissione di reati.
Secondo una consolidata giurisprudenza italiana, il ricorso all’“agente provocatore”, se non si accerta che il reato non sarebbe stato commesso senza la “provocazione”, è da considerarsi inammissibile. Per ciò stesso, non è consentito, se non per casi circoscritti, che un agente di polizia istighi, induca o promuova la commissione di un reato. Con la nuova legge, oggi invece, si dà alla polizia giudiziaria e a tutti quei Corpi di Polizia o di Carabinieri appartenenti a strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, la possibilità di utilizzare, anche per il contrasto alla corruzione, la figura dell’ “agente sotto copertura” (e non dell’agente “provocatore”).
Ebbene, le operazioni sotto copertura, già previste per reati relativi ad armi, stupefacenti, estorsione, sequestro di persona, immigrazione clandestina e altri, sono state estese anche a specifici reati contro la P. A. e si estende, d’altronde, la “non punibilità” penale dell’infiltrato in base all’idea che il suo concorso nei fatti sia stato posto in essere solo per fini investigativi.
Venendo ora ad alcune considerazioni critiche sul tema, può dirsi che tali previsioni di legge delineano un quadro non del tutto chiaro. Di fatti, un ufficiale di P.G. che dovesse svolgere operazioni investigative sotto copertura per contrastare alcuni reati contro la pubblica amministrazione, si troverebbe il più delle volte ad agire al di fuori di contesti criminali consolidati ed in condizioni che apparirebbero “mal definite”, che finirebbero per costituire vere e proprie “zone grigie”, con un elevato rischio di strumentalizzazioni e fraintendimenti in tutto il contesto in cui questi si verrebbe a trovare. Si correrebbe il rischio di rendere imputato un qualsiasi ufficiale di Polizia Giudiziaria, a scherno dei principi di tipicità, oggettività e materialità della fattispecie penale.
Situazioni di questo genere provocherebbero senza dubbio un clima di sospetto nelle pubbliche amministrazioni e potrebbe portare a forme di paralisi e ad incespichi dell’attività pubblica ed istituzionale; ciò perché si potrebbe facilmente ravvisare un qualsiasi illecito o elemento critico, fonte di dubbi o perplessità. Tutto sarà rimesso all’attenzione ed alla oculatezza di cui la magistratura dovrà disporre nel momento in cui sarà chiamata a valutare l’utilizzo di tale tecnica investigativa speciale.
Per affievolire ogni perplessità ed ogni dubbio, potrebbe richiamarsi l’avvento dell’istituto dell’ “agente sotto copertura” nell’ambito giuridico straniero, come quello americano, che si “blasona” già da tempi più addietro di tali strumenti investigativi.
Da molti decenni, forme di attività investigativa come quella dell’ “agente sotto copertura” fanno parte del patrimonio investigativo americano ed è per questo che oggi può essere utile osservarne, con l’ausilio dell’esperienza e della sperimentazione, le possibili evoluzioni o gli scenari futuri nel contesto italiano.
Il governo federale americano vanta da sempre un elevato numero di operazioni sotto copertura con attività d’investigazione svolte da diversi agenti “travestiti” da gente comune o da uomini d’affari, o uomini politici – o qual si voglia figura- per indagare possibili pericoli per la sicurezza del popolo americano e della nazione. Si tratta di un’attività che per sua natura è certamente “invasiva” e alcune volte pericolosa, un tempo rimessa alla sola competenza dell’F.B.I. (Federal Bureau of investigation); ecco che “tali operazioni forniscono un potente strumento per mettere insieme prove contro i sospetti, ma l’allargamento delle operazioni in incognito sta facendo emergere anche preoccupazione per le possibili limitazioni ai diritti civili e agli abusi che ne conseguono” (da un recente articolo del giornale New York Times).
