CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE VI, CON SENTENZA N. 16529/2017: IL SINDACO NON RISPONDE DEL REATO DI PECULATO SE C’È BUONA FEDE SULLE SPESE DI RAPPRESENTANZA.
La Suprema Corte ha annullato senza rinvio perché il fatto non costituisce reato stante l’assenza di dolo, la sentenza della Corte d’Appello che, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, aveva condannato il sindaco, per il reato di peculato e disposto l’interdizione temporanea dai Pubblici uffici. Nei fatti il sindaco aveva disposto il rimborso di somme di denaro in suo favore, spese per alcuni conviviali, cui aveva partecipato nella veste di sindaco, per confrontarsi con altri amministratori dei comuni del circondario, al fine di realizzare, insieme agli stessi, un’unione di Comuni per contrapporsi alla linea politica sostenuta dalla vicina Comunità Montana. E ancora, altre liquidazioni erano state disposte dallo stesso sindaco, in suo favore, per altri pranzi con funzionari di alcuni Istituti di credito, aventi come scopo l’ottenimento di alcune sovvenzioni e prestiti per le attività istituzionali del comune amministrato dallo stesso sindaco.
I Giudici di Piazza Cavour hanno ribadito il principio, già riconosciuto dai giudici d’Appello, in merito alla configurabilità del reato di peculato, secondo il quale le spese sono qualificabili come “spese di rappresentanza” quando vengono soddisfatti i requisiti strutturali e funzionali, ovvero per quanto attiene al primo lo svolgimento di una funzione rappresentativa esterna e un fine istituzionale proprio dell’ente pubblico che sostiene tali spese, conseguentemente, per quanto attiene il secondo requisito, esse devono essere funzionali all’immagine esterna dell’Ente Pubblico, in altri termini le “spese di rappresentanza” devono apportare all’Ente maggiore prestigio all’immagine pubblica dello stesso.
La Sesta sezione della Corte di Cassazione, tuttavia, ha deciso di fondare la motivazione del decisum in commento, circa il tema della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, pertanto chiarendo in primis che il dolo nel reato di peculato è caratterizzato dalla mera coscienza e volontà di appropriarsi della “cosa pubblica” e in secundis che l’errore del pubblico ufficiale riguardante la disponibilità di un bene pubblico per fini diversi da quelli istituzionali non configura un errore di fatto su legge diversa da quella penale – ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 47 c.p. – e pertanto idoneo ad escludere il dolo, bensì costituisce errore o ignoranza della legge penale, che non costituisce scusante ex art. 5 c.p..
La Suprema Corte di Cassazione non ha condiviso la tesi proposta dai giudici di merito di primo e secondo grado che non hanno tenuto in debito conto le tesi difensive, inerenti la rilevanza dell’elemento psicologico ed in particolare quelle relative ad una difettosa percezione della realtà fattuale. Il Sindaco, nella fattispecie che ci occupa, infatti, ha ritenuto che le spese sostenute fossero qualificabili di “rappresentanza”, per le circostanze in cui le stesse sono state sostenute, ovvero i pranzi che comunque erano riconducibili a eventi e situazioni latu sensu istituzionali e finalizzati ad ottenere benefici, in termini di prestigio e di complessiva immagine pubblica per il Comune da egli rappresentato, se pur non riconducibili esattamente ai requisiti strutturali e funzionali previsti per la configurazione di una “spesa di rappresentanza”. Proprio per questi motivi la Suprema Corte ha ritenuto di cassare la sentenza della Corte d’Appello, configurandosi nel caso di specie un errore di fatto ai sensi dell’art. 47, primo comma del Codice Penale, considerata la buona fede del sindaco, e quindi capace di escludere il dolo necessario per la configurazione del reato di peculato.
