ABUSO D’UFFICIO E PROVA DEL DOLO INTENZIONALE. LA CASSAZIONE DETTA LE REGOLE.
E’ nota la linea interpretativa tracciata – ormai da tempo – dalla Suprema Corte di Cassazione, secondo la quale la prova del dolo intenzionale che qualifica l’elemento psicologico del reato di abuso d’ufficio non richiede l’accertamento di un accordo collusivo con la persona che si intende favorire. L’intenzionalità del vantaggio ingiusto, infatti, può ben prescindere dalla volontà di favorire specificatamente il privato interessato alla singola vicenda amministrativa ed essere, invece, desunta anche da ulteriori elementi, quali “ad esempio la macroscopica illegittimità dell’atto compiuto o da un’erronea interpretazione di una norma amministrativa, il cui risultato si discosti in termini del tutto irragionevoli dal senso giuridico comune, tanto da apparire frutto di una decisione arbitraria”. Ciò è stato recentemente ribadito dalla VI sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 43287/2018. Già in passato l’esigenza di evitare il dilagare di incriminazioni per abuso d’ufficio – a causa della genericità della formulazione della normativa – aveva portato il legislatore alla riscrittura di tale fattispecie di reato ad opera della legge 234/1997. Fra gli elementi di maggior rilievo per la configurabilità del reato di cui all’art. 323 c.p. previsti dalla riforma si ravvisano, oggi, la violazione di norme di legge o di regolamento, la previsione della nuova figura di abuso d’ufficio per la violazione dell’obbligo di astensione (in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o in altri casi prescritti) e la punibilità a titolo di dolo intenzionale generico. Infatti, l’ingiusto vantaggio o il danno ingiusto, anche non patrimoniale, non costituiscono più il fine perseguito dal reo, ma l’evento del reato. Pertanto, per la sussistenza dell’elemento psicologico del reato non è sufficiente che il soggetto attivo agisca con dolo diretto (cioè che si rappresenti l’evento come verificabile con elevato grado di probabilità), né che agisca con dolo eventuale (cioè che accetti il rischio del suo verificarsi). E’, invece, necessario che l’evento di danno o quello di vantaggio sia voluto o realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta e non risulti semplicemente realizzato come risultato accessorio di questa. Ricostruita in tal senso la configurabilità dell’elemento soggettivo, va pertanto, evidenziato che – secondo un ormai diffuso orientamento della giurisprudenza di legittimità – il dolo intenzionale del reato di abuso di ufficio deve escludersi quando l’agente, pur nella consapevolezza dell’illegittimità del proprio agire e del relativo ingiusto vantaggio patrimoniale di natura privata così realizzato, abbia inteso – in ogni caso – soddisfare un concomitante interesse pubblico di preminente rilievo. L’intenzionalità del dolo esige, quindi, la prova della certezza che la volontà dell’agente sia diretta a procurare – a sé o ad altri – un danno ingiusto o un ingiusto vantaggio patrimoniale; certezza che – ad ogni buon conto – non può unicamente essere desunta dal comportamento non iure tenuto dallo stesso, ma che deve trovare, piuttosto, conferma anche in altri elementi sintomatici, che mettano in evidenza l’effettiva ratio ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza professionale dall’agente, l’apparato motivazionale del provvedimento adottato, il contesto e la portata dei rapporti personali tra l’agente ed il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono un vantaggio patrimoniale o subiscono un danno (Cfr. Cass. n. 21192/2013).
Dott.ssa Mariagrazia Broccia