LA PRESENZA IN BILANCIO DI UN CREDITO INESIGIBILE NON SVALUTATO INTEGRA LA FATTISPECIE AGGRAVATA DEL REATO DI BANCAROTTA IMPROPRIA DA FALSO IN BILANCIO.
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza decisa il 9 maggio 2017 n. 29885 ha chiarito che integra il reato di bancarotta impropria da falso in bilancio l’aver inserito, coscientemente, nei documenti contabili di una società, un credito inesigibile.
La sentenza in commento riguarda l’esame, da parte dei giudici della Suprema Corte, del ricorso di un amministratore di società avverso la sentenza dei giudici di prime cure per i delitti di bancarotta fraudolenta patrimoniale, bancarotta impropria da falso in bilancio e bancarotta semplice per aver aggravato il dissesto della società non richiedendo il fallimento. Di notevole rilevanza è stata la disamina in merito al reato di bancarotta impropria da falso in bilancio, rappresentato dall’aver inserito nel bilancio della società un credito inesigibile dal 2007, senza aver preventivamente proceduto alla svalutazione, di almeno il 90% di esso, secondo i principi contabili. Permettendo, in questo modo, alla società di proseguire la propria attività, nonostante la stessa avesse un patrimonio netto negativo, e pertanto sarebbe dovuta essere posta in liquidazione sin dal 2007, visto e considerato che il socio non ha mai espresso la volontà di procedere ad una ricapitalizzazione della società. Tutto ciò in beffa di altri soci, creditori e terzi che dal 2007 hanno intrattenuto rapporti commerciali e contrattuali con la società che apparentemente presentava un bilancio in attivo, quando in realtà si trovava in passivo, per via della mancata svalutazione del credito inesigibile, così come previsto dai principi contabili emanati dall’Organismo Italiano di Contabilità. Con il ricorso, l’amministratore della società lamentava il difetto di motivazione della sentenza della Corte d’Appello ed in ordine alla sussistenza del reato di bancarotta impropria da falso in bilancio lamentava l’applicazione dei principi contabili alla fattispecie de qua, i quali a parere del ricorrente non avevano un rango tale da poter integrare la norma penale ovvero l’art. 223 della legge fallimentare.
L’art. 223 della legge fallimentare al secondo comma, numero 1 disciplina l’ipotesi della c.d. bancarotta fraudolenta impropria la quale, per la determinazione della pena, rimanda all’art. 216, primo comma della legge fallimentare, relativa alla bancarotta fraudolenta. Pertanto, ai sensi dell’art. 223 L.F., viene applicata la pena prevista per il reato di bancarotta fraudolenta, a quei soggetti che hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società ponendo in essere alcune condotte tipizzate dal legislatore nel codice civile cui la norma fa rinvio e in particolare per il caso che qui ci occupa all’art. 2621 c.c. relativamente alle false comunicazioni sociali.
Con la sentenza n. 29885 del 2017, per l’ennesima volta dall’entrata in vigore della riforma del 2002, i giudici di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi sul tema del delitto di bancarotta impropria da falso in bilancio ed in particolare sulla rilevanza dei principi contabili, che avrebbero comportato la svalutazione di almeno il 90% del credito iscritto a bilancio in realtà inesigibile.
La statuizione della Quinta Sezione si è resa necessaria, da un lato, per dare un’interpretazione chiara ed univoca alla normativa fallimentare riformata dal legislatore del 2002 e, da ultimo anche, del 2015, ed in particolare, nel caso in esame, al disposto dell’art. 223 della legge fallimentare. Dall’altro per definire un uniforme orientamento all’ondivaga giurisprudenza della Suprema Corte, a cui si è assistiti all’indomani della riforma della legge fallimentare del 2002.
Infatti, dopo la riforma operata dal D.lgs. n. 61 del 2002, in particolare in merito alla portata dell’art. 223 della legge fallimentare, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate se la nuova formulazione dell’art. 223, secondo comma, numero 1 della legge fallimentare costituisca una semplice modifica legislativa ovvero comporti un’abolizione della precedente disciplina. Analoga questione è venuta a crearsi a seguito della modifica dell’art. 2621 c.c., cui rimanda l’art. 223 comma secondo, n. 1 della legge fallimentare, ad opera della legge n. 69 del 2015 che ha eliminato dall’art. 2621 c.c. l’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”. Ebbene, dopo il suddetto intervento riformatore del 2015, come ormai spesso accade poco chiaro, si sono affermati due orientamenti giurisprudenziali: un primo orientamento in base al quale l’intervento modificativo abbia determinato un effetto parzialmente abrogativo ed un secondo orientamento in base al quale la sopra richiamata modifica legislativa non abbia comportato tale effetto abrogativo e pertanto ritenendo ancora penalmente rilevante il c.d. falso valutativo.
