GIUDIZIALECONSULENZA L’ANTIRACKET STA FRENANDO, LE INCHIESTE LA DANNEGGIANO
Intervista al Mensile S – Live Sicilia n. 87
Da un quarto di secolo difende vittime del racket. Decine di imprenditori sostenuti, incoraggiati a ribellarsi alle estorsioni da Palermo ad Agrigento, da Trapani a Gela. Adesso Giuseppe Scozzari, un passato da parlamentare della Rete e poi del Ppi (diventando segretario regionale di entrambi i partiti), vede però una “stagnazione” nelle denunce. Effetto, secondo lo Scozzari-pensiero, del “momento difficile per il fronte antimafia”, colpito da inchieste che, “a prescindere dal merito”, hanno portato l’effetto di “delegittimare le persone che hanno avuto un ruolo in questo percorso”. Un percorso iniziato, appunto, oltre 25 anni fa: “Era il 1990 – ricorda – e si stava celebrando il processo ‘Bronx 1’, a Gela. Difesi il primo testimone di giustizia, Nino Miceli”.
Proprio Gela sta vivendo un momento di ribellione. Appena un mese fa le denunce degli imprenditori taglieggiati hanno portato a una retata…
“Sì, ma mi faccia partire dal 1990. Voglio raccontarle una sensazione per farle capire cosa intendo”.
Nino Miceli, diceva.
“Dopo l’uccisione, a Gela, di un gioielliere anti-racket Giordano , Nino Miceli decise di collaborare. Il mio nome gli fu segnalato da Leoluca Orlando ed Alfredo Galasso e così, giovanissimo, mi trovai alla Dda di Caltanissetta. Miceli aveva un autosalone e la cosa che mi colpì di più nella sua storia fu il doppio incendio che la sua azienda subì. Aveva subito il primo, poi aveva iniziato a pagare, poi era arrivato il secondo”.
Cosa era successo?
“Il primo era stato appiccato dalla mafia, il secondo dalla stidda. Gli dissero che doveva rivolgersi anche a loro. Vivere in quel modo, schiavi di una richiesta dopo l’altra, è impossibile. A quel punto decise di denunciare e si trasferì”.
In quel momento storico non era facile.
“No, non lo era. Eppure si stava creando un’attenzione crescente su Gela: il presidente della Repubblica Francesco Cossiga e il ministro degli Interni Vincenzo Scotti si erano battuti perché anche a Gela ci fosse un tribunale, e le forze dell’ordine inviarono i migliori uomini, ad esempio l’allora colonnello Domenico Tucci. Il clima era difficile, ma era l’inizio di una fase”.
E oggi? Oggi a che punto è quella fase?
“Oggi le istituzioni sono più rodate, le sacche di resistenza si riducono e lo Stato è più attento. È più facile”.
Davvero è più facile?
“Sulla carta sì, ma adesso sono di nuovo giorni complicati. Ci sono fasi di crescita e di regressione dei fenomeni sociali. Dopo l’exploit degli anni scorsi siamo tornati alla stagnazione”.
Perché, secondo lei?
“Oggi assistiamo a un momento difficile per il fronte antimafia. Io ho partecipato alla nascita di molti dei protocolli di legalità di Confindustria, ho assistito in molti processi i suoi associati che hanno denunciato le estorsioni. Vedere oggi quello che sta accadendo a tre figure come Antonello Montante, Roberto Helg e Silvana Saguto è triste”.
Si spieghi.
“Non entro nel merito, perché non conosco le carte. Però questi momenti creano sfiducia, portano alla delegittimazione dei protagonisti di una fase, indeboliscono con le polemiche collegate il percorso degli imprenditori. Destabilizzano la convinzione di chi si approccia a un mondo così difficile. Un mondo che nasconde grandi timori”.
Già. Mi racconti questo aspetto, questi timori.
“Un imprenditore che denuncia si pone essenzialmente due domande: una riguarda la famiglia, l’altra l’azienda. ‘Che succederà adesso a mio figlio?’. ‘Potrò continuare a lavorare?’. Ovviamente l’avvocato è lo sfogo di queste domande”.
Come risponde?
“Rispondo che la mafia non torcerà un capello alla famiglia”.
Facile dire così, senza che ci siano i propri figli di mezzo.
“Ma è vero. Non sono mai stato smentito: la mafia non ha interesse a colpire il parente di un testimone, perché peggiorerebbe la propria posizione. Un delitto sarebbe il riscontro definitivo alle denunce. È cinico, ma è vero”.
All’altra domanda cosa risponde? Cosa accadrà alle aziende?
“È ovvio che l’attività va avanti se sei bravo. A Palermo si dice ‘se sei tu ad aiutarti’: è chiaro che a quel punto bisogna cautelarsi con un antifurto, con un impianto di videosorveglianza, eccetera”.
Faccio l’avvocato del diavolo: è un costo, c’è la crisi.
“Chi decide di collaborare sa che questa decisione avrà un costo. Le dico di più: avrà tanti costi. Non bisogna nascondersi: è un percorso complicato. Questo, però, è il prezzo della libertà. Quanto vale la nostra libertà?”.
Chiaro. Torniamo al punto di partenza: come si inverte la stagnazione?
“Bella domanda. Le istituzioni devono fare la loro parte”.
Come?
“Gli enti locali devono condurre un’attività capillare, creando sinergie con le prefetture, con i sindaci e le associazioni di categoria per dare sicurezza”.
Mi faccia un esempio specifico, altrimenti non la seguo.
“Istituire comitati di sorveglianza e sicurezza, avviare sportelli antiracket per spiegare agli imprenditori in che modo lo Stato può assisterli dopo la denuncia, ad esempio attraverso le agevolazioni per l’accesso al credito. Bisogna far sentire la forza di uno Stato credibile. E poi ci sono le iniziative più specifiche, ad esempio quella dell’area industriale di Agrigento”.
Cosa è successo?
“Ad Agrigento Confindustria ha organizzato un sistema di videosorveglianza nell’area industriale. Per farlo, bisogna dire, ha trovato porte spalancate nel mondo delle istituzioni, come è giusto che accada. Sta di fatto che da allora nell’area industriale non ci sono stati fatti riconducibili al racket. Se lo Stato dimostra di essere in grado di tutelare la famiglia e l’azienda è fatta: tutte le paure dell’imprenditore svaniscono. Lo dobbiamo a chi crede nello Stato. Lo dobbiamo, se vogliamo invertire questa tendenza”.
SCHEDA
Prima la suggestione della magistratura. Poi la politica. Infine il ritorno al primo amore, la professione di avvocato che esercita ad Agrigento, Palermo, Milano e Verona dove ha studio con altri soci. Giuseppe Scozzari è tornato nel suo studio subito dopo la fine dell’esperienza politica: nel 1993 divenne consigliere comunale ad Agrigento e subito dopo segretario regionale della Rete, approdando alla Camera a ventinove anni, nel 1994. Rieletto nella legislatura successiva, non fu invece riconfermato nel 2001 (anno del 61 a 0), quando si presentò alle elezioni Politiche da segretario regionale del Ppi, perse il seggio per meno di 300 voti. Poi, dopo un breve passaggio alla presidenza dell’Udeur in Sicilia, il ritorno alla professione: “A quel punto – racconta adesso – ho deciso di abbandonare la politica. Me l’ha insegnato Orlando: quando vieni ‘silurato’ è meglio farsi da parte. Avevo, e ho, una professione che amo. Sono tornato a quella”.
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