RESPONSABILITÀ DELL’ENTE: IL MODELLO DI ORGANIZZAZIONE E GESTIONE DEVE ESSERE REALIZZATO “SU MISURA” PER CIASCUNA IMPRESA
La terza sezione penale della Corte di Cassazione, con sent. n.27148/2023, ha specificato le caratteristiche che deve presentare il modello di organizzazione e gestione ai fini dell’esclusione della responsabilità da reato dell’ente.
Ai sensi dell’art. 6 co.1, lett a) del d.lgs. 231/01, infatti, “l’ente non risponde se prova che l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”.
Con specifico riferimento al modello di organizzazione e gestione (MOG), il secondo comma dello stesso articolo precisa che lo stesso deve rispondere ad alcune esigenze, quali: individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati; prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire; prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli.
Come sottolineato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, “è ormai dato di comune esperienza che il modello di organizzazione e gestione debba essere realizzato «su misura» (taylored) per ciascuna impresa e per ogni diversa organizzazione”.
In particolare, la Corte ha chiarito che, soprattutto con riguardo alle peculiarità dei reati ambientali, per cui si pone la necessità di una mappatura del rischio in modo specifico per ciascun reato, l’ente deve dotarsi di un modello di organizzazione e gestione aderente alla struttura e all’attività dell’impresa.
Il MOG non può limitarsi a descrivere genericamente l’attività svolta e la conformità alle norme della gestione dei rifiuti, ma deve prevedere, in concreto, i compiti, le responsabilità individuali e gli strumenti volti a prevenire la commissione di reati contro l’ambiente.
Ai fini di una sua completa efficacia, inoltre, esso deve essere attuato tramite l’istituzione di un organismo di vigilanza (ODV) che sia dotato di concreti poteri di controllo.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaWHISTLEBLOWING: LE NOVITÀ IN MATERIA DI SEGNALAZIONE DI CONDOTTE ILLECITE
Il D.Lgs. 24/2023 (cd Decreto Whistleblowing), emanato in attuazione della Direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio, ha rafforzato la disciplina italiana in materia di segnalazione di condotte illecite, offrendo maggiori tutele ai cd whistleblower.
Il “whistleblower”, o “segnalante”, è colui che, testimone di un illecito o una irregolarità sul luogo di lavoro, decide di fare una segnalazione a riguardo.
Il Decreto si preoccupa di tutelare tali soggetti e di estendere l’ambito di applicazione dell’obbligo di attivare un sistema di segnalazione delle violazioni del diritto nazionale.
Tale obbligo, infatti, oggi grava, oltre che sui soggetti del settore pubblico, anche sugli enti privati che abbiano impiegato nell’ultimo anno almeno 50 lavoratori subordinati e su quelli con meno di 50 lavoratori dipendenti purché siano dotati di Modello organizzativo ex D.Lgs. 231/01 o si occupino di alcuni specifici settori (servizi e prodotti finanziari, sicurezza dei trasporti, tutela dell’ambiente ecc.).
Oggetto di segnalazione possono essere tutti quei comportamenti lesivi dell’interesse pubblico o dell’ente e che possono consistere, ad esempio, in illeciti amministrativi, contabili, civili, penali o illeciti rilevanti ai sensi del D.Lgs. 231 o violazioni del modello organizzativo.
Ogni impresa operante in Italia e rientrante nell’ambito di applicazione del “Decreto Whistleblowing” dovrà adeguarsi alla nuova disciplina, istituendo canali interni per consentire le segnalazioni, mettendo a disposizione dei segnalanti informazioni chiare e precise sulle procedure da seguire e sui presupposti per effettuare segnalazioni interne o esterne (attraverso il canale istituito dall’ANAC), predisponendo adeguate misure di tutela per i segnalanti, in particolare della loro riservatezza, al fine di evitare ritorsioni nei loro confronti (es. licenziamento, demansionamento, intimidazioni, ecc.).
Tale sistema di segnalazione, con il nuovo decreto, diventa un vero e proprio obbligo giuridico, sanzionabile dall’Autorità Nazionale Anticorruzione in caso di violazione.
