D.LGS.231/01 IMPOSSIBILE EMENDARE LA MANCANZA DI MOTIVAZIONE DEL SEQUESTRO PREVENTIVO IN SEDE DI RIESAME
Con la sentenza n.8664/2024, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in materia di misure cautelari nei procedimenti inerenti la responsabilità amministrativa derivante da reato ex Decreto 231.
Dopo aver ribadito, con la recente sentenza n. 14047/2024, la necessità di un’adeguata motivazione in relazione alle esigenze cautelari del decreto di sequestro preventivo disposto a carico di una società, la Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha escluso la possibilità di “sanare” l’assenza di motivazioni in sede di riesame.
Sottolinea la Corte che è necessario che il provvedimento genetico di applicazione o di convalida della misura presenti una motivazione che dia conto degli elementi posti a fondamento, fin dal momento della sua emissione, al fine di consentire al Tribunale del riesame la funzione di controllo. In quest’ultima sede, pertanto, non sarà possibile integrare, sanandolo eventualmente, il provvedimento cautelare non motivato.
Dal momento che nel sistema punitivo previsto dal D. Lgs.231/01 il sequestro preventivo finalizzato alla confisca si presenta come un’anticipazione della sanzione, e che, inoltre, può avere un’incidenza tale da produrre effetti irreversibili per la sopravvivenza dell’ente, il provvedimento deve necessariamente contenere un’adeguata motivazione anche del “periculum in mora” da rapportare alle ragioni che lo rendono necessario.
Di conseguenza, il vizio della totale assenza della motivazione in relazione al pericolo di dispersione dei beni da confiscare, non può trovare rimedio in sede di riesame non trattandosi di “errata interpretazione di norme di legge, suscettibili di correzione in sede di riesame, bensì a una violazione dell’obbligo di motivazione posto a carico del giudice della cautela, con riferimento al pericolo di dispersione o sottrazione dei beni da sottoporre a sequestro preventivo finalizzato alla loro confisca”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS.231/01 LA PROPOSTA DELLA REGIONE PUGLIA: OBBLIGO DI ADOZIONE DEL MODELLO ORGANIZZATIVO PER ESIMERSI DA RESPONSABILITÀ
La settima Commissione del Consiglio Regionale della Puglia, lo scorso 10 aprile, ha dato parere favorevole alla proposta di legge “Interventi regionali per la promozione e l’adozione del Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo, ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n.231”.
Tale proposta mira a rafforzare l’adozione dei Modelli 231 da parte delle società, rendendola una condizione necessaria per esimersi da responsabilità amministrativa in caso di illeciti, nonché per la partecipazione a gare pubbliche e per l’ottenimento di erogazioni pubbliche.
In caso di approvazione della proposta, entro il termine di sei mesi dalla sua entrata in vigore, i soggetti interessati avranno l’obbligo di adottare Modelli di Organizzazione, Gestione e Controllo e di provvedere, inoltre, alla nomina dell’Organismo di Vigilanza.
In questo modo, verrebbe introdotto, a livello regionale, un obbligo che non vige a livello nazionale. Infatti, il D. Lgs.231/01, lascia alle singole società la scelta di dotarsi o meno di Modelli 231.
L’obiettivo della proposta è quello di rafforzare l’adozione di strumenti che si rivelano fondamentali per assicurare una gestione e un controllo aziendale efficaci e per promuovere la legalità e la trasparenza.
Per questo motivo, proposte come quella in commento, devono essere accolte positivamente, in quanto in grado di animare il dibattito in tema di responsabilità amministrativa degli enti e condurre ad un risvolto significativo in termini di rafforzamento e diffusione degli strumenti previsti dal Decreto 231.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaINFORTUNI SUL LAVORO. OBBLIGO DI DILIGENZA RAFFORZATA SUL DATORE PER ESIMERSI DA RESPONSABILITÀ
La IV Sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12326/2024, si è espressa sulla delicata questione degli infortuni sul lavoro e sulla responsabilità del datore.
Nella pronuncia in esame, infatti, viene messo in evidenza che non basta la mera negligenza del lavoratore per escludere la responsabilità dell’azienda in caso di incidenti sul lavoro.
Fermo restando che grava sull’imprenditore-datore di lavoro l’obbligo di approntare tutte le necessarie misure di sicurezza, volte ad impedire il verificarsi di sinistri, tra cui rientra anche l’obbligo di formare adeguatamente i lavoratori e di predisporre adeguati strumenti di salvaguardia, il datore non è liberato da responsabilità se non si accerti anche del loro concreto rispetto da parte del lavoratore e non preveda la possibilità di un suo comportamento negligente.