Dott. Gaspare Tesè
ContinuaGIUDIZIALECONSULENZA CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAVORO, SENTENZA N. 5284/17; DEPOSITATA IL 1° MARZO – LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE PUBBLICO SE VENGONO UTILIZZATI PER RELATIONEM GLI ATTI DEL PROCEDIMENTO PENALE APERTO SUI MEDESIMI ADDEBITI
Con la sentenza in commento, la Sezione Lavoro della Cassazione ha annullato la decisione della Corte d’appello di Roma che aveva confermato la sentenza del giudice di primo grado in merito alla reintegra nel posto di lavoro di una dipendente del Ministero delle Politiche agricole, Alimentari e Forestali, fondando il “decisum” sull’illegittimità del licenziamento in assenza di un’autonoma fase istruttoria che comprovi le contestazioni addebitate al lavoratore.
Nel caso di specie, il Ministero con nota 200 del 2013 effettuava la contestazione disciplinare nei confronti della propria dipendente, richiamando i capi di imputazione formulati dal Gip del Tribunale di Roma al fine di motivare il provvedimento cautelare a carico della donna.
Proprio sull’insufficienza motivazionale il Tribunale capitolino dichiarava l’illegittimità del licenziamento e ordinava, come prassi, la reintegra nel posto di lavoro e il pagamento risarcitorio delle mancate retribuzioni e dei contributi non versati dal licenziamento all’effettiva reintegrazione.
Secondo la corte territoriale, non sarebbe ammesso in sede di procedimento disciplinare il mero rinvio “per relationem” agli atti del procedimento penale, ma occorrerebbe invece «procedere all’autonoma fase istruttoria comprovando le contestazioni addebitate al lavoratore».
Ma la necessità di un’autonoma valutazione e motivazione dei fatti tali da giustificare il licenziamento da parte del datore di lavoro – in questo caso pubblico – è stata confutata alla radice dai giudici di legittimità.
In particolare, la Suprema Corte ha sottolineato che non esiste alcuna norma che imponga alla Pubblica amministrazione di procedere ad un’autonoma istruttoria ai fini della contestazione disciplinare.
Soprattutto, ciò non è previsto dal testo unico sul pubblico impiego applicabile ratione temporis (il d.lgs 165/2001) tantomeno nella norma che regola i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale (l’articolo 55-ter), ai sensi della quale in caso di successivo proscioglimento penale, la parte potrà riassumere il procedimento disciplinare entro sei mesi per chiedere l’esecuzione della decisione.
Tuttavia, vale anche la conclusione simmetrica, ossia la riapertura di un procedimento disciplinare archiviato senza sanzione, se il versante penale si è successivamente concluso con l’affermazione della penale responsabilità sui medesimi fatti.
Secondo la S.C. sulla base della suddetta pronuncia, e all’esito di una ricognizione normativa, pertanto, la P.A. sarà libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di «ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi di contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente».
Conseguentemente, argomenta la Suprema Corte, la prova delle condotte oggetto della contestazione devono essere fornite dal datore non tanto nella procedura disciplinare, ma piuttosto nella successiva ed eventuale fase di impugnativa giudiziale. Per tutto ciò, deve ritenersi ingiustificata – secondo la S.C. – un’assoluta omissione di vaglio da parte del giudice civile di merito delle argomentazioni difensive che una parte prospetti,deducendole dagli atti del procedimento penale aperto sui medesimi addebiti.
Avv. Samantha Borsellino
ContinuaGIUDIZIALECONSULENZA LA BANCAROTTA FRAUDOLENTA E IL CONCORSO DELL’EXTRANEUS.
La V sezione della Corte di Cassazione, con sentenza n. 42572, lo scorso 7 ottobre si è pronunciata in merito al reato di bancarotta fraudolenta affermando che il cessionario della societá fallita, unitamente al consulente che sovraintende alla conclusione dei relativi contratti, risponde di concorso esterno in bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, laddove sia provato il contributo apportato all’operazione fittizia.
Alla luce dei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimitá, che disciplinano il concorso del c.d. extraneus nei reati fallimentari propri commessi dall’amministratore di fatto o di diritto della societá fallita, si può affermare che é configurabile il concorso nel reato di bancarotta fraudolenta da parte di persona estranea al fallimento, quando la condotta di quest’ultimo sia stata efficiente per la produzione dell’evento e il terzo concorrente abbia operato con la consapevolezza e la volontá di aiutare l’imprenditore in dissesto a pregiudicare gli adempimenti predisposti dalla legge a tutela dei creditori.