Il termine per adeguarsi alle nuove disposizioni scade il 15 luglio 2023, per gli enti privati con 250 o più dipendenti (e per gli enti pubblici) e il 17 dicembre 2023 per gli enti privati con 50 o più dipendenti.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaLA RESPONSABILITÀ DELL’ENTE DEVE ESSERE ACCERTATA ANCHE IN CASO DI PRESCRIZIONE DEL REATO PRESUPPOSTO
Con la sentenza n. 21640/2023 la Corte di Cassazione ha ulteriormente specificato la portata del principio di autonomia della responsabilità dell’ente nel caso di declaratoria di prescrizione del reato presupposto.
La norma di riferimento è sancita dall’art. 8, co.1 lett. b) del D. Lgs. 231/01, il quale prevede che “la responsabilità dell’ente sussiste anche quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”.
In questo caso, infatti, l’accertamento della responsabilità dell’ente segue un “percorso processuale autonomo”, pur rimanendo ferma la necessità di procedere ad una verifica, anche incidentale, circa la sussistenza del fatto di reato.
La configurabilità della responsabilità dell’ente, pur essendo legata alla commissione di un reato da parte della persona fisica, si basa sulla valutazione di un “deficit di auto-organizzazione, vale a dire la carenza di quel complesso delle regole elaborate dall’ente per la prevenzione del rischio reato, che trovano la loro sede naturale nei Modelli di organizzazione, gestione e controllo”.
Il Giudice, quindi, deve procedere all’accertamento della sussistenza del reato presupposto e dell’eventuale responsabilità dell’ente, anche nel caso in cui tale reato sia dichiarato prescritto nei confronti della persona fisica imputata nel medesimo processo.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaPRINCIPIO DI AUTONOMIA DELLA RESPONSABILITÀ: LA RESPONSABILITÀ DELL’ENTE SUSSISTE ANCHE QUANDO L’AUTORE DEL REATO NON È STATO IDENTIFICATO
Con la sentenza n.10143/2023 la Corte di Cassazione ha ribadito un importante principio di diritto inerente l’annosa tematica della responsabilità dell’ente derivante da reato.
L’art.8 del D.Lgs. 231/01 dispone che “La responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”.
In base al citato articolo, il presupposto dell’affermazione della responsabilità dell’ente è la commissione di un fatto che costituisce reato da parte di un soggetto funzionalmente legato ad esso; con la conseguenza che, mancando tale presupposto, l’addebito all’ente collettivo deve essere escluso.
Pertanto, l’assoluzione delle persone fisiche “perché il fatto non sussiste” esprime una formula che accerta l’assenza del reato-presupposto, con conseguente esclusione della responsabilità dell’ente.
Diverso è, invece, il caso in cui la sentenza assolutoria ritenga che il fatto sussista, ma non sia ascrivibile alla responsabilità degli imputati. In questo caso, pur rimanendo non individuate le figure dei responsabili dell’accaduto, non discende automaticamente l’esclusione della responsabilità dell’ente.
Nella sentenza in commento la Suprema Corte ha quindi ribadito che: “ove in separato giudizio si sia pervenuti all’assoluzione della persona fisica per il reato presupposto, è sempre necessario verificare se la ricorrenza del fatto illecito sia stata accertata”.
Se il fatto sussiste, la responsabilità dell’ente deve essere affermata.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaVIOLAZIONE DISCIPLINA ANTINFORTUNISTICA: L’ESIGUITÀ DEL RISPARMIO DI SPESA NON ESCLUDE LA RESPONSABILITÀ DELL’ENTE
In materia di responsabilità da reato dell’ente, la Corte di Cassazione, con sent. n.33976/2022, ha stabilito che il criterio di imputazione oggettiva dell’illecito sussiste anche in presenza di un risparmio di spesa legato all’inosservanza della disciplina antinfortunistica esiguo, ma apprezzabile.
Perché possa configurarsi la responsabilità dell’ente, è necessario che il reato sia commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, come stabilito dall’art. 5 del D.Lgs. 231/01, che fissa i criteri di imputazione oggettiva della responsabilità.
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce che il vantaggio per l’ente può derivare anche dalla inosservanza delle prescrizioni cautelari.