Si auspica che, nell’ordinamento italiano, questo stesso strumento possa portare, nel lungo periodo, a buoni risultati investigativi e possa sventare rischiose situazioni di pericolo per la sicurezza del Paese, nonché possa far fallire attività criminose e possa farne arrestare gli autori.
Le tecniche investigative speciali possono rivelarsi uno strumento esaustivo ed a voler utilizzare le parole di un agente dell’F.B.I. americano: “Se fatto nel modo giusto, il lavoro sotto copertura può essere uno strumento di indagine molto efficiente”, dice, “ma porta con se dei rischi seri e dev’essere intrapreso solo col giusto addestramento e con la adeguata supervisione, poiché si tratta di un “inganno” del governo, che partecipa alle attività criminali, e questo può essere giustificato solo quando può portare alla soluzione dei crimini più grandi”.
L’esperienza straniera (in questo caso quella americana) potrebbe consentirci di far luce su alcuni degli aspetti dell’ “agente sotto copertura” italiano, che oggi ci appaiono più oscuri e incerti. Dunque, per mezzo di una consolidata e maturata sperimentazione americana, potrebbero apprendersi (e prevedersi) gli aspetti positivi e negativi dell’ “agente sotto copertura” e potrebbe crearsene un “più felice” rifacimento italiano.
Dott.ssa Anna Maria Signorino Gelo
ContinuaPenale tributario: Solo la prova del concreto pagamento dei lavoratori rende esente da responsabilità il datore di lavoro.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2565/2019, torna a pronunciarsi sul tema dell’omesso versamento di contributi previdenziali ed assistenziali.
Questione molto dibattuta dalla cronaca politica e giudiziaria quella affrontata dai giudici della Suprema Corte, i quali hanno affermato il principio di diritto in base al quale solo il concreto pagamento delle retribuzioni ai lavoratori rende esente da responsabilità penale il datore di lavoro, imputato per il reato di cui all’art. 2, comma 1-bis, legge n. 638/1983.
La S.C. giunge a tale conclusione richiamando anche la giurisprudenza civile secondo cui le buste paga sebbene sottoscritte dal lavoratore costituiscono prova solo della loro avvenuta consegna ma non dell’effettivo pagamento, necessario ad escludere il dolo, com’è noto integrato dalla forma generica, per il reato di omesso versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Con la pronuncia in commento, i giudici della terza sezione della Cassazione hanno rilevato come il rilascio del prospetto paga non abbia il valore di quietanza ai sensi dell’art. 1199 c.c..
In conclusione, il datore di lavoro (in funzione di sostituto d’imposta ai sensi dell’art. 19, l. 218/1952), che vuol escludere la propria responsabilità penale in ordine al reato di omesso versamento di contributi previdenziali, ha l’onere di provare il concreto pagamento delle retribuzioni ai lavoratori; nell’ipotesi in cui non abbia provveduto a versare i contributi previdenziali, ai fini dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 45 c.p. (forza maggiore), deve provare che la crisi di liquidità dell’impresa derivi da fattori esterni alla gestione aziendale dovendo essere determinata da fattori imprevedibili, e che esulano del tutto dalla condotta dell’agente, in modo da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaPenale: Commette il reato di truffa aggravata il pubblico dipendente che si allontana, anche per breve tempo, dal proprio ufficio.
La seconda sezione penale della Corte di Cassazione, investita per l’ennesima volta della ben nota questione relativa ai “furbetti del cartellino” ossia relativa a coloro i quali timbrano l’orario di lavoro senza essere presenti, ha statuito che integra che commette il reato di truffa aggravata il pubblico dipendente che si allontana dal proprio ufficio (senza far risultare l’assenza negli appositi registri), sebbene l’assenza perduri per un esiguo arco di tempo.