In particolare, sotto il profilo oggettivo, il soggetto esterno alla societá può concorrere nel reato proprio tramite una condotta agevolativa di quella dell’intraneus, purchè consapevole della sua funzione di supporto alla “distrazione”, intesa quest’ultima come sottrazione e depauperamento del patrimonio sociale, in caso di fallimento, ai danni dei creditori.
Sotto il profilo soggettivo, invece, il dolo dell’extraneus concorrente nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, non richiede la prova del previo accordo con l’intraneus. Infatti, è sufficiente la volontá della condotta di apporto dell’extraneus a quella dell’intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, non richiedendosi dunque la specifica conoscenza del dissesto della societá.
Inoltre, la giurisprudenza precisa che il dolo può desumersi, anche implicitamente, dall’esame delle circostanze concrete o dal mero contegno omissivo serbato dal fallito in violazione agli obblighi di verità sanciti dall’art. 87 della legge fallimentare.
In tale sentenza, la Corte Suprema, ha valorizzato la vicinanza temporale delle operazioni di cessione, i vincoli di conoscenza con il fallito, il mancato pagamento di un prezzo congruo e la distrazione di rilevanti commesse trasferite a una costituita newco, rilevando l’attuazione di un’operazione sostanzialmente fittizia.
Dunque, la Corte di Cassazione con tale pronuncia, ha ribadito che “integra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale la cessione di un ramo d’azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale, specificatione del consolidato principio per cui costituisce attività distrattiva anche l’operazione con la quale si estrometta un bene dal patrimonio dell’impresa senza che l’equivalente entri nel patrimonio acquisito al fallimento”. In tal caso infatti si realizza uno svuotamento del patrimonio della societá fallita.
Peraltro, la censura mossa viene estesa anche “al contratto di locazione connotato da un canone sensibilmente inferiore a quelli di mercato” stipulato “al fine di mantenere la disponibilità materiale dell’immobile locato alla famiglia del titolare della societá fallenda”.
Sulla stessa linea interpretativa si collocano, inoltre, le decisioni della Suprema Corte in tema di bancarotta fraudolenta documentale, rispetto alla quale per il riconoscimento del concorso dell’extraneus non é richiesta la specifica conoscenza del dissesto della societá, in quanto il dolo risulta integrato dalla volontà della propria condotta di sostegno a quella dell’intraneus purchè abbia consapevolezza dell’incidenza della sua condotta (sul versante della regolaritá e correttezza della rappresentazione documentale della societá poi fallita) tale da rendere o poter rendere impossibile o difficile la ricostruzione delle vicende del patrimonio del fallito.
dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaPECULATO: RISPONDE ANCHE IL LEGALE RAPPRESENTANTE DI UNA SOCIETÀ CONCESSIONARIA DEL SERVIZIO DI RISCOSSIONE TRIBUTI PER CONTO DEL COMUNE.
La Sesta sezione penale della Corte Suprema di Cassazione il 21 settembre 2016, con sentenza n. 46235, si è pronunciata in materia di Peculato nei confronti del legale rappresentante di una società concessionaria del servizio di riscossione tributi per conto di un Comune.
La Cassazione precisa che tale soggetto, il quale gestisce il servizio di riscossione dei tributi locali, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio a prescindere dalla natura privata della società. Infatti, lo stesso codice di procedura penale all’art. 358, privilegiando un criterio oggettivo-funzionale, fornisce una definizione piuttosto ampia dell’incaricato di pubblico servizio in quanto tale soggetto è colui che, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico a prescindere da qualsiasi rapporto d’impiego con lo Stato o con qualsiasi altro ente pubblico.
Pertanto, ciò che si richiede ai fini della configurazione del reato di peculato è che l’attività svolta realizzi finalità pubbliche.
Dunque la Cassazione ha ritenuto integrare il delitto di peculato per appropriazione la condotta del soggetto che, autorizzato alla riscossione dei tributi, ometta di versare le somme di denaro ricevute nell’adempimento della funzione pubblica poiché quel denaro entra nella disponibilità della P.A. nel momento stesso della consegna all’incaricato.
Dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaMISURE CAUTELARI PERSONALI LA SUPREMA CORTE: NON SI PUÒ PRETENDERE L’ESPROPRIO DELLA PROPRIETÀ DELL’IMPRENDITORE ARRESTATO.
La Corte Suprema di Cassazione, il 19 maggio 2016 con sentenza n. 23258, si è pronunciata su un ricorso avverso l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di un imprenditore accusato di corruzione e turbativa d’asta.
Il controllo di legittimità operato dalla Corte si è incentrato (non avendo la Corte alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende oggetto d’indagine) sulla sola esposizione delle ragioni giuridicamente significative che hanno determinato l’applicazione della misura cautelare e sull’assenza nel testo di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.
La Corte Suprema ha annullato l’ordinanza del Tribunale del riesame di Roma ritenendo, così, fondati i motivi di ricorso fatti valere dalla difesa dell’indagato. Tra i motivi avevano trovato posto la contestazione riguardante la conservazione delle esigenze cautelari, malgrado il pericolo di inquinamento delle prove dovesse essere escluso dalla natura delle fonti di prova raccolte (documenti e intercettazioni) e malgrado, quanto al pericolo di reiterazione del reato, non ci fossero precedenti penali e l’interessato non ricoprisse più la carica di amministratore della società nel cui ambito si sarebbero realizzate le condotte illecite. Infatti, il pubblico funzionario era stato licenziato dall’ANAS.
La Corte in questa sentenza sostiene che ai fini delle ipotizzate condotte corruttive non è dato cogliere una logica e adeguata spiegazione, al di là di un generico riferimento all’eccezionale gravità delle vicende in contestazione e alle modalità di commissione dei reati, delle ragioni che dovrebbero fondare la indispensabile presenza dei requisiti di attualità e concretezza del pericolo di reiterazione.
Proprio in relazione a quanto finora esposto è necessario ribadire l’orientamento precedentemente espresso ed affermato dalla Suprema Corte (Sez. 6, n. 3043 del 27 Novembre 2015, dep. 2016, Esposito, Rv. 265618), secondo cui il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, così come introdotto nell’art. 274, lett. c), cod. proc. pen. dalla legge 16 Aprile 2015, n. 47, non va equiparato all’imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, ma sta ad indicare la c.d. continuità del “periculum libertatis” nella sua dimensione temporale, da apprezzare sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a realizzare.
Peraltro, la Corte va al di là di ciò ed afferma che «non può ritenersi sufficiente la prospettata correlazione del pericolo di recidiva al mantenimento, da parte dell’imprenditore indagato, di un potere decisionale nelle scelte dell’azienda di cui egli, nonostante la dismissione dalla carica ricoperta, continua a possedere la maggioranza azionaria, non potendosi certo pretendere che l’emissione di una misura cautelare determini, al fine qui considerato, la necessità di rinunziare al diritto di proprietà».
ContinuaAUTOVELOX NON TARATO, MULTA NULLA – CASSAZIONE
La Suprema Corte di Cassazione, il 6 Aprile scorso, si è pronunciata in merito alla mancata taratura degli autovelox ed ha statuito che in questi casi la sanzione amministrativa comminata, per violazione dell’art. 142, comma 9, del codice della strada (eccesso di velocità), è nulla.
È necessario, infatti, che l’apparecchiatura utilizzata per l’accertamento dell’infrazione stradale sia stata sottoposta alla verifica annuale di funzionalità e taratura.
La Suprema Corte, con questa sentenza, si è così conformata a quanto sancito dalla Corte Costituzionale (sent. Corte Cost., n. 113 del 2015). Quest’ultima, infatti, aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 45, comma 6, del D.lgs. 30 Aprile 1992, n. 285 (codice della strada), nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura.