In particolare, qualora dalla commissione di un reato derivante dalla trasgressione della normativa antinfortunistica discenda un vantaggio per l’ente, la sua responsabilità deve essere affermata anche se si tratta di un vantaggio esiguo (ad es. in termini di risparmio di spesa) e pur in assenza di una sistematicità delle violazioni.
Il vantaggio, infatti, deve essere ritenuto comunque apprezzabile allorché sia collegato al mancato rispetto delle regole cautelari “a prescindere da una astratta valutazione aritmetica della spesa non sostenuta rispetto alle capacità patrimoniali dell’ente ovvero alle maggiori somme da questi impiegate per la tutela della sicurezza dei lavoratori”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaRESPONSABILITÀ DA REATO DELL’ENTE. NECESSARIA LA “COLPA DI ORGANIZZAZIONE” OLTRE ALLA MANCANZA O INIDONEITÀ DEL MODELLO DI ORGANIZZAZIONE
Con la sent. n.21704/2023 la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di responsabilità da reato degli enti.
In particolare, la Suprema Corte ha stabilito che, ai fini della configurabilità di detta responsabilità, è necessaria la dimostrazione della cd “colpa di organizzazione”, che è distinta dalla colpa degli autori del reato e si fonda sul “rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo”.
Da ciò deriva che, al fine di scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva, deve essere accertato che l’ente non abbia adottato tutte le misure idonee ad impedire la commissione di reati; misure che devono essere consacrate in un apposito modello organizzativo.
Spetta all’accusa dimostrare l’esistenza di un “deficit organizzativo” dell’ente che consente di affermare l’imputazione allo stesso dell’illecito penale realizzato dalla persona fisica inserita nella compagine organizzativa.
Fermo restando che detta responsabilità sussiste allorquando la persona fisica abbia agito procurando un effettivo ed apprezzabile vantaggio a favore dell’ente.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaAmministratore di fatto. Responsabilità penale. Reati tributari.
La Suprema Corte con la sentenza 36556/22 si occupa ancora una volta della responsabilità penale dell’amministratore di fatto relativamente alle fattispecie di reati fiscali.
La Corte ribadisce: affinché un soggetto sia qualificato amministratore di fatto non deve avere in capo a se tutti i poteri ma è sufficiente che ci sia una rilevante e continuativa attività gestoria. In altri termini nel caso di reati fiscali risponde anche “l’amministratore di fatto” se questi gestisce l’azienda, non in modo episodico ma con continuità in ambiti rilevanti dell’azienda, non è stato ritenuto necessario dalla S.C. che “l’amministratore di fatto” abbia in capo a se la gestione totalizzante dell’azienda.
La vicenda sottoposta alla Corte riguardava i reati di cui al dlgs 74/00 ossia dichiarazione fraudolenta, mediante artifici, infedele e falsa fatturazione.
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on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaReati fiscali. Confisca. Si al patteggiamento tranne se obbligatoria. Dichiarazione fraudolenta. Fattura false.
La Suprema Corte con la sentenza n. 25317/23 (1^ pronuncia sul tema) ha precisato che la nuova formulazione dell’art. 444 cpp (Patteggiamento – modificato dalla Cartabia) non consente il patteggiamento nei casi di confisca obbligatoria. La riforma ha reso possibile, nel caso di pena concordata, l’accordo anche sulle questioni accessorie (ad es. confisca) alla pena. Il patteggiamento nella nuova formulazione ha effetti anche in ambito disciplinare. La Corte però ribadisce che si concorda anche sulla confisca solo se questa è facoltativa.
La S.C. specifica, inoltre, che l’accordo tra difesa e accusa deve riguardare l’oggetto della confisca o l’ammontare complessivo.
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on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaPIGNORAMENTO PRESSO TERZI: NECESSARIA RITUALITÀ DELLA DICHIARAZIONE EX ART. 547 C.P.C.
La Corte di Cassazione, con sent. n. 16005 del 07.06.2023, ha ribadito la necessità del rispetto delle forme previste dall’art. 547 c.p.c. ai fini della dichiarazione di quantità del terzo, nel pignoramento presso terzi.
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha accolto il ricorso presentato dal creditore procedente che ha lamentato la violazione dell’art. 547 c.p.c. da parte del Tribunale. Quest’ultimo, con ordinanza, aveva accolto l’opposizione agli atti esecutivi presentata dal terzo pignorato, sulla base del fatto che la dichiarazione effettuata da quest’ultimo, benché irrituale (in quanto effettuata a mezzo telefax), era stata comunque ricevuta dal destinatario.