Gli Ermellini nella sentenza in commento, sul tema della sussistenza del reato di bancarotta impropria da falso in bilancio, hanno sottolineato che i principi contabili sono rilevanti ed idonei ad integrare la fattispecie di reato prevista dall’art. 223 comma secondo n. 1 della legge fallimentare ovvero il c.d. falso valutativo. Adducendo altresì a motivazione che i principi contabili sono dei criteri tecnici generalmente accettati che consentono una corretta lettura delle voci di bilancio. I Giudici di Piazza Cavour hanno, quindi, rigettato le argomentazioni della difesa che riteneva i principi contabili irrilevanti e inidonei ad integrare la norma penale e conseguentemente di quel orientamento giurisprudenziale che riteneva abrogato la fattispecie del c.d. falso valutativo.
Invero, come dimostra il richiamo operato dai Giudici in sentenza di una precedente pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite ovvero la n. 22474 del 31.03.2016 sembra chiarire e cristallizzare l’orientamento giurisprudenziale prediletto, ovvero quello in base al quale si considera sussistente il reato di false comunicazioni sociali rappresentate anche da elementi valutativi generalmente accettati, come i principi contabili, dai quali è possibile discostarsi fornendo un’adeguata informazione e giustificazione onde evitare di indurre in errore i destinatari di tali comunicazioni.
In realtà, secondo i Giudici della Suprema Corte la condotta del soggetto agente nella fattispecie de qua era proprio quella qualificata ai sensi dell’art. 223, comma secondo n. 1 della legge fallimentare e del richiamato art. 2621 c.c. che viene rappresentata dal cosciente inserimento nei bilanci o in altre comunicazioni sociali, destinate ai soci o a terzi, di fatti materiali non rispondenti al vero, ovvero nell’omissione di fatti materiali rilevanti, così da indurre soci e terzi in errore o in modo tale da causare o aggravare ulteriormente il dissesto finanziario della società con l’assunzione di ulteriori impegni economici.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaCORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA: NON COSTITUISCE VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL NE BIS IN IDEM L’IRROGAZIONE DI SANZIONI SIA TRIBUTARIE CHE PENALI, SCATURENTI DALLA STESSA VIOLAZIONE, QUALORA QUESTE SIANO STATE INFLITTE A DUE SOGGETTI SEPARATAMENTE.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata con la sentenza del 5 aprile 2017 sulle questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con le ordinanze del 23 aprile e 23 giugno 2015 relativamente alle cause riunite C -217/15 e C -350/15, in tema di sanzioni tributarie e penali scaturenti dal mancato versamento dell’imposta sul valore aggiunto.
La questione è relativa al procedimento penale promosso nei confronti di un legale rappresentante di società, il quale ha omesso di versare entro i termini previsti dalla legge l’Imposta sul Valore Aggiunto che era dovuta sulla base della relativa dichiarazione annuale.
Tuttavia, prima che prendesse avvio il procedimento penale a carico del soggetto deputato al versamento della suddetta imposta, gli importi IVA dovuti dalla società legalmente rappresentata dall’imputato, sono stati oggetto di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, la quale conseguentemente, oltre a liquidare il debito tributario, ha anche irrogato alla società una sanzione tributaria nella misura del 30% dell’importo dovuto.
Subito dopo l’irrogazione della sanzione, la società perveniva insieme all’Agenzia delle Entrate ad un accordo transattivo vertente sugli accertamenti dei periodi di imposta di cui alla dichiarazione IVA non versata, con il quale l’Agenzia delle Entrate rinunciando alla pretesa della sanzione, si accordava affinché la società pagasse la sola imposta dovuta. Pertanto, con la transazione, l’accertamento compiuto dall’amministrazione finanziaria relativamente alla dichiarazione annuale IVA non versata dalla società diveniva definitivo, atteso che lo stesso non è stato oggetto di impugnazione.