Dott.ssa Mariagrazia Broccia
ContinuaTIROCINIO: IL PRATICANTE AVVOCATO POTRÀ PER 12 MESI FARE PRATICA PRESSO UN UFFICIO DEL GIUDICE
TIROCINIO AVVOCATI | 03 Maggio 2016
Una auspicata ed invocata opportunità per quanti, giovani laureati in giurisprudenza, attendevano questo provvedimenti che consentirà loro di svolgere il tirocinio anche in Tribunale accanto ad un giudice. Come fare la domanda ed i requisiti necessari e l’attività, si trovano pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 101 del 3 maggio scorso il decreto n. 58 del 17 marzo 2016 (pubblicata anche nel nostro sito), concernente il regolamento recante disciplina dell’attività di praticantato del praticante avvocato presso gli uffici giudiziari.
La pratica potrà durare 12 mesi e non oltre, non esclude la pratica parallela presso uno studio legale, con gli ovvi obblighi legati al riserbo professionale ed al dovere di correttezza e segretezza connessi con entrambe le professioni.
Bisognerà essere iscritti presso il registro dei praticanti nel distretto in cui si esercita e si chiede di fare pratica, essere degno ed onorabile.
ContinuaGIUDIZIALECONSULENZA S.U. – ART. 2621 C.C. – IL FALSO IN BILANCIO “VALUTATIVO” NON È STATO ABROGATO.
S.U. – Art. 2621 c.c. – Il falso in bilancio “valutativo” non è stato abrogato. Fondamentale – per non incorrere nel delitto – applicare i criteri di valutazione del codice civile, dell’Organismo italiano di contabilità (Oic) e dei principi internazionali (Ias/Irfs) recepiti in Europa.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte dopo una lunga camera di consiglio, nella seduta del 31.03.16, a pochi giorni dalla rimessione della questione da parte della V sez. penale della S.C. (appena il 3 marzo u.s.), hanno emesso un verdetto, che finalmente fa chiarezza rispetto alle contrastanti pronunce dei mesi scorsi sulla controversa questione dell’intervenuta abrogazione o meno del “falso valutativo” previsto dall’art. 2621 c.c., a seguito della riforma voluta dal legislatore con la legge n. 69/15.
Il quesito posto alle S.U. da parte della V sez. verteva sulla seguente questione: “Se la modifica dell’art. 2621 c.c. per effetto dell’art. 9 L. n. 69/15 nella parte in cui, disciplinando “le false comunicazioni sociali”, non ha riportato l’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”, abbia determinato o meno un effetto parzialmente abrogativo della fattispecie”.
In sostanza due pronunce della S.C. (la n. 33774/15 e la n. 6916/15) avevano optato per l’ipotesi parzialmente abrogativa, fondando il ragionamento principalmente sul dato letterale della norma riformata; mentre altre due pronunce (la 890/15 ed un’altra depositata il 30 marzo) avevano optato per l’ipotesi oggi sposata dalle S.U., secondo la quale permane il “falso valutativo” ma a determinate condizioni e quindi, ancorandolo non al mero arbitrio judicis, bensì a dati certi riscontabili nelle norme e nei regolamenti che governano il bilancio.
Sarà certamente interessante leggere le motivazioni integrali della pronuncia delle S.U. ma dall’informazione provvisoria N. 7 diffusa dalla S.C., si traggono importanti elementi in grado di definire i contenuti del – si spera – definitivo orientamento intrapreso dal giudice di legittimità.