Al datore di lavoro viene quindi richiesto di prevedere le possibili distrazioni e imperizie del lavoratore.
Al fine di interrompere il nesso causale tra la responsabilità del datore e l’evento dannoso è necessario che il lavoratore ponga in essere una condotta negligente, imprudente e che presenti i caratteri “dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive di organizzazione ricevute”.
Il comportamento del lavoratore, insomma, deve essere particolarmente sconsiderato per costituire un’esimente della responsabilità datoriale.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS. 231/01 IL SEQUESTRO PREVENTIVO FINALIZZATO ALLA CONFISCA DEVE ESSERE ADEGUATAMENTE MOTIVATO
La Sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sent. n. 14047/2024, ha sottolineato che anche nei processi riguardanti la responsabilità degli enti ex Decreto 231, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca deve necessariamente essere motivato in merito alle esigenze cautelari.
Anzi, tale obbligo motivazionale, secondo la Suprema Corte, sussiste a fortiori nelle ipotesi di sequestro preventivo avente ad oggetto il patrimonio dell’ente, in quanto tale misura sarebbe potenzialmente in grado di provocare effetti irreversibili rispetto alla sopravvivenza dell’ente stesso.
Tale situazione si verifica tutte le volte in cui il sequestro abbia ad oggetto beni e risorse necessari per la prosecuzione dell’attività aziendale.
Proprio in ragione della peculiarità della responsabilità ex D. Lgs.231/01, l’incidenza del sequestro finalizzato alla confisca, è tale da richiedere garanzie rafforzate e non certo inferiori rispetto a quanto previsto dalla normativa generale in tema di sequestro preventivo contenuta nell’art. 321 c.p.p.
L’esigenza di un’adeguata motivazione, precisa la Corte, non viene meno neanche qualora la capienza del patrimonio dell’ente risulti priva di particolare significato, in quanto il decreto di sequestro preventivo “richiede una specifica motivazione in ordine alle ragioni per le quali i beni suscettibili di apprensione, potrebbero, nelle more del giudizio, essere modificati, dispersi, deteriorati, utilizzati o alienati, tenendo conto della tipologia dei beni presenti nel patrimonio del destinatario della confisca, senza che, tuttavia, le esigenze cautelari possano essere desunte esclusivamente dall’incapienza del patrimonio rispetto al presumibile ammontare della confisca”.
Infatti, è la stessa natura delle misure cautelari che richiede la ricorrenza dei requisiti del fumus e del periculum e non vi è alcuna ragione, conclude la Cassazione, “per ritenere che il decreto di sequestro, adottato ai sensi dell’art.53 d.lgs. n. 231 del 2001, non debba contenere la sia pur sintetica motivazione in ordine alle esigenze cautelari che il sequestro mira a tutelare”.
Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS.231/01 PER LA CASSAZIONE INAMMISSIBILE LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE CONTRO L’ENTE
La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sent. n.3211/2024, ha riaffermato l’inammissibilità dell’istituto della costituzione di parte civile nei processi inerenti la responsabilità da reato dell’ente. Si tratta di un principio che la Suprema Corte aveva già sostenuto in numerose precedenti pronunce e che si basa, fondamentalmente, nella mancata previsione dello stesso all’interno del D. Lgs.231/01.
Già nel 2011, con la sent. n. 2251, la Cassazione aveva espressamente stabilito l’impossibilità di operare un’interpretazione analogica o estensiva delle norme del codice di procedura penale al fine di ammettere la costituzione di parte civile nei processi contro l’ente.
Sulla stessa scia si pone la sentenza in commento, che ribadisce che la mancata previsione dell’istituto non è da ricondurre ad una lacuna normativa ma ad una consapevole scelta del legislatore.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, “nel processo instaurato per l’accertamento della responsabilità da reato dell’ente non è ammissibile la costituzione di parte civile, atteso che l’istituto non è previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001 che in ogni sua parte non fa mai riferimento alla parte civile o alla persona offesa”.
La mancata previsione dell’istituto, sarebbe riconducibile ad una “scelta consapevole del legislatore, che ha voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla regolamentazione codicistica” in quanto “l’illecito amministrativo ascrivibile all’ente non coincide con il reato, ma costituisce qualcosa di diverso, che addirittura lo ricomprende, sicché deve escludersi che possa farsi un’applicazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che invece contengono un espresso ed esclusivo riferimento al reato in senso tecnico”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS.231/01 RESPONSABILITÀ DELL’ENTE E CRITERI DI IMPUTAZIONE IN CASO DI INFORTUNI SUL LAVORO
La terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n.4210/2024, ha stabilito che si configura la responsabilità da reato dell’ente ex d.lgs.231/01 in caso di violazione della normativa cautelare perpetrata allo scopo di conseguire un’utilità per l’ente.
In particolare, la Suprema Corte ha chiarito quali sono i criteri di imputazione in tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica.
Tali criteri sono previsti dall’art.5 del Decreto 231 e sono rappresentati dall’“interesse” o “vantaggio” derivanti all’ente dalla commissione del reato presupposto.
In particolare, sostiene la Corte che detti criteri ricorrono, rispettivamente, “il primo, quando l’autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l’ente, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento, e, il secondo, qualora l’autore del reato abbia violato sistematicamente le norme antinfortunistiche, ricavandone oggettivamente un vantaggio per l’ente, sotto forma di un risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso”.
Inoltre, ai fini della configurabilità della responsabilità dell’ente, non rileva l’esiguità del vantaggio o la scarsa consistenza dell’interesse perseguito, dal momento che anche la mancata adozione di cautele che comportino anche il minimo risparmio di spesa può comportare la commissione di reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS. 231/01 L’ENTE RISPONDE PER “FATTO PROPRIO” SE NON VENGONO ADOTTATI ACCORGIMENTI IDONEI AD EVITARE LA COMMISSIONE DI REATI
La Corte di Cassazione, con la sentenza n.1971/2024, ha ulteriormente rafforzato un principio già consolidato in tema di responsabilità da reato dell’ente.
Ai fini della configurabilità di detta responsabilità, sostiene la Suprema Corte, non basta la mancanza o l’inidoneità di modelli di organizzazione, essendo altresì necessaria la cd “colpa di organizzazione”.
Il concetto di “colpa di organizzazione”, più volte richiamato dalla Cassazione nelle pronunce riguardanti la responsabilità dell’ente, deve essere tenuta distinta dalla colpa degli autori del reato.
La struttura dell’illecito addebitabile all’ente è infatti incentrata sul reato presupposto e permette di escludere che possa essere attribuito all’ente un reato commesso sì da soggetto incardinato nell’organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questa. Il legislatore, infatti, all’art. 5 d.lgs.231/01, ha richiesto quale presupposto di imputazione della responsabilità all’ente, che il reato sia commesso nel suo interesse o a suo vantaggio.
La “colpa di organizzazione” richiesta ai fini dell’affermazione della responsabilità in capo all’ente è da intendere in senso “normativo”, ricollegata cioè al rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione di reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità dell’ente.
Ciò consente di affermare che “l’ente risponde per “fatto proprio” e che – per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva – deve essere verificata una “colpa di organizzazione” dell’ente, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaCORTE COSTITUZIONALE Sent. N. 41/24. Affermato un principio di grande civiltà giuridica. Il decreto di archiviazione non deve contenere motivazioni incriminanti. Pena gravi responsabilità del magistrato richiedente o emittente.
Secondo la Consulta il provvedimento e\o il decreto di archiviazione che contiene elementi che fanno presupporre la colpevolezza dell’indagato viola «in maniera eclatante», sia la presunzione di non colpevolezza (art. 27, co. 2° Cost.), che il diritto di difesa.
La Consulta è durissima laddove precisa che nell’ipotesi in cui l’archiviazione dovesse contenere elementi incriminanti che «sono in concreto suscettibili di produrre, ove per qualsiasi ragione arrivino a conoscenza dei terzi, come spesso accade, gravi pregiudizi alla reputazione, nonché alla vita privata, familiare, sociale e professionale, delle persone interessate. Ciò che, in ipotesi, potrebbe dare altresì luogo a responsabilità civile e disciplinare dello stesso magistrato» che ha richiesto o emesso il provvedimento.
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on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS.231/01 APPLICABILE LA DOPPIA SANZIONE SE GLI ILLECITI NON SONO SOVRAPPONIBILI
La legge delega fiscale (L. n.111/2023) mira ad una revisione del sistema sanzionatorio, penale e amministrativo, puntando ad una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione. Il fine della legge è quello di giungere ad una completa attuazione del principio del ne bis in idem, che si configura quando i fatti contestati siano giuridicamente identici nei propri elementi strutturali.
Tale situazione, con riferimento al rapporto tra i procedimenti amministrativo e penale eventualmente scaturenti da violazioni di natura fiscale, è regolata dal D. Lgs.74/2000 il quale, introducendo il principio di specialità, prevede che quando una medesima violazione è punita da una sanzione penale e da una sanzione amministrativa “si applica la disposizione speciale” (“in concreto, il più delle volte risulterà speciale la norma penale”, così C.M. 4 agosto 2000, n.154).
Questo principio, nella realtà, non ha mai trovato effettiva applicazione, innanzitutto perché è necessaria l’identità del trasgressore. Pertanto, in concreto, sembrerebbe operare solo per le violazioni commesse nell’ambito di imprese individuali, artisti o professionisti ovvero associazioni o enti privi di personalità giuridica, con conseguente esclusione di tutte le violazioni tributarie costituenti reato commesse da società, in quanto per la parte fiscale ne risponde l’ente e per quella penale la persona fisica.
A tale riguardo, la bozza di decreto delegato introduce nel D. Lgs.74/2000 l’art. 21 ter, puntando ad estendere il principio di specialità anche nel rapporto tra la sanzione tributaria e la corrispondente sanzione amministrativa dipendente da reato ex D. Lgs.231/01. Tale bozza, tuttavia, non sembra essere molto efficace. Non vengono superate, infatti, le criticità già presenti nell’attuale disciplina, in quanto, anche in questo caso, per evitare la doppia sanzione sarà necessaria la perfetta coincidenza tra i due illeciti, eventualità esclusa dalla Cassazione che ha sempre ritenuto le violazioni non sovrapponibili.
Un tentativo di superamento di tale problema da parte del legislatore delegante deriva dalla previsione secondo cui, se per lo stesso fatto è stata applicata al soggetto una sanzione penale o una sanzione amministrativa o una sanzione amministrativa dipendente da reato ex Decreto 231, il giudice o l’autorità amministrativa, al momento della determinazione della sanzione di propria competenza, tiene conto di quelle già applicate. Da ciò emerge chiaramente che la norma si presenta come una disposizione di principio che lascia ampi margini di discrezionalità al giudice e all’autorità amministrativa e che porta a ritenere difficilmente superabile il problema della “doppia sanzione”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaD.LGS.231/01 L’ISTITUTO DELLA MESSA ALLA PROVA NON TROVA APPLICAZIONE NEI PROCEDIMENTI INERENTI LA RESPONSABILITÀ DELL’ENTE
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n.14840/2022, hanno risolto la questione interpretativa riguardante l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova di cui all’art. 168 bis c.p. ai procedimenti riguardanti la responsabilità da reato dell’ente ex Decreto 231.
A fronte degli orientamenti contrastanti dei giudici di merito sul tema, le Sezioni Unite hanno risolto negativamente la questione concludendo nel senso della inapplicabilità dell’istituto in esame ai procedimenti riguardanti l’ente.
Il ragionamento della Suprema Corte prende le mosse dall’analisi della natura della responsabilità da reato dell’ente, che viene considerata un tertium genus rispetto ai modelli tradizionali di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa. Infatti, il sistema normativo introdotto dal D. Lgs.231/01, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, costituisce un corpus normativo di peculiare impronta. D’altro canto, sempre nella medesima pronuncia si evidenzia che la messa alla prova ex art. 168 bis c.p. deve, invece, inquadrarsi nell’ambito di un “trattamento sanzionatorio” penale.
Di conseguenza, conclude la Corte, che “l’istituto della messa alla prova non può essere applicato agli enti, a ciò ostando, innanzitutto, il principio della riserva di legge di cui all’art. 25, comma 2, della Costituzione. L’introduzione attraverso provvedimenti giurisdizionali di un trattamento sanzionatorio ad una categoria di soggetti – gli enti – non espressamente contemplati dalla legge penale, si pone in contrasto con il principio di legalità della pena, del quale la riserva di legge costituisce un corollario”.
Inoltre, a parere della Corte, la messa alla prova sarebbe insuscettibile di trovare applicazione nei confronti dell’ente, in quanto la disciplina di cui all’art. 168 bis c.p. è disegnata e modulata specificamente sull’imputato persona fisica e sui reati allo stesso astrattamente riferibili.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
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