In seguito, l’Agenzia delle Entrate denunciava il reato di omesso versamento alla Procura della Repubblica, e veniva avviato un procedimento penale a carico del legale rappresentante della società per il reato di omesso versamento dell’Imposta sul Valore Aggiunto, previsto dal combinato disposto degli artt. 10 bis e ter del decreto delegato n. 74/2000.
Conseguentemente, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, prendendo cognizione del procedimento avviato nei confronti del legale rappresentante, rilevava un manifesto contrasto tra la normativa prevista all’art. 10 ter del Decreto Legislativo n. 74/2000, con il principio del c.d. ne bis idem.
Ed in particolare tale contrasto lo si rilevava in quella parte dell’art. 10 ter del D.Lgs. n. 74/2000, che consente di procedere alla valutazione della responsabilità penale di un soggetto, il quale sia già stato destinatario di un accertamento definitivo con relativa irrogazione di una sanzione amministrativa, con l’art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU e l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in base ai quali nessuno può essere condannato penalmente per un reato per il quale sia già stato giudicato.
Pertanto, il Tribunale sollevava la questione pregiudiziale innanzi la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha tuttavia rilevato e sottolineato che nel caso in esame le sanzioni tributarie sono state inflitte alla società, mentre il procedimento penale pendente era a carico di un soggetto diverso ovvero il legale rappresentante.
In tale circostanza, la Corte di Giustizia ha aderito alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale «il fatto di infliggere sia sanzioni tributarie che sanzioni penali non costituisce una violazione dell’articolo 4 del protocollo n.7 alla CEDU, qualora le sanzioni di cui trattasi riguardino persone, fisiche o giuridiche, giuridicamente diverse» (Cfr. Corte EDU, 20 maggio 2014, Pirttimäki c. Finlandia, CE:ECHR:2014:0520JUD00353211, § 51).
Infatti, i Giudici della Corte del Lussemburgo hanno definito la questione affermando che, il disposto dell’art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e quindi del principio del c.d. ne bis in idem, non è in contrasto con la normativa nazionale che consente di avviare procedimenti penali per l’omesso versamento dell’IVA nei confronti di colui il quale, sia già stata irrogata una sanzione amministrativa/tributaria, allorquando tali sanzioni siano state inflitte a due soggetti giuridicamente diversi.
In conclusione, nel caso in esame, il Tribunale potrà legittimamente applicare la disciplina prevista dall’art. 10 ter del D.Lgs. 74/2000, e pertanto, ne consegue che, nella fattispecie de qua non è applicabile il principio del c.d “bis de eadem re ne sit actio” comunemente conosciuto come “ne bis in idem”.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaLA “NUOVA” RESPONSABILITÀ MEDICA NELLA LEGGE N. 24 DEL 2017
La IV sezione penale della Corte di Cassazione, con la notizia di decisione n. 3 del 2017, nell’udienza del 20 aprile scorso ha chiarito che, in materia di responsabilità medica, ai fatti verificatisi prima del 1° aprile, data di entrata in vigore della nuova disciplina (Legge n. 24 del 2017), si dovrà applicare la vecchia e più favorevole previsione della c.d. legge Balduzzi, la n. 189 del 2012.
Quest’ultima infatti aveva escluso, all’articolo 3, comma 1, la rilevanza penale delle condotte caratterizzate da colpa lieve, in tutte quelle situazioni nelle quali risultavano applicabili le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.
In altre parole, con la nuova disciplina sulla colpa medica si sono “strette le maglie”, tanto da rendere applicabile un classico principio del diritto penale come il favor rei.
Si osserva che la Suprema Corte ha proceduto a un confronto tra le norme penali che si sono succedute nel tempo relative alla colpa medica.
Per i fatti anteriori alla legge 24 del 2017, potrà ancora applicarsi, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., la disposizione di cui all’abrogato art. 3, comma 1, della legge 189/2012, la quale era sicuramente più favorevole; mentre per i fatti successivi a tale data si applicherà la nuova legge.