Questo in sintesi il ragionamento svolto dalle S.U.:
– Il redattore del bilancio non può discostarsi consapevolmente dai principi di legge i dai principi contabili. In altri termini le valutazioni delle poste annuali di bilancio non possono essere lasciate alla libera “valutazione” dei redattori dello stesso, bensì’ vanno rigorosamente ancorati a criteri legislativi e normativo-regolamentari che governano la materia. Se si discosta dai suddetti criteri deve darne adeguata informazione e motivazione;
– I criteri ispiratori sono il principio di “rilevanza”, di “significatività” o “materialità”. Sono previsti dall’art. 2423 c.c. introdotto con il D.Lgs 139/15; dal principio n. 8 Oic; dagli artt. 1 e 8 Ias ed attiene ad un obbligo di rappresentazione veritiera e corretta del bilancio; esso è destinato alle società “chiuse” ossia alle società che non fanno ricorso al mercato del credito. Non c’è menzione alcuna all’art. 2622 c.c. destinato alle società aperte (quindi che fanno ricorso al mercato del credito e che possono anche essere valutate in borsa), presupposto questo che non può essere assurto a fondamento dell’ipotesi abrogativa del “falso valutativo”
– Quanto al principio di “rilevanza” nella relazione all’art. 2423 c.c. (introdotta con il D.lgs 127/91), il legislatore – con un gesto di onestà intellettuale – ha riconosciuto la oggettiva non veridicità “assoluta” del bilancio, considerato che esso è intriso di valutazioni, che ontologicamente possono variare da soggetto a soggetto, da criterio interpretativo a criterio interpretativo, da giurisprudenza a giurisprudenza di riferimento al momento della compilazione del bilancio stesso. Quindi i rilievi che le S.U. muovono all’orientamento soccombente (ossia che aveva sancito il de profundis del falso valutativo) è che ogni discostamento da quelli che sono i criteri e principi contabili va comunicato e motivato, altrimenti si cela mala fede e non rispondenza al vero sia esso materiale che valutativo e quindi si versa in ipotesi delittuosa.
Avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaCORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE, SENTENZA 5 NOVEMBRE 2014-DEP. 11 FEBBRAIO 2015, N. 6184
“Non è possibile per il sostituto del difensore, procuratore speciale del danneggiato dal reato, operare in udienza la costituzione di parte civile in assenza della procura speciale o della parte delegante”. La terza sezione penale della Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 6184 dell’11 febbraio 2015, avalla l’interpretazione più restrittiva del combinato disposto degli artt. 76, 78, 100 e 122 c.p.p., escludendo con tono perentorio che il difensore munito di procura speciale, da lui stesso autenticata, possa delegare al proprio sostituto processuale il potere di costituirsi nel giudizio penale in rappresentanza della parte civile. Tale orientamento si pone in netto contrasto con altre pronunce della Suprema Corte che hanno invero sancito il principio opposto, consentendo la sostituzione processuale, anche ai fini del deposito dell’atto di costituzione di parte civile, allorché la procura speciale conferita al difensore riconosca espressamente la facoltà di subdelega (fra tutte, Cass. pen., sez. V, 27 maggio 2014-dep. 11 luglio 2014, n. 30793). Nel vivace contrasto giurisprudenziale, la sentenza n. 6184/2015 spicca dunque per l’estremo rigore che ha indotto il giudice delle leggi a stabilire che, in ambito penale, «l’azione civile può essere esercitata soltanto da un procuratore speciale abilitato a costituirsi in nome e per conto del rappresentato, secondo le prescrizioni modali degli artt. 76, 78 e 122 cod.proc.pen., e non anche dal sostituto processuale (privo di procura speciale), il quale opera in maniera vicaria rispetto al difensore e non al procuratore speciale» e ciò in quanto “sono delegabili le attività defensionali e non i poteri di natura sostanziale”. Cosa fare allora in caso di insuperabile impedimento del difensore-procuratore speciale a partecipare all’udienza di costituzione delle parti? Al riguardo, la sentenza in esame fornisce una sorta di vademecum: a) la costituzione di parte civile può essere presentata dal difensore-procuratore speciale prima dell’udienza, ai sensi dell’art. 78, comma 2, c.p.p., ma in tal caso l’atto deve essere notificato alle altre parti processuali; b) sembra rimanere valida la costituzione di parte civile anche a mezzo di sostituto processuale, se avvenuta in presenza della persona offesa, nel qual caso deve ritenersi effettuata direttamente dal titolare del relativo diritto (in tal senso la sentenza de qua fa richiamo a Cass.pen., sez. III, 27.1.2006, n. 13699 e Cass.pen., sez. V, 3.2.2010, n. 19548. Contra Cass.pen., sez. V, 23.10.2009, n. 6680); c) il mandatario può procedere alla nomina di piùprocuratori speciali (dato che l’unicità del mandato al difensore è imposta, ex art. 100 c.p.p., ai soli fini processuali, e non limita, a fini sostanziali, la nomina di più procuratori speciali). La procura speciale rilasciata a più persone va però redatta, inderogabilmente, con atto di notaio o di altro pubblico ufficiale autorizzato ai sensi dell’art. 2703 c.c., dato che il difensore non può autenticare la procura speciale rilasciata ad altri oltre che a se stesso (art. 122, comma 1, c.p.p.). Ad ogni buon conto, ci sentiamo di consigliare sempre, ai fini della costituzione di parte civile, la presenza in aula del difensore-procuratore speciale della persona offesa, la cui legittimazione formale e sostanziale per gli adempimenti di cui agli artt. 76, 78 e 100 c.p.p. rimane l’unica certezza che l’altalenante giurisprudenza della Suprema Corte non ha mai osato mettere in discussione.