I giudici della S.C., infatti, con la sentenza n. 3262/19 hanno osservato che ai fini della configurabilità del reato di truffa aggravata nei confronti dell’ente pubblico non è sufficiente una valutazione quantitativa del pregiudizio subìto dallo stesso, ma va anche valutata l’incidenza delle assenze (seppur di brevissima durata) sull’organizzazione dell’ufficio, che ben potrebbero condurre ad una lesione del rapporto fiduciario tra il dipendente e l’ente pubblico.
Precisa la seconda sezione, infatti, che la dislocazione dei dipendenti in singoli uffici dai dirigenti, nonché dall’ordinamento dei singoli enti, si pone come fine quello di assicurare la proficuità della macchina amministrativa rispettando i generali principi di efficienza, efficacia ed economicità, che certamente potrebbero essere a repentaglio da condotte delittuose dei dipendenti.
Tutt’al più, precisa la sentenza in commento che, la speciale tenuità del danno arrecato alla P.A. potrebbe far sussistere la circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4 c.p..
I giudici di Piazza Cavour, infine, annullando con rinvio il provvedimento del Tribunale con il quale era stata revocata la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di pp.uu., hanno affermato il seguente principio di diritto: “La falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, che rilevano di per sé – anche a prescindere dal danno economico cagionato all’ente truffato fornendo una prestazione nel complesso inferiore a quella dovuta – in quanto incidono sull’organizzazione dell’ente stesso, modificando arbitrariamente gli orari prestabiliti di presenza n ufficio, e ledono gravemente il rapporto fiduciario che deve legare il singolo impiegato all’ente; di tali ultimi elementi è necessario tenere conto anche ai fini della valutazione della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4 c.p.”.
In conclusione, la sentenza 3262/2019 conferma la policy sanzionatoria nei confronti dei dipendenti pubblici che si esimono illegittimamente dal dovere loro attribuito.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaBancarotta: nessun inversione dell’onere della prova nel caso di omesso pagamento Iva. La distrazione della somma va accertata in concreto.
La S.C. con la sentenza n. 3518 del 24 gennaio 2019 ha statuito che l’omesso pagamento IVA da parte dell’imprenditore fallito va provata in concreto e non può essere desunta da mere deduzioni contabili, soprattutto quando esse non sono tenute correttamente.
Nella vicenda in commento i giudici di merito avevano ritenuto documentata, e quindi sottratta, la somma da parte di un imprenditore dichiarato fallito sulla base di una annotazione sul libro giornale anche se non risultante dai mastrini.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso dell’imprenditore fallito, ha rilevato che le risultanze processuali deponevano per l’inesistenza nei conti della società, della somma che si assumeva essere stata distratta. La Corte, pur riaffermando il consolidato principio che la distrazione e\o l’occultamento possono essere desunti dalla mancata prova data dall’imprenditore della diversa destinazione della somma oggetto di contestazione, rileva che i giudici di merito avrebbero preliminarmente dovuto verificare la reale esistenza del bene e\o del denaro nelle casse della società. In altri termini lo scrutinio dei giudici di merito avrebbe dovuto essere indirizzato a verificare se, indipendentemente dall’annotazione sul libro giornale, le somme riscosse della società fossero o meno transitate sui conti correnti della stessa e solo dopo la verifica della loro “diversa” destinazione dichiararne la eventuale distrazione.
Nella vicenda in esame nel corso del dibattimento, infatti, era emerso che la irregolare tenuta della contabilità (annotazione sul libro giornale pagamento IVA\ma omessa indicazione nei mastrini) avrebbe dovuto indurre il tribunale e la Corte territoriale ad approfondire la preminente circostanza della reale esistenza delle somme incassate dalla società. Il fallito, infatti, aveva negato l’addebito asserendo che il denaro presuntamente distratto non esisteva, circostanza confermata nel coso del dibattimento anche dal curatore fallimentare, il quale faceva rilevare i saldi passivi dei rapporti bancari della società.
In altri termini il mancato pagamento all’erario dell’IVA da solo non è sufficiente per dimostrare la distrazione.
Avv. Giuseppe Scozzari
Continua