Le conclusioni cui è pervenuta la Suprema Corte di Cassazione, con la precedente sentenza n. 16140 della medesima Sezione, possono così sintetizzarsi: «assume rilievo nell’ambito del giudizio di rinvio, posto che la Corte di appello, chiamata a riconsiderare il tema della responsabilità dell’imputato, dovrà verificare l’ambito applicativo della sopravvenuta normativa sostanziale di riferimento, disciplinante la responsabilità colposa per morte o lesioni personali provocate da parte del sanitario. E lo scrutinio dovrà specificamente riguardare l’individuazione della legge ritenuta più favorevole, tra quelle succedutesi nel tempo, da applicare al caso di giudizio, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2, comma 4, Codice penale, secondo gli alternativi criteri della irretroattività della modificazione sfavorevole ovvero della retroattività della nuova disciplina più favorevole».
Invero, la legge n. 24 del 2017, all’art. 6, ha introdotto un nuovo articolo, l’art. 590 sexies, cod. pen., il quale prevede che se l’evento dannoso si è «verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».
Tale nuova formulazione sembra lasciare margini di discrezionalità più ampi all’autorità giudiziaria rispetto alla situazione precedente. Starà infatti al giudice valutare, situazione per situazione, l’adeguatezza delle linee guida al caso concreto. Si è poi circoscritta la limitazione di responsabilità alle sole condotte rispettose delle linee guida caratterizzate da imperizia.
Quest’ultima soluzione palesa però un forte rischio: per effetto infatti di un confine assai esile tra le varie ipotesi di colpa, la pubblica accusa potrebbe puntare a trasformare casi di imperizia in imputazioni per negligenza e imprudenza. Ipotesi nelle quali non scatterà dunque l’esenzione per aderenza alle linee guida.
Secondo quanto affermato dalla stessa Corte di Cassazione con la sentenza n. 28187, depositata lo scorso 7 giugno, la nuova disciplina non trova applicazione negli ambiti che per qualunque ragione non siano governati dalle linee guida; non trova neppure applicazione in quelle situazioni nelle quali tali raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiarità della condizione del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate. Peraltro, il novum non opera in relazione alle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo (per esemplificazione si richiama il caso di un errore di esecuzione di un atto chirurgico: un chirurgo che esegue l’atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere il peduncolo della neoformazione, taglia un’arteria con effetto letale).
Dunque, secondo la Corte di Cassazione sopracitata “il metro di valutazione costituito dalle raccomandazioni ufficiali è invece cogente, con il suo già indicato portato di determinatezza e prevedibilità, nell’ambito di condotte che nelle linee guida siano pertinente estrinsecazione”.
Inoltre, quelle situazioni tecnico scientifiche nuove, complesse o rese più difficoltose dall’urgenza implicano un diverso e più favorevole metro di valutazione. In tale ambito ricostruttivo infatti può trovare applicazione, come regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, il principio civilistico di cui all’art. 2236 c.c., il quale assegna rilevanza soltanto alla colpa grave.
Infine, altra novità prevista dalla legge 24/2017, è l’articolo 5, il quale ha ad oggetto un nuovo statuto disciplinare delle prestazioni sanitarie, governato dalle raccomandazioni espresse dalle linee guida accreditate e, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali.
Dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaLA SUPREMA CORTE CASSA CON RINVIO LA SENTENZA DI CONDANNA, NEI CONFRONTI DELL’AMMINISTRATORE VITTIMA DI ESTORSIONE, PER IL REATO DI MANCATO VERSAMENTO ALL’INPS DELLE RITENUTE PREVIDENZIALI E ASSISTENZIALI.
La Corte d’Appello confermando la sentenza dei Giudici di primo grado, aveva condannato l’amministratore di una società per il reato di omesso versamento dei contributi previdenziali dei dipendenti della società da lui amministrata, previsto dall’art. 2, comma 1 bis, del D.L. n. 463 del 1983.
Sin dal primo grado di giudizio l’imputato aveva invocato il diritto, previsto in favore dei soggetti vittime dei delitti di estorsione e usura, alla sospensione dei termini per il versamento, nelle casse degli enti previdenziali e assistenziali, delle somme dovute a titolo di ritenute, disciplinato dall’art. 20 della legge 23 febbraio 1999, n. 44.