Avv. Angelo Sutera
ContinuaGIUDIZIALECONSULENZA L’ANTIRACKET STA FRENANDO, LE INCHIESTE LA DANNEGGIANO
Intervista al Mensile S – Live Sicilia n. 87
Da un quarto di secolo difende vittime del racket. Decine di imprenditori sostenuti, incoraggiati a ribellarsi alle estorsioni da Palermo ad Agrigento, da Trapani a Gela. Adesso Giuseppe Scozzari, un passato da parlamentare della Rete e poi del Ppi (diventando segretario regionale di entrambi i partiti), vede però una “stagnazione” nelle denunce. Effetto, secondo lo Scozzari-pensiero, del “momento difficile per il fronte antimafia”, colpito da inchieste che, “a prescindere dal merito”, hanno portato l’effetto di “delegittimare le persone che hanno avuto un ruolo in questo percorso”. Un percorso iniziato, appunto, oltre 25 anni fa: “Era il 1990 – ricorda – e si stava celebrando il processo ‘Bronx 1’, a Gela. Difesi il primo testimone di giustizia, Nino Miceli”.
Proprio Gela sta vivendo un momento di ribellione. Appena un mese fa le denunce degli imprenditori taglieggiati hanno portato a una retata…
“Sì, ma mi faccia partire dal 1990. Voglio raccontarle una sensazione per farle capire cosa intendo”.
Nino Miceli, diceva.
“Dopo l’uccisione, a Gela, di un gioielliere anti-racket Giordano , Nino Miceli decise di collaborare. Il mio nome gli fu segnalato da Leoluca Orlando ed Alfredo Galasso e così, giovanissimo, mi trovai alla Dda di Caltanissetta. Miceli aveva un autosalone e la cosa che mi colpì di più nella sua storia fu il doppio incendio che la sua azienda subì. Aveva subito il primo, poi aveva iniziato a pagare, poi era arrivato il secondo”.
Cosa era successo?
“Il primo era stato appiccato dalla mafia, il secondo dalla stidda. Gli dissero che doveva rivolgersi anche a loro. Vivere in quel modo, schiavi di una richiesta dopo l’altra, è impossibile. A quel punto decise di denunciare e si trasferì”.
In quel momento storico non era facile.
“No, non lo era. Eppure si stava creando un’attenzione crescente su Gela: il presidente della Repubblica Francesco Cossiga e il ministro degli Interni Vincenzo Scotti si erano battuti perché anche a Gela ci fosse un tribunale, e le forze dell’ordine inviarono i migliori uomini, ad esempio l’allora colonnello Domenico Tucci. Il clima era difficile, ma era l’inizio di una fase”.
E oggi? Oggi a che punto è quella fase?
“Oggi le istituzioni sono più rodate, le sacche di resistenza si riducono e lo Stato è più attento. È più facile”.
Davvero è più facile?
“Sulla carta sì, ma adesso sono di nuovo giorni complicati. Ci sono fasi di crescita e di regressione dei fenomeni sociali. Dopo l’exploit degli anni scorsi siamo tornati alla stagnazione”.
Perché, secondo lei?
“Oggi assistiamo a un momento difficile per il fronte antimafia. Io ho partecipato alla nascita di molti dei protocolli di legalità di Confindustria, ho assistito in molti processi i suoi associati che hanno denunciato le estorsioni. Vedere oggi quello che sta accadendo a tre figure come Antonello Montante, Roberto Helg e Silvana Saguto è triste”.
Si spieghi.