Ritiene la Corte che, in ragione della natura formale della dichiarazione di quantità, la stessa debba essere effettuata osservando le modalità previste dal legislatore all’art.547 c.p.c. In particolare, in base alla lettera della norma, la dichiarazione del terzo deve essere effettuata “a mezzo raccomandata inviata al creditore procedente o trasmessa a mezzo di posta elettronica certificata”.
Occorre considerare che, in tale sede, non viene in rilievo un mero rapporto epistolare tra procedente e terzo pignorato, risolvibile alla stregua dei comuni canoni in ordine alla prova delle comunicazioni, ma il terzo assume la funzione di vero e proprio ausiliario del giudice (Cass. n.13143/2017).
Per cui, come sostenuto dalla Corte nella sentenza in esame, l’alternativa è secca: o detta comunicazione viene effettuata a mezzo lettera raccomandata o a mezzo PEC, “oppure, qualora effettuata con mezzi diversi da quelli indicati dalla citata disposizione e comunque non idonei a dimostrare immediatamente ed incontestabilmente l’esistenza e il contenuto della dichiarazione stessa, essa è da considerarsi tamquam non esset”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaRIFORMA CARTABIA: POSSIBILITÀ DI ACCEDERE AI BENEFICI PENITENZIARI ANCHE IN ASSENZA DI COLLABORAZIONE CON LA GIUSTIZIA.
In tema di benefici penitenziari, la Riforma Cartabia ha modificato l’art. 4 bis co.1 bis ord. pen. prevedendo la possibilità di concederli anche in assenza di collaborazione con la giustizia da parte dei detenuti, “purché gli stessi dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento”. In questo modo, ai fini della concessione di tali benefici, il giudice deve tener conto di specifici elementi volti ad escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità e del pericolo di un loro rispristino, indipendentemente dalla collaborazione con la giustizia del condannato.
Tale norma si è rivelata centrale in una recente pronuncia della Corte di Cassazione, la sent. n. 23556/2023, con cui la stessa ha annullato l’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva rigettato la richiesta di permesso premio avanzata da un condannato.
La decisione annullata si basava sulla natura ostativa dei reati commessi, perpetrati, peraltro, in contesto di ndrangheta, e sull’assenza di una revisione critica del proprio operato da parte del condannato.
In particolare, il Tribunale aveva sottolineato come dalla perdurante proclamazione di innocenza e di estraneità ai fatti da parte del ricorrente, oltre che dalla mancata collaborazione con la giustizia, non potesse trarsi un’effettiva interruzione dei suoi legami con il tessuto criminale e, quindi, il superamento della presunzione di pericolosità sociale. Sulla base di questi presupposti, il Tribunale aveva negato la possibilità di accedere al beneficio.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso presentato dalla difesa, sottolineando come il Tribunale di Sorveglianza non avesse fatto buon governo dei principi in materia.
Infatti, in base al principio enunciato più volte dalla giurisprudenza di legittimità, il Giudice di sorveglianza, ai fini della concessione dei benefici penitenziari, è tenuto ad effettuare “un esame in concreto di elementi di fatto “individualizzanti”, circa il percorso rieducativo compiuto dal detenuto” e deve accordare la richiesta anche in caso di mancanza di elementi di prova che dimostrino l’assenza di legami con la criminalità organizzata, “essendo a tal fine sufficiente l’allegazione di elementi fattuali che, anche solo in chiave logica, siano idonei a contrastare la presunzione di perdurante pericolosità sancita dalla legge”.
Secondo la Cassazione, risulta fondamentale il fatto che il condannato abbia tenuto una condotta inframuraria commendevole, aspetto non tenuto in considerazione dal Tribunale di Sorveglianza. Quest’ultimo è chiamato, infatti, a compiere un “concreto bilanciamento fra gli elementi connotanti la caratura criminale dei fatti commessi ed il percorso rieducativo portato avanti”, coerentemente ai principi costituzionali in tema di funzione rieducativa della pena, a nulla rilevando la scelta della mancata collaborazione.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
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