Invero, la Corte d’Appello ed il giudice di primo grado, avevano arbitrariamente denegato il diritto alla sospensione dei termini, nonostante l’imputato sia stato, in realtà vittima di estorsione, adducendo a motivazione che “la natura appropriativa”, della violazione dell’omesso versamento delle ritenute escluda la possibilità di beneficiare del diritto alla sospensione dei termini, prevista in favore delle vittime di usura ed estorsione.
L’imputato ricorrendo ai giudici di Piazza Cavour denunciava la mancata applicazione del beneficio della sospensione dei termini previsto in favore dei soggetti vittime di usura ed estorsione. La Suprema Corte accogliendo il ricorso ha ritenuto applicabile la norma di favore in quanto, tale norma non fa distinzione di species di debiti e pertanto anche i debiti previdenziali devono ritenersi ricompresi nella norma di favore prevista dall’art. 20 della legge 23 febbraio 1999 n. 44. Pertanto, i Giudici di legittimità hanno annullato la sentenza della Corte d’Appello a causa dell’omessa applicazione del beneficio previsto in favore delle vittime di usura ed estorsione.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaCORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE VI, CON SENTENZA N. 16529/2017: IL SINDACO NON RISPONDE DEL REATO DI PECULATO SE C’È BUONA FEDE SULLE SPESE DI RAPPRESENTANZA.
La Suprema Corte ha annullato senza rinvio perché il fatto non costituisce reato stante l’assenza di dolo, la sentenza della Corte d’Appello che, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, aveva condannato il sindaco, per il reato di peculato e disposto l’interdizione temporanea dai Pubblici uffici. Nei fatti il sindaco aveva disposto il rimborso di somme di denaro in suo favore, spese per alcuni conviviali, cui aveva partecipato nella veste di sindaco, per confrontarsi con altri amministratori dei comuni del circondario, al fine di realizzare, insieme agli stessi, un’unione di Comuni per contrapporsi alla linea politica sostenuta dalla vicina Comunità Montana. E ancora, altre liquidazioni erano state disposte dallo stesso sindaco, in suo favore, per altri pranzi con funzionari di alcuni Istituti di credito, aventi come scopo l’ottenimento di alcune sovvenzioni e prestiti per le attività istituzionali del comune amministrato dallo stesso sindaco.
I Giudici di Piazza Cavour hanno ribadito il principio, già riconosciuto dai giudici d’Appello, in merito alla configurabilità del reato di peculato, secondo il quale le spese sono qualificabili come “spese di rappresentanza” quando vengono soddisfatti i requisiti strutturali e funzionali, ovvero per quanto attiene al primo lo svolgimento di una funzione rappresentativa esterna e un fine istituzionale proprio dell’ente pubblico che sostiene tali spese, conseguentemente, per quanto attiene il secondo requisito, esse devono essere funzionali all’immagine esterna dell’Ente Pubblico, in altri termini le “spese di rappresentanza” devono apportare all’Ente maggiore prestigio all’immagine pubblica dello stesso.
La Sesta sezione della Corte di Cassazione, tuttavia, ha deciso di fondare la motivazione del decisum in commento, circa il tema della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, pertanto chiarendo in primis che il dolo nel reato di peculato è caratterizzato dalla mera coscienza e volontà di appropriarsi della “cosa pubblica” e in secundis che l’errore del pubblico ufficiale riguardante la disponibilità di un bene pubblico per fini diversi da quelli istituzionali non configura un errore di fatto su legge diversa da quella penale – ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 47 c.p. – e pertanto idoneo ad escludere il dolo, bensì costituisce errore o ignoranza della legge penale, che non costituisce scusante ex art. 5 c.p..
La Suprema Corte di Cassazione non ha condiviso la tesi proposta dai giudici di merito di primo e secondo grado che non hanno tenuto in debito conto le tesi difensive, inerenti la rilevanza dell’elemento psicologico ed in particolare quelle relative ad una difettosa percezione della realtà fattuale. Il Sindaco, nella fattispecie che ci occupa, infatti, ha ritenuto che le spese sostenute fossero qualificabili di “rappresentanza”, per le circostanze in cui le stesse sono state sostenute, ovvero i pranzi che comunque erano riconducibili a eventi e situazioni latu sensu istituzionali e finalizzati ad ottenere benefici, in termini di prestigio e di complessiva immagine pubblica per il Comune da egli rappresentato, se pur non riconducibili esattamente ai requisiti strutturali e funzionali previsti per la configurazione di una “spesa di rappresentanza”. Proprio per questi motivi la Suprema Corte ha ritenuto di cassare la sentenza della Corte d’Appello, configurandosi nel caso di specie un errore di fatto ai sensi dell’art. 47, primo comma del Codice Penale, considerata la buona fede del sindaco, e quindi capace di escludere il dolo necessario per la configurazione del reato di peculato.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaGIUDIZIALECONSULENZA CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAVORO, SENTENZA N. 5284/17; DEPOSITATA IL 1° MARZO – LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE PUBBLICO SE VENGONO UTILIZZATI PER RELATIONEM GLI ATTI DEL PROCEDIMENTO PENALE APERTO SUI MEDESIMI ADDEBITI
Con la sentenza in commento, la Sezione Lavoro della Cassazione ha annullato la decisione della Corte d’appello di Roma che aveva confermato la sentenza del giudice di primo grado in merito alla reintegra nel posto di lavoro di una dipendente del Ministero delle Politiche agricole, Alimentari e Forestali, fondando il “decisum” sull’illegittimità del licenziamento in assenza di un’autonoma fase istruttoria che comprovi le contestazioni addebitate al lavoratore.
Nel caso di specie, il Ministero con nota 200 del 2013 effettuava la contestazione disciplinare nei confronti della propria dipendente, richiamando i capi di imputazione formulati dal Gip del Tribunale di Roma al fine di motivare il provvedimento cautelare a carico della donna.
Proprio sull’insufficienza motivazionale il Tribunale capitolino dichiarava l’illegittimità del licenziamento e ordinava, come prassi, la reintegra nel posto di lavoro e il pagamento risarcitorio delle mancate retribuzioni e dei contributi non versati dal licenziamento all’effettiva reintegrazione.
Secondo la corte territoriale, non sarebbe ammesso in sede di procedimento disciplinare il mero rinvio “per relationem” agli atti del procedimento penale, ma occorrerebbe invece «procedere all’autonoma fase istruttoria comprovando le contestazioni addebitate al lavoratore».
Ma la necessità di un’autonoma valutazione e motivazione dei fatti tali da giustificare il licenziamento da parte del datore di lavoro – in questo caso pubblico – è stata confutata alla radice dai giudici di legittimità.
In particolare, la Suprema Corte ha sottolineato che non esiste alcuna norma che imponga alla Pubblica amministrazione di procedere ad un’autonoma istruttoria ai fini della contestazione disciplinare.
Soprattutto, ciò non è previsto dal testo unico sul pubblico impiego applicabile ratione temporis (il d.lgs 165/2001) tantomeno nella norma che regola i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale (l’articolo 55-ter), ai sensi della quale in caso di successivo proscioglimento penale, la parte potrà riassumere il procedimento disciplinare entro sei mesi per chiedere l’esecuzione della decisione.
Tuttavia, vale anche la conclusione simmetrica, ossia la riapertura di un procedimento disciplinare archiviato senza sanzione, se il versante penale si è successivamente concluso con l’affermazione della penale responsabilità sui medesimi fatti.
Secondo la S.C. sulla base della suddetta pronuncia, e all’esito di una ricognizione normativa, pertanto, la P.A. sarà libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di «ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi di contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente».
Conseguentemente, argomenta la Suprema Corte, la prova delle condotte oggetto della contestazione devono essere fornite dal datore non tanto nella procedura disciplinare, ma piuttosto nella successiva ed eventuale fase di impugnativa giudiziale. Per tutto ciò, deve ritenersi ingiustificata – secondo la S.C. – un’assoluta omissione di vaglio da parte del giudice civile di merito delle argomentazioni difensive che una parte prospetti,deducendole dagli atti del procedimento penale aperto sui medesimi addebiti.
Avv. Samantha Borsellino
ContinuaGIUDIZIALECONSULENZA LA BANCAROTTA FRAUDOLENTA E IL CONCORSO DELL’EXTRANEUS.
La V sezione della Corte di Cassazione, con sentenza n. 42572, lo scorso 7 ottobre si è pronunciata in merito al reato di bancarotta fraudolenta affermando che il cessionario della societá fallita, unitamente al consulente che sovraintende alla conclusione dei relativi contratti, risponde di concorso esterno in bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, laddove sia provato il contributo apportato all’operazione fittizia.
Alla luce dei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimitá, che disciplinano il concorso del c.d. extraneus nei reati fallimentari propri commessi dall’amministratore di fatto o di diritto della societá fallita, si può affermare che é configurabile il concorso nel reato di bancarotta fraudolenta da parte di persona estranea al fallimento, quando la condotta di quest’ultimo sia stata efficiente per la produzione dell’evento e il terzo concorrente abbia operato con la consapevolezza e la volontá di aiutare l’imprenditore in dissesto a pregiudicare gli adempimenti predisposti dalla legge a tutela dei creditori.
In particolare, sotto il profilo oggettivo, il soggetto esterno alla societá può concorrere nel reato proprio tramite una condotta agevolativa di quella dell’intraneus, purchè consapevole della sua funzione di supporto alla “distrazione”, intesa quest’ultima come sottrazione e depauperamento del patrimonio sociale, in caso di fallimento, ai danni dei creditori.
Sotto il profilo soggettivo, invece, il dolo dell’extraneus concorrente nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, non richiede la prova del previo accordo con l’intraneus. Infatti, è sufficiente la volontá della condotta di apporto dell’extraneus a quella dell’intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, non richiedendosi dunque la specifica conoscenza del dissesto della societá.
Inoltre, la giurisprudenza precisa che il dolo può desumersi, anche implicitamente, dall’esame delle circostanze concrete o dal mero contegno omissivo serbato dal fallito in violazione agli obblighi di verità sanciti dall’art. 87 della legge fallimentare.
In tale sentenza, la Corte Suprema, ha valorizzato la vicinanza temporale delle operazioni di cessione, i vincoli di conoscenza con il fallito, il mancato pagamento di un prezzo congruo e la distrazione di rilevanti commesse trasferite a una costituita newco, rilevando l’attuazione di un’operazione sostanzialmente fittizia.
Dunque, la Corte di Cassazione con tale pronuncia, ha ribadito che “integra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale la cessione di un ramo d’azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale, specificatione del consolidato principio per cui costituisce attività distrattiva anche l’operazione con la quale si estrometta un bene dal patrimonio dell’impresa senza che l’equivalente entri nel patrimonio acquisito al fallimento”. In tal caso infatti si realizza uno svuotamento del patrimonio della societá fallita.
Peraltro, la censura mossa viene estesa anche “al contratto di locazione connotato da un canone sensibilmente inferiore a quelli di mercato” stipulato “al fine di mantenere la disponibilità materiale dell’immobile locato alla famiglia del titolare della societá fallenda”.
Sulla stessa linea interpretativa si collocano, inoltre, le decisioni della Suprema Corte in tema di bancarotta fraudolenta documentale, rispetto alla quale per il riconoscimento del concorso dell’extraneus non é richiesta la specifica conoscenza del dissesto della societá, in quanto il dolo risulta integrato dalla volontà della propria condotta di sostegno a quella dell’intraneus purchè abbia consapevolezza dell’incidenza della sua condotta (sul versante della regolaritá e correttezza della rappresentazione documentale della societá poi fallita) tale da rendere o poter rendere impossibile o difficile la ricostruzione delle vicende del patrimonio del fallito.
dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaPECULATO: RISPONDE ANCHE IL LEGALE RAPPRESENTANTE DI UNA SOCIETÀ CONCESSIONARIA DEL SERVIZIO DI RISCOSSIONE TRIBUTI PER CONTO DEL COMUNE.
La Sesta sezione penale della Corte Suprema di Cassazione il 21 settembre 2016, con sentenza n. 46235, si è pronunciata in materia di Peculato nei confronti del legale rappresentante di una società concessionaria del servizio di riscossione tributi per conto di un Comune.
La Cassazione precisa che tale soggetto, il quale gestisce il servizio di riscossione dei tributi locali, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio a prescindere dalla natura privata della società. Infatti, lo stesso codice di procedura penale all’art. 358, privilegiando un criterio oggettivo-funzionale, fornisce una definizione piuttosto ampia dell’incaricato di pubblico servizio in quanto tale soggetto è colui che, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico a prescindere da qualsiasi rapporto d’impiego con lo Stato o con qualsiasi altro ente pubblico.
Pertanto, ciò che si richiede ai fini della configurazione del reato di peculato è che l’attività svolta realizzi finalità pubbliche.
Dunque la Cassazione ha ritenuto integrare il delitto di peculato per appropriazione la condotta del soggetto che, autorizzato alla riscossione dei tributi, ometta di versare le somme di denaro ricevute nell’adempimento della funzione pubblica poiché quel denaro entra nella disponibilità della P.A. nel momento stesso della consegna all’incaricato.
Dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaMISURE CAUTELARI PERSONALI LA SUPREMA CORTE: NON SI PUÒ PRETENDERE L’ESPROPRIO DELLA PROPRIETÀ DELL’IMPRENDITORE ARRESTATO.
La Corte Suprema di Cassazione, il 19 maggio 2016 con sentenza n. 23258, si è pronunciata su un ricorso avverso l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di un imprenditore accusato di corruzione e turbativa d’asta.
Il controllo di legittimità operato dalla Corte si è incentrato (non avendo la Corte alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende oggetto d’indagine) sulla sola esposizione delle ragioni giuridicamente significative che hanno determinato l’applicazione della misura cautelare e sull’assenza nel testo di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.
La Corte Suprema ha annullato l’ordinanza del Tribunale del riesame di Roma ritenendo, così, fondati i motivi di ricorso fatti valere dalla difesa dell’indagato. Tra i motivi avevano trovato posto la contestazione riguardante la conservazione delle esigenze cautelari, malgrado il pericolo di inquinamento delle prove dovesse essere escluso dalla natura delle fonti di prova raccolte (documenti e intercettazioni) e malgrado, quanto al pericolo di reiterazione del reato, non ci fossero precedenti penali e l’interessato non ricoprisse più la carica di amministratore della società nel cui ambito si sarebbero realizzate le condotte illecite. Infatti, il pubblico funzionario era stato licenziato dall’ANAS.
La Corte in questa sentenza sostiene che ai fini delle ipotizzate condotte corruttive non è dato cogliere una logica e adeguata spiegazione, al di là di un generico riferimento all’eccezionale gravità delle vicende in contestazione e alle modalità di commissione dei reati, delle ragioni che dovrebbero fondare la indispensabile presenza dei requisiti di attualità e concretezza del pericolo di reiterazione.
Proprio in relazione a quanto finora esposto è necessario ribadire l’orientamento precedentemente espresso ed affermato dalla Suprema Corte (Sez. 6, n. 3043 del 27 Novembre 2015, dep. 2016, Esposito, Rv. 265618), secondo cui il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, così come introdotto nell’art. 274, lett. c), cod. proc. pen. dalla legge 16 Aprile 2015, n. 47, non va equiparato all’imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, ma sta ad indicare la c.d. continuità del “periculum libertatis” nella sua dimensione temporale, da apprezzare sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a realizzare.
Peraltro, la Corte va al di là di ciò ed afferma che «non può ritenersi sufficiente la prospettata correlazione del pericolo di recidiva al mantenimento, da parte dell’imprenditore indagato, di un potere decisionale nelle scelte dell’azienda di cui egli, nonostante la dismissione dalla carica ricoperta, continua a possedere la maggioranza azionaria, non potendosi certo pretendere che l’emissione di una misura cautelare determini, al fine qui considerato, la necessità di rinunziare al diritto di proprietà».
ContinuaAUTOVELOX NON TARATO, MULTA NULLA – CASSAZIONE
La Suprema Corte di Cassazione, il 6 Aprile scorso, si è pronunciata in merito alla mancata taratura degli autovelox ed ha statuito che in questi casi la sanzione amministrativa comminata, per violazione dell’art. 142, comma 9, del codice della strada (eccesso di velocità), è nulla.
È necessario, infatti, che l’apparecchiatura utilizzata per l’accertamento dell’infrazione stradale sia stata sottoposta alla verifica annuale di funzionalità e taratura.
La Suprema Corte, con questa sentenza, si è così conformata a quanto sancito dalla Corte Costituzionale (sent. Corte Cost., n. 113 del 2015). Quest’ultima, infatti, aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 45, comma 6, del D.lgs. 30 Aprile 1992, n. 285 (codice della strada), nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura.
Dott.ssa Mariagrazia Broccia
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