MISURE CAUTELARI PERSONALI LA SUPREMA CORTE: NON SI PUÒ PRETENDERE L’ESPROPRIO DELLA PROPRIETÀ DELL’IMPRENDITORE ARRESTATO.
La Corte Suprema di Cassazione, il 19 maggio 2016 con sentenza n. 23258, si è pronunciata su un ricorso avverso l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di un imprenditore accusato di corruzione e turbativa d’asta.
Il controllo di legittimità operato dalla Corte si è incentrato (non avendo la Corte alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende oggetto d’indagine) sulla sola esposizione delle ragioni giuridicamente significative che hanno determinato l’applicazione della misura cautelare e sull’assenza nel testo di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.
La Corte Suprema ha annullato l’ordinanza del Tribunale del riesame di Roma ritenendo, così, fondati i motivi di ricorso fatti valere dalla difesa dell’indagato. Tra i motivi avevano trovato posto la contestazione riguardante la conservazione delle esigenze cautelari, malgrado il pericolo di inquinamento delle prove dovesse essere escluso dalla natura delle fonti di prova raccolte (documenti e intercettazioni) e malgrado, quanto al pericolo di reiterazione del reato, non ci fossero precedenti penali e l’interessato non ricoprisse più la carica di amministratore della società nel cui ambito si sarebbero realizzate le condotte illecite. Infatti, il pubblico funzionario era stato licenziato dall’ANAS.
La Corte in questa sentenza sostiene che ai fini delle ipotizzate condotte corruttive non è dato cogliere una logica e adeguata spiegazione, al di là di un generico riferimento all’eccezionale gravità delle vicende in contestazione e alle modalità di commissione dei reati, delle ragioni che dovrebbero fondare la indispensabile presenza dei requisiti di attualità e concretezza del pericolo di reiterazione.
Proprio in relazione a quanto finora esposto è necessario ribadire l’orientamento precedentemente espresso ed affermato dalla Suprema Corte (Sez. 6, n. 3043 del 27 Novembre 2015, dep. 2016, Esposito, Rv. 265618), secondo cui il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, così come introdotto nell’art. 274, lett. c), cod. proc. pen. dalla legge 16 Aprile 2015, n. 47, non va equiparato all’imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, ma sta ad indicare la c.d. continuità del “periculum libertatis” nella sua dimensione temporale, da apprezzare sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a realizzare.
Peraltro, la Corte va al di là di ciò ed afferma che «non può ritenersi sufficiente la prospettata correlazione del pericolo di recidiva al mantenimento, da parte dell’imprenditore indagato, di un potere decisionale nelle scelte dell’azienda di cui egli, nonostante la dismissione dalla carica ricoperta, continua a possedere la maggioranza azionaria, non potendosi certo pretendere che l’emissione di una misura cautelare determini, al fine qui considerato, la necessità di rinunziare al diritto di proprietà».