“Non entro nel merito, perché non conosco le carte. Però questi momenti creano sfiducia, portano alla delegittimazione dei protagonisti di una fase, indeboliscono con le polemiche collegate il percorso degli imprenditori. Destabilizzano la convinzione di chi si approccia a un mondo così difficile. Un mondo che nasconde grandi timori”.
Già. Mi racconti questo aspetto, questi timori.
“Un imprenditore che denuncia si pone essenzialmente due domande: una riguarda la famiglia, l’altra l’azienda. ‘Che succederà adesso a mio figlio?’. ‘Potrò continuare a lavorare?’. Ovviamente l’avvocato è lo sfogo di queste domande”.
Come risponde?
“Rispondo che la mafia non torcerà un capello alla famiglia”.
Facile dire così, senza che ci siano i propri figli di mezzo.
“Ma è vero. Non sono mai stato smentito: la mafia non ha interesse a colpire il parente di un testimone, perché peggiorerebbe la propria posizione. Un delitto sarebbe il riscontro definitivo alle denunce. È cinico, ma è vero”.
All’altra domanda cosa risponde? Cosa accadrà alle aziende?
“È ovvio che l’attività va avanti se sei bravo. A Palermo si dice ‘se sei tu ad aiutarti’: è chiaro che a quel punto bisogna cautelarsi con un antifurto, con un impianto di videosorveglianza, eccetera”.
Faccio l’avvocato del diavolo: è un costo, c’è la crisi.
“Chi decide di collaborare sa che questa decisione avrà un costo. Le dico di più: avrà tanti costi. Non bisogna nascondersi: è un percorso complicato. Questo, però, è il prezzo della libertà. Quanto vale la nostra libertà?”.
Chiaro. Torniamo al punto di partenza: come si inverte la stagnazione?
“Bella domanda. Le istituzioni devono fare la loro parte”.
Come?
“Gli enti locali devono condurre un’attività capillare, creando sinergie con le prefetture, con i sindaci e le associazioni di categoria per dare sicurezza”.
Mi faccia un esempio specifico, altrimenti non la seguo.
“Istituire comitati di sorveglianza e sicurezza, avviare sportelli antiracket per spiegare agli imprenditori in che modo lo Stato può assisterli dopo la denuncia, ad esempio attraverso le agevolazioni per l’accesso al credito. Bisogna far sentire la forza di uno Stato credibile. E poi ci sono le iniziative più specifiche, ad esempio quella dell’area industriale di Agrigento”.
Cosa è successo?
“Ad Agrigento Confindustria ha organizzato un sistema di videosorveglianza nell’area industriale. Per farlo, bisogna dire, ha trovato porte spalancate nel mondo delle istituzioni, come è giusto che accada. Sta di fatto che da allora nell’area industriale non ci sono stati fatti riconducibili al racket. Se lo Stato dimostra di essere in grado di tutelare la famiglia e l’azienda è fatta: tutte le paure dell’imprenditore svaniscono. Lo dobbiamo a chi crede nello Stato. Lo dobbiamo, se vogliamo invertire questa tendenza”.
SCHEDA
Prima la suggestione della magistratura. Poi la politica. Infine il ritorno al primo amore, la professione di avvocato che esercita ad Agrigento, Palermo, Milano e Verona dove ha studio con altri soci. Giuseppe Scozzari è tornato nel suo studio subito dopo la fine dell’esperienza politica: nel 1993 divenne consigliere comunale ad Agrigento e subito dopo segretario regionale della Rete, approdando alla Camera a ventinove anni, nel 1994. Rieletto nella legislatura successiva, non fu invece riconfermato nel 2001 (anno del 61 a 0), quando si presentò alle elezioni Politiche da segretario regionale del Ppi, perse il seggio per meno di 300 voti. Poi, dopo un breve passaggio alla presidenza dell’Udeur in Sicilia, il ritorno alla professione: “A quel punto – racconta adesso – ho deciso di abbandonare la politica. Me l’ha insegnato Orlando: quando vieni ‘silurato’ è meglio farsi da parte. Avevo, e ho, una professione che amo. Sono tornato a quella”.
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