D.LGS.231/01 APPLICABILE LA DOPPIA SANZIONE SE GLI ILLECITI NON SONO SOVRAPPONIBILI
La legge delega fiscale (L. n.111/2023) mira ad una revisione del sistema sanzionatorio, penale e amministrativo, puntando ad una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione. Il fine della legge è quello di giungere ad una completa attuazione del principio del ne bis in idem, che si configura quando i fatti contestati siano giuridicamente identici nei propri elementi strutturali.
Tale situazione, con riferimento al rapporto tra i procedimenti amministrativo e penale eventualmente scaturenti da violazioni di natura fiscale, è regolata dal D. Lgs.74/2000 il quale, introducendo il principio di specialità, prevede che quando una medesima violazione è punita da una sanzione penale e da una sanzione amministrativa “si applica la disposizione speciale” (“in concreto, il più delle volte risulterà speciale la norma penale”, così C.M. 4 agosto 2000, n.154).
Questo principio, nella realtà, non ha mai trovato effettiva applicazione, innanzitutto perché è necessaria l’identità del trasgressore. Pertanto, in concreto, sembrerebbe operare solo per le violazioni commesse nell’ambito di imprese individuali, artisti o professionisti ovvero associazioni o enti privi di personalità giuridica, con conseguente esclusione di tutte le violazioni tributarie costituenti reato commesse da società, in quanto per la parte fiscale ne risponde l’ente e per quella penale la persona fisica.
A tale riguardo, la bozza di decreto delegato introduce nel D. Lgs.74/2000 l’art. 21 ter, puntando ad estendere il principio di specialità anche nel rapporto tra la sanzione tributaria e la corrispondente sanzione amministrativa dipendente da reato ex D. Lgs.231/01. Tale bozza, tuttavia, non sembra essere molto efficace. Non vengono superate, infatti, le criticità già presenti nell’attuale disciplina, in quanto, anche in questo caso, per evitare la doppia sanzione sarà necessaria la perfetta coincidenza tra i due illeciti, eventualità esclusa dalla Cassazione che ha sempre ritenuto le violazioni non sovrapponibili.
Un tentativo di superamento di tale problema da parte del legislatore delegante deriva dalla previsione secondo cui, se per lo stesso fatto è stata applicata al soggetto una sanzione penale o una sanzione amministrativa o una sanzione amministrativa dipendente da reato ex Decreto 231, il giudice o l’autorità amministrativa, al momento della determinazione della sanzione di propria competenza, tiene conto di quelle già applicate. Da ciò emerge chiaramente che la norma si presenta come una disposizione di principio che lascia ampi margini di discrezionalità al giudice e all’autorità amministrativa e che porta a ritenere difficilmente superabile il problema della “doppia sanzione”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaD.LGS.231/01 L’ISTITUTO DELLA MESSA ALLA PROVA NON TROVA APPLICAZIONE NEI PROCEDIMENTI INERENTI LA RESPONSABILITÀ DELL’ENTE
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n.14840/2022, hanno risolto la questione interpretativa riguardante l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova di cui all’art. 168 bis c.p. ai procedimenti riguardanti la responsabilità da reato dell’ente ex Decreto 231.
A fronte degli orientamenti contrastanti dei giudici di merito sul tema, le Sezioni Unite hanno risolto negativamente la questione concludendo nel senso della inapplicabilità dell’istituto in esame ai procedimenti riguardanti l’ente.
Il ragionamento della Suprema Corte prende le mosse dall’analisi della natura della responsabilità da reato dell’ente, che viene considerata un tertium genus rispetto ai modelli tradizionali di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa. Infatti, il sistema normativo introdotto dal D. Lgs.231/01, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, costituisce un corpus normativo di peculiare impronta. D’altro canto, sempre nella medesima pronuncia si evidenzia che la messa alla prova ex art. 168 bis c.p. deve, invece, inquadrarsi nell’ambito di un “trattamento sanzionatorio” penale.
Di conseguenza, conclude la Corte, che “l’istituto della messa alla prova non può essere applicato agli enti, a ciò ostando, innanzitutto, il principio della riserva di legge di cui all’art. 25, comma 2, della Costituzione. L’introduzione attraverso provvedimenti giurisdizionali di un trattamento sanzionatorio ad una categoria di soggetti – gli enti – non espressamente contemplati dalla legge penale, si pone in contrasto con il principio di legalità della pena, del quale la riserva di legge costituisce un corollario”.
Inoltre, a parere della Corte, la messa alla prova sarebbe insuscettibile di trovare applicazione nei confronti dell’ente, in quanto la disciplina di cui all’art. 168 bis c.p. è disegnata e modulata specificamente sull’imputato persona fisica e sui reati allo stesso astrattamente riferibili.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaIL CONDOMINO MOROSO PUO’ PAGARE DIRETTAMENTE IL TERZO CREDITORE (Cass. Sez. Civile III, ordinanza n. 34220/2023)
La Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha riconosciuto al singolo condomino moroso, al fine di evitare eventuali azioni forzose nei suoi confronti, la possibilità di pagare direttamente il terzo creditore.
In un condominio, in caso di forniture o appalti con soggetti terzi è l’amministratore, quale rappresentante del condomino, che assume gli obblighi e deve effettuare i pagamenti al fornitore o all’appaltatore; pertanto, il condomino versa le somme dovute a titolo di quote condominiali e l’amministratore, a sua volta, estingue il debito con il terzo creditore.
Nel caso in cui vi siano uno o più condomini che non abbiano versato la propria quota relativa al debito contratto con il terzo, l’amministratore, in ossequio all’art. 63 delle disp. att. del Codice Civile ha l’obbligo di consegnare la cd. “lista dei morosi” al terzo creditore per poter permettere allo stesso di agire a tutela del proprio diritto di credito.
Nella vicenda in esame una ditta edile creditrice di un condominio, dopo aver ottenuto un decreto ingiuntivo contro il condominio stesso e la detta “lista dei morosi” da parte dell’amministratore, aveva intimato il pagamento del credito restante ai tre condomini morosi con tre precetti differenti.
I tre condomini morosi, in opposizione all’esecuzione dei precetti, contestavano il calcolo dell’importo dovuto poiché non si poteva richiedere l’intero importo non ancora versato alla ditta ma questa doveva calcolare per il singolo condomino moroso l’importo complessivo allo stesso spettante in proporzione: alle proprie quote di partecipazione al condominio in millesimi e l’intero corrispettivo dovuto all’impresa edile per i lavori eseguiti, detraendo eventuali importi già pagati.
La Cassazione, dando ragione preliminarmente alle richieste dei condomini morosi sull’importo dovuto pro quota, ha colto l’occasione per enunciare il principio in commento ovvero che è ammesso il pagamento diretto da parte del condomino moroso della propria quota al terzo creditore senza passare dall’amministratore.
Avv. Biagio Cimò
ContinuaD.LGS.231/01 SI CONFIGURA RESPONSABILITÀ DELL’ENTE ANCHE IN CASO DI REATO COMMESSO DA SOGGETTI CHE ESERCITANO UN CONTROLLO SOLO DI FATTO
La Corte di Cassazione, con la sentenza n.3211/2023, ha esteso la nozione di controllo rilevante al fine di ritenere sussistente la responsabilità da reato dell’ente.
Con la sentenza in commento, infatti, la Corte chiarisce che il riferimento dell’art. 5 D. Lgs.231/01 alle “persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente”, non si riferisce soltanto ai soggetti che, pur non avendo la maggioranza dei voti in assemblea, esercitino comunque un’influenza dominante, ma anche ai soggetti che pur non rivestendo una carica formale all’interno della società, si trovano, di fatto, ad esercitare un’attività di controllo che “ricomprende anche l’attività di vigilanza o, comunque, di verifica e incidenza nella realtà economico-patrimoniale della società, sovrapponibile a quella svolta dai sindaci o dagli altri soggetti a ciò formalmente deputati”.
Pertanto, nel caso in cui il reato sia commesso a vantaggio dell’ente da soggetti che non rivestono una carica formale all’interno della società, ma in punto di fatto si trovano ad esercitare una posizione di controllo, si configura la responsabilità dell’ente ex Decreto 231.
Nella medesima pronuncia la Suprema Corte specifica, inoltre, che se il reato è commesso da soggetti che esercitano un ruolo di controllo e di gestione solo di fatto, la società è chiamata a rispondere anche in presenza di un Modello organizzativo, che non esplica, in tale caso, efficacia esimente. Infatti, se la società è gestita in modo occulto, vuol dire che la stessa non si è dotata di sistemi organizzativi per la prevenzione dei reati “che dunque non possono considerarsi adeguati, anche ove gli stessi siano conformi ai codici di comportamento approvati dal ministero della Giustizia”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaD.LGS.231/01 LA SANZIONE DELLA SOSPENSIONE O REVOCA PUÒ RIGUARDARE ANCHE UNA SOLA AUTORIZZAZIONE
Con la sent. n.47564/2023, la Corte di Cassazione ha segnato i confini tra le sanzioni interdittive applicabili all’ente in caso di responsabilità amministrativa da reato dello stesso.
L’elenco delle sanzioni interdittive è contenuto nell’art. 9 co.2 del d.lgs. 231/01 “Le sanzioni interdittive sono: a) l’interdizione dall’esercizio dell’attività; b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi”.
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce la portata delle sanzioni interdittive di cui alle lett. a) e b) dell’art. 9, specificando che la sanzione della sospensione o revoca di cui alla lettera b) può riguardare anche una sola autorizzazione e non necessariamente occorre bloccare tutti i nulla osta, altrimenti detta sanzione sarebbe del tutto equiparabile a quella di cui alla lettera a), ovvero l’interdizione dall’esercizio dell’attività.
Nella vicenda che ha dato origine alla pronuncia della Corte era stata applicata in via cautelare ad un’impresa la sanzione dell’interdizione dall’esercizio dell’attività, poi sostituita con quella della sospensione delle autorizzazioni in sede di riesame.
A fronte del ricorso presentato dal Pm secondo cui la sanzione della sospensione si riferirebbe “ai soli provvedimenti che legittimano, in tutto o in parte, lo svolgimento dell’attività d’impresa”, la Cassazione si è espressa nel senso che tale interpretazione “contrasta con la lettera stessa della legge che circoscrive la sua portata ai provvedimenti amministrativi funzionali alla commissione dell’illecito”.
Pertanto, in sede di applicazione di una misura cautelare, il giudice deve limitare il provvedimento cautelare a quell’attività dell’ente alla quale si riferisce l’illecito.
La Corte ha altresì ricordato che la risposta sanzionatoria nei confronti dell’ente deve sempre essere coerente al principio di gradualità e proporzionalità, espressamente sancito dal decreto 231.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS.231/01 INAPPLICABILE LA RIDUZIONE DELLA SANZIONE PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO SE IL REATO È DI PERICOLO
Con la sent. n.50770/2023 la Terza sezione penale della Corte di Cassazione ha negato la possibilità di applicare alla società l’attenuante della particolare tenuità del fatto nel caso in cui il reato presupposto ex D. Lgs.231/01 sia un reato di pericolo, come nel caso degli illeciti ambientali.
La vicenda che ha dato origine alla pronuncia della Corte riguardava l’applicazione di una sanzione pecuniaria ad una società per azioni che aveva riversato in un corso d’acqua centinaia di tonnellate di fanghi di depurazione diluiti con acque reflue di scarico, rendendosi colpevole di illeciti ambientali. A fronte del ricorso presentato dalla difesa per violazione di legge con riferimento (anche) all’art. 12 del D. Lgs.231/01 la Cassazione si è espressa in senso negativo, ritenendo non applicabile a tale situazione l’attenuante prevista dal Decreto.
Infatti, sebbene l’art. 12 co.1 lett. b) del D. Lgs.231/01 stabilisca che “la sanzione pecuniaria è ridotta (…) se il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità”, la Suprema Corte, nella sentenza in commento, ha precisato che tale riduzione “non può che trovare applicazione a quei reati che presuppongono un danno patrimoniale e non anche a quelli che si esauriscono in violazioni formali e di pericolo astratto, in cui vengono punite determinate condotte indipendentemente e a prescindere dalla produzione di un danno, patrimoniale e non patrimoniale”.
Nella medesima pronuncia la Corte ha altresì specificato che ai fini della riduzione della sanzione non basta da sola l’adozione di un modello organizzativo, se questo non è idoneo scongiurare il reato in questione e se non viene messo nelle condizioni di poter operare in concreto, non esistendo “alcun automatismo tra l’adozione del modello e la concessione dell’attenuante, che è invece subordinata, come evidenziato anche in dottrina, ad un giudizio di natura fattuale, essendo il giudice tenuto a verificare se la lettera della norma sia stata rispettata, specificamente e nel suo complesso”.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaCONDOMINIO: APPARTENGONO ALLA GIURISDIZIONE ORDINARIA LE CONTROVERSIE ATTINENTI I RAPPORTI DI UTENZA INSTAURATE NEI CONFRONTI DEGLI ENTI EROGATORI DEI SERVIZI PUBBLICI (Cass. S.U. ord. n. 258 del 04.01.2024)
La Cassazione in Sezione Unite è intervenuta per dirimere e specificare la questione relativa alla ripartizione della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo nelle controversie riguardanti i servizi pubblici essenziali e, in particolare, con riguardo alla fornitura di energia elettrica affidata dallo Stato ad un gestore.
La vicenda in esame trae origine da una domanda di risarcimento del danno avanzata da un condominio, innanzi al Tribunale di Catania, contro una società di distribuzione e somministrazione di energia elettrica perché un forte sbalzo di tensione nella fornitura elettrica aveva causato dei danni rilevanti all’ascensore condominiale.
Il Tribunale etneo, preliminarmente, si era dichiarato incompetente sulla materia rilevando che le controversie aventi ad oggetto la fornitura di servizi pubblici essenziali sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Tuttavia, riassunto il giudizio innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia la stessa sezione staccata di Catania dubitava della propria competenza in materia e sollevava la questione innanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con l’ordinanza in commento, assegnava la materia trattata nel caso di specie alla giurisdizione del giudice ordinario.
La Suprema Corte ha colto anche l’occasione per specificare e precisare i confini giurisdizionali delle controversie aventi ad oggetto la materia dei pubblici servizi essenziali in particolare: sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autorizzativo (Cass. S.U. n. 23745/2004) o qualora le controversie riguardino un danno riflesso dell’organizzazione del servizio; qualora, invece, la controversia riguardi i rapporti di utenza (come nel caso in esame) o non si controverte sull’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo dell’ente gestore la giurisdizione appartiene al giudice ordinario.
Avv. Biagio Cimò
ContinuaGiustizia riparativa: bocciata prima di partire. Discutibile decisione del Tribunale di Genova
Una delle innovazioni culturali che ha destato grande interesse e grande attesa, soprattutto nel mondo carcerario, è (o forse era) costituita dall’istituto della “giustizia riparativa”, che sarebbe consistito in una sorta di patto tra l’imputato, la vittima e lo Stato, che in questo caso fungerebbe da mediatore e\o anche da soggetto offeso dal reato. Si tratta di una opportunità data al soggetto che ha commesso il reato, di recuperare rispetto alla propria condotta delittuosa innanzi alla società, alla vittima ed allo Stato.
Il Tribunale di Genova con una decisione discutibile, boccia l’istituto rilevando due limiti: 1) il primo di natura interna, ossia relativo all’impossibilità di dare attuazione all’istituto in quanto mancherebbe non solo qualsiasi Centro di giustizia riparativa, ma anche il personale formato ed idoneo a svolgere la mediazione; 2) il secondo limite (esterno) consisterebbe secondo il tribunale di Genova in un palese contrasto con la normativa comunitaria.
Uno dei limiti evidenziati dal Tribunale sarebbe la iper-vittimizazzione della persona offesa. Ma si fa rilevare che nella maggioranza dei processi non vi una persona fisica offesa, bensì vi è lo Stato soggetto offeso dal reato ed in questo caso la mediazione potrebbe funzionare, consentendo al reo da un lato di pagare il proprio debito e dall’altro di intraprendere un percorso di rieducazione e reinserimento sociale, che in fondo è uno degli obiettivi che si prefiggeva (l’imperfetto è d’obbligo) la riforma.
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on. avv. Giuseppe Scozzari
ContinuaD.LGS.231/01 IL MODELLO ORGANIZZATIVO DEVE PREVEDERE SPECIFICHE REGOLE PER LA NOMINA DEL DIFENSORE DELL’ENTE
La Corte di Cassazione con sent. n. 32110/2023 ha consolidato un importante principio in tema di difesa dell’ente nel caso in cui il rappresentante legale sia indagato per il reato presupposto.
La pronuncia della Suprema Corte trae il proprio fondamento dall’art. 39, co.1 del D. Lgs.231/01, che dispone un divieto assoluto e generale di rappresentanza stabilendo che “l’ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo”.
Coerentemente alla lettera della norma, la Corte ha stabilito che il Modello Organizzativo deve prevedere delle regole cautelari specifiche volte a munire l’ente di un difensore nel caso in cui ad essere indagato del reato presupposto sia proprio il legale rappresentante dell’ente. In tale ipotesi, infatti, per evitare le possibili situazioni di conflitto di interesse, il difensore deve essere nominato da un soggetto specificamente delegato, in modo da tutelare l’efficacia del diritto di difesa.
Tale principio, con la pronuncia in esame, diventa una vera e propria regola cautelare che ha riguardo al momento successivo alla commissione del fatto di reato ed è volta ad impedire che la nomina del difensore dell’ente indagato da parte del legale rappresentante a sua volta indagato del reato presupposto, possa produrre effetti dannosi sul piano delle strategie difensive.
Il Modello di Organizzazione e Gestione, pertanto, non dovrebbe essere più soltanto idoneo a “prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi”, così come dispone l’art.6, co.1, lett. a) del D. Lgs.231/01, ma deve valutare ex ante tutte quelle situazioni che potrebbero pregiudicare l’efficace difesa dell’ente, attraverso l’adozione di adeguati meccanismi come quello di affidare la nomina del difensore ad un soggetto diverso dal legale rappresentante nel caso in qui questi sia indagato del reato presupposto.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
ContinuaIL FALSO IN BILANCIO CHE DETERMINA LA BANCAROTTA FRAUDOLENTA DEVE ESSERE VALUTATO AL MOMENTO DEL FALLIMENTO DELL’IMPRESA
Con la sentenza n.37264/2023 la Corte di Cassazione ha chiarito il rapporto tra il reato di falso in bilancio e quello di bancarotta fraudolenta impropria.
La questione giunta all’attenzione della Suprema Corte riguardava il momento in cui deve essere valutato il reato di falso in bilancio, quando questo sia presupposto di quello di bancarotta fraudolenta ex art. 223 L. Fall.; in particolare, se la realizzazione di tale illecito deve essere valutato in relazione al momento della presentazione del bilancio, con informazioni non veritiere, ancorché in tale momento l’illecito non costituisse reato, ovvero in relazione ai parametri vigenti al momento del fallimento dell’impresa.
La ricorrente, con unico motivo di ricorso, denunciava la violazione di legge in relazione alla normativa prevista per il falso in bilancio alla data di consumazione del reato di bancarotta fraudolenta. In particolare, la ricorrente lamentava il fatto che i giudici di merito, nel ritenere sussistente il reato di bancarotta fraudolenta, avessero fatto riferimento ai parametri di punibilità introdotti nel 2015, nonostante i fatti contabili risalissero al 2011, quando gli stessi non rientravano nell’area di punibilità del reato di false comunicazioni sociali.
L’art. 223 L. Fall. punisce gli amministratori, i direttori generali, i sindaci, i liquidatori di società dichiarate fallite, i quali abbiano cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società commettendo alcuni dei fatti previsti (anche) dall’art. 2621 c.c. (false comunicazioni sociali).
La Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha chiarito che il reato di bancarotta impropria da falso in bilancio si struttura come reato di evento per la cui realizzazione si richiede la commissione di una di quelle condotte tra cui rientra il falso in bilancio ex art. 2621 c.c.
Precisa la Corte che “per accertare il reato è necessario aver riguardo al periodo successivo alla approvazione dei bilanci stessi, nel senso di accertare se le false dichiarazioni sociali, nascondendo la reale entità delle perdite della società, abbiano determinato o contribuito a determinare il dissesto”.
Di conseguenza, il momento consumativo del reato di bancarotta societaria, come specificato dalla Corte, è da individuarsi nella dichiarazione di fallimento, che fissa anche il “dies a quo” da cui decorre la prescrizione, non rilevando la circostanza che il reato presupposto – falso in bilancio – sia da riferire ad un momento antecedente alla dichiarazione di fallimento stessa.
L’intento del legislatore, infatti, non è quello di punire il falso in bilancio con una pena più elevata qualora dallo stesso discenda il fallimento della società, ma è quello di considerare la condotta consistente nella falsificazione del bilancio societario per assoggettarla a sanzione penale a titolo di bancarotta fraudolenta, coerentemente al principio cardine della legge fallimentare per cui la sopravvenienza del fallimento qualifica in modo autonomo quei fatti anteriori che, altrimenti, sarebbero qualificabili in altri schemi di reato.
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Dott.ssa Concetta Sferrazza
on. avv. Giuseppe Scozzari
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