COVID-19: NON SUSSISTE LA FALSITA’ DELL’AUTOCERTIFICAZIONE ATTESTANTE UNA INTENZIONE.
“Sebbene non vi siano dubbi circa il fatto che l’intenzione dichiarata dall’imputato nel modulo di autocertificazione non abbia trovato riscontro nei successivi accertamenti della Polizia giudiziaria va, tuttavia, escluso che tale falsità integri gli estremi del delitto di cui all’imputazione in quanto l’art. 483 c.p. incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
Il GIP del Tribunale di Milano, Dott. Crepaldi, così si è pronunciato con sentenza del 16.11.2020 sulla falsità in autocertificazione e divieti di spostamento causa COVID-19 delle attestazioni circa le proprie intenzioni di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una determinata attività; la sentenza in particolare critica la possibilità di far rientrare nell’ambito di operatività della fattispecie di falsità in autocertificazione ex art. 483 c.p. con specifico riferimento alle attestazioni circa le proprie “intenzioni” di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una determinata attività.
Nel caso concreto, all’imputato veniva contestata la fattispecie di cui all’art. 76 DPR 445/2000 in relazione all’art. 483 c.p. poiché, in sede di autodichiarazione consegnata ai alle Autorità, nell’ambito dei controlli sul rispetto delle misure di contenimento COVID-19, riferiva che si stava recando “presso un collega per ritirare dei pezzi di ricambio”, circostanza questa poi rivelatasi non vera a seguito delle indagini effettuate dalla stessa Autorità.
Oggetto di valutazione del Giudice meneghino riguardava, pertanto, la circostanza (che lo stesso si stava recando presso un collega per ritirare dei pezzi di ricambio) poi rivelatasi non vera a seguito di accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria.
Brevemente, le norme richiamate sono:
1) l’art. 483 c.p. (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico) che punisce “chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni”;
2) l’art. 76 DPR 445/2000 (Norme penali) che punisce: “1. chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia; 2. l’esibizione di un atto contenente dati non più rispondenti a verità equivale ad uso di atto falso; 3. le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 e le dichiarazioni rese per conto delle persone indicate nell’articolo 4, comma 2, sono considerate come fatte a pubblico ufficiale; 4. se i reati indicati nei commi 1, 2 e 3 sono commessi per ottenere la nomina ad un pubblico ufficio o l’autorizzazione all’esercizio di una professione o arte, il giudice, nei casi più gravi, può applicare l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione e arte”.
Il Giudice richiamava, facendolo proprio, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “sono estranei all’ambito di applicazione dell’art. 483 c.p. le dichiarazioni che non riguardino “fatti” di cui può essere attestata la verità hic et nunc ma che si rivelino mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi”; lo stesso Giudice osservava come tale orientamento veniva confermato nel caso di specie:
1) in relazione al dato testuale, “giacché la nozione di “fatto” non può che essere riferita a qualcosa che già è accaduto ed è perciò, già in quel preciso istante, suscettibile di un accertamento, a differenza della intenzione, la cui corrispondenza con la realtà è verificabile solo ex post”;
2) in ordine al profilo teleologico, “giacché la norma è finalizzata ad incriminare la dichiarazione falsa del privato al pubblico ufficiale in relazione alla sua attitudine probatoria, attitudine che evidentemente non può essere riferita ad un evento non ancora accaduto”;
3) ancora, in un’ottica sistematica, “dalla stessa normativa in tema di autocertificazioni, all’interno della quale i “fatti” sono indicati, quale oggetto di possibile dichiarazione probante del privato, insieme agli stati e alle qualità personali, vale a dire a caratteristiche del soggetto già presenti al momento della dichiarazione”.
Continua ancora la sentenza, “come recentemente osservato da autorevole dottrina il nostro ordinamento non incrimina qualunque dichiarazione falsa resa ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio ma costruisce i reati di falso secondo una sistematica casistica: ne consegue che il rilievo della falsa dichiarazione è legato all’individuazione di una specifica norma che dia rilevanza al contesto e alla singola dichiarazione, la dichiarazione di una mera intenzione nell’ambito di un modulo di autocertificazione non può rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 483 c.p., limitato ai soli “fatti” già occorsi”.
Alla luce di quanto espresso, conclude il provvedimento, “mentre l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de quo, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certa attività non può essere ricompresa nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
In conclusione, il reato previsto ex art. 483 c.p. non sussiste e non può operare qualora l’autocertificazione rilasciata all’Autorità, in particolare in occasione dei controlli relativi alle misure di contenimento del COVID-19, esprima una intenzione o una mera volontà del soggetto dichiarante poiché l’ordinamento punisce (con la norma richiamata) il soggetto che rilasci dichiarazioni (false o mendaci) attestanti un fatto, quale può essere la sussistenza di un requisito o di una situazione fattuale già occorsa, in un atto che è destinato a provare la veridicità del fatto stesso.
Dott. Biagio